Un piccolo gioco di parole con il titolo italiano del capolavoro di John Ford (Ombre Rosse) e il progetto musicale che ha inaugurato il festival (Broken Shadows) per aprire il racconto di una nuova avventura in jazz degli spericolati pistoleri dell’Associazione Controtempo che hanno vinto alla grande il loro duello con il maledetto coronavirus e le sue profilassi presentando un’edizione di Jazz & Wine of Peace assolutamente stellare con artisti che fanno la gioia del pubblico internazionale che da anni affolla la rassegna di Cormons.
Anche in questa XXIV edizione la tradizione del festival è perfettamente rispettata. In cartellone, accanto alle superstar del Jazz mondiale maestri acclamati delle blue notes (Scofield, Holland, Towner, Humair ecc.), ci sono gli astri emergenti, le giovani certezze, le glorie locali e le nuove promesse, tutti insieme per una musica viva e vitale, da sempre nomade, in movimento e in continua evoluzione, oggi più che mai.
Non sembri affettazione o servilismo ma va dato prima di tutto merito all’Ass. Controtempo per la capacità con i loro programmi di fotografare nitidamente, anno dopo anno, lo stato dell’arte del genere anche osando giocare con gli stili, con proposte che a volte fanno storcere il naso ai puristi ma che sono sempre di altissima qualità e interesse tenendo conto in primo luogo del pubblico, “preziosissimo compagno di viaggio”.
Prima di cominciare con la recensione del primo fantastico concerto, almeno un cenno è doveroso all’artista Beppe Giacobbo che anche quest’anno ha saputo indovinare l’immaginifico logo del festival e l’essenziale grafica che lo distingue: la campana di una tromba stilizzata in contro-prospettiva diventa un calice di vino ma suggerisce anche lo sguardo di un occhio attento, il tutto insieme può far pensare anche un bizzarro futuristico monociclo.
Broken Shadows. Tim Berne: Alto sax – Chris Speed: tenor sax -Reid Anderson: contrabbasso – Dave King: batteria.
Un attacco che più classico non si può con perfetto interplay tra il sax alto del leader e il tenore di Speed per un hard bop (hard blues) appena sfilacciato e destrutturato nelle intonazioni sostenuto da una ritmica che progressivamente si complica, ingarbuglia e frammenta in battute sempre più astratte, in una progressione che sembra avere la forza di uno sgretolamento sonoro; è un processo continuo di scomposizione. Sono suoni di grandi contrasti ed evidenti stacchi in chiaro scuro delle armonie più tradizionali direzionate verso un perenne piacevole disequilibrio che è anche visivo, e si perdoni la pochezza di questa considerazione che vuole essere solo indicativa di qualcosa di molto più serio.
Tim Berne è un omone alto e grosso come un albero che imbraccia con infinita grazia e delicatezza il suo sax alto che tra le sue mani da boxer sembra un giocattolo; gli fa da controcanto il solito Speed che al contrario è un omino minuto che soffia a pieni polmoni con la furia di un gigante dentro al suo enorme sax tenore che sembra quasi più alto di lui, dalle sneakers al borsalino compresi.
Naturalmente è solo una battuta un po’ greve e di cattivo gusto ma che serve a restituire l’idea di un suono complessivo dalle ottime disarmonie prestabilite, dalle geometrie non euclidee e dalle proporzioni fuori schema.
Qualcuno del pubblico chattando impunemente su WhatsApp durante il concerto informa l’amico dall’altro capo del maledetto smartphone che lo stile gli ricorda l’armolodia di Ornette Coleman. Non si sbaglia proprio per niente. E’ al demiurgo del free jazz che il nuovo lavoro di Berne sembra ispirarsi. Infatti, il quartetto, senza quasi farsene accorgere, scivola nel meraviglioso preciso disordine della freeform per poi riagguantare i ritmi sincopati del tema iniziale in un continuo guizzare e repentino immergersi nel mare scuro di note che sembrano ombre spezzate.
A questo punto diventa preziosissimo l’assolo del contrabbassista Anderson sul quale vanno ad inserirsi lamentosi i due fiati che sembrano raccontare di una lontanissima, perduta avventura conclusasi nel modo più triste e sconsolante. E’ la stasi della linea d’ombra di Conrad, la bonaccia oleosa e immobile degli orizzonti perduti e ormai irraggiungibili.
“The amplifier is sbolato”: Berne ad un certo punto interrompe l’esecuzione e nel suo italiano maccheronico e divertente segnala ai tecnici di palco un problema all’amplificatore del contrabbasso; è una sorta di siparietto comico che tra qualche imbarazzo e una risata del pubblico in un attimo si risolve.
Subito dopo c’è spazio per un brano che apparentemente ha una struttura e un andamento ritmico perfettamente fusion con momenti funkeggianti che naturalmente vanno subito a complicarsi in verticale anche se non si fa mancare un motivetto che fa tu-tu-tu-tu, una vera gioia per il cuore, da mandare tutti sulla luna.
L’esecuzione del quartetto è davvero indefinibile, cangiante e sempre inaspettata; di certo con questi quattro cavalieri delle blue notes non c’è proprio il tempo di annoiarsi. In alcuni momenti il sound è gaio e scatenato, in altri la musica diventa inspiegabilmente struggente e del tutto notturna come nelle più sconsolate “protest songs”.
Ci pensa l’alto sassofonista a diradare i dubbi rivelando che la loro scaletta è tutta concentrata nella riproposizione di brani di Ornette Coleman, Charlie Haden, Dewey Redman, Julius Hemphill.
Ancora una piccola pausa per aggiustare i volumi del solito amplificatore che non ne vuole proprio sapere di fare il proprio dovere e si riparte al galoppo sfrenato inseguendo il free di Coleman.
Una menzione speciale merita l’ottimo batterista King sempre incisivo ed energico ma mai sguaiato anche nei brani più indiavolati. Nonostante i ripetuti problemi d’amplificazione Anderson impugna delicatissimo l’archetto del suo contrabbasso e riesce magistralmente a tener dritta la prora della nave mentre i suoi compagni s’ingegnano a farla continuamente “strambare” con un effetto straordinario di tensione e compressione davvero affascinanti.
C.O.D fantastico brano di Coleman compreso nel suo album altrettanto colorato “Ornette at 12” del 1969 che comprendeva nella band Denardo il figlio dodicenne alla batteria che poi lo seguirà per tutto il resto della carriera fino al 2015. La musica è di una bellezza cristallina, ricca di un sound compatto e levigato, in fondo del tutto inaspettato.
Nell’acclamato bis un tropicalismo con tanto Sud America nelle vene. Alla fine della festa un bel brindisi sul palcoscenico con il vino della pace come di rito. Prosit.
Il numero di giugno 2021 della blasonata rivista Musica Jazz (n.847) è stato tutto dedicato a celebrare la carriera dell’alto sassofonista di Syracuse, New York. Una sua dichiarazione è sembrata assolutamente emblematica e significativa:
“E’ davvero difficile schivare il proprio stile, almeno per me. Se guardi con attenzione, le strategie sono ricorrenti ma interpretate di volta in volta in maniera diversa: le note cambiano, le persone pure. Mi risulta più facile cambiare la musica semplicemente suonandola con persone diverse, perché gli input che ne conseguono sono diversi. A volte si può fare anche da soli. Ho scritto tanto, di recente…In genere un musicista sviluppa uno stile che poi sottopone a delle variazioni, sperando di riuscire a mascherarlo continuamente. Il punto non è essere originali, il punto è fare buona musica, il che poi è soggettivo. Io non credo di essere originale, e la mia musica che propongo non è così complicata come si dice, cerco di scrivere tutto in 4/4, i musicisti con cui suono potrebbero confermartelo. Ti dirò di più: musicalmente sono meno dotato della maggior parte di loro. Però penso di avere delle idee, e questo compensa un sacco di altre cose; penso di essere bravo a riunire le persone e di essere un buon leader. Dopo di che non saprei. Forse dovrei fare il general manager di una squadra di basket, ho la sensazione che sarei davvero bravo a costruire la squadra.”
Flaviano Bosco © instArt