Con tutta la forza della sua poesia Patti Smith ha fatto tappa a Lignano Sabbiadoro con il suo quartetto, in una serata piena di pioggia calda d’estate con nuvoloni, lampi e tuoni. E’ stata una magia indescrivibile che non è proprio possibile ridurre a poche righe. Ci proveremo ugualmente almeno per dare una forma comprensibile alle tante emozioni suscitate da quello che più che un concerto è stato, letteralmente, un rito sciamanico apotropaico.

Alle 21.00 precise, con un girasole in mano, la cantante è salita sul palco, tra i due chitarristi intonando semplicemente la canzone “Wing” dall’album “Gone Again” del 1996: “Ero un’ala nel cielo azzurro sull’oceano, librata nella pioggia, ero libera, non avevo bisogno di nessuno, era bellissimo, era bellissimo”.

Ed è stata subito la sua voce a dominare su tutto, sopra il temporale, le gradinate di cemento, la parata di Donnarumma, il green pass, la fradicia estate … Non ci può essere che lei, stupenda come una visione salvifica, un’apparizione della Madonna con sullo sfondo, come incredibile scenografia, un cielo continuamente solcato da lampi e da visibili fulmini come un elettrico superno sistema vascolare.

Per tutto il concerto è davvero sembrata una sciamana impegnata in una sua danza, tutt’uno con le forze della natura che si stavano scatenando. Ha piovuto per tutto il concerto, sulla platea e sulle gradinate, ma i tanti presenti all’Arena Alpe Adria di Lignano Sabbiadoro non se ne sono quasi accorti. Quella che cadeva dal cielo era acqua lustrale che monda dai peccati, è stato tutto un bagno di felicità ad una sorgente di vita.

Rivolgendosi al pubblico ha dichiarato di essere grata di poter cominciare il suo breve tour in Italia in una notte come quella. Infatti, il suo secondo brano è stato “Grateful”: “Cantando andrà tutto bene, l’ho imparato riga per riga, un filo comune, un filo d’argento, tutto ciò che desideri, rotola avanti”. E’ proprio così, il suo canto è una preghiera apotropaica che cura le ferite dell’anima, che accoglie e consola; la sua voce è una panacea per tutti i mali, un solo delicato gesto della sua mano sul palcoscenico vale ancora tutte le mossettine di qualunque sedicente superstar.

E’ accompagnata dal figlio Jackson Smith (chitarra) Tony Shanahan (Chitarra, tastiere, voce) Seb Rochford (batteria).

Saluta tutti i musicisti e i tecnici che la pandemia ha costretto a rimanere inattivi e che tuttora soffrono alcuni disagi lavorativi ed economici. Dedica loro e a tutti i presenti “My Blakean Year” che si rifà ai magnifici versi esoterici del poeta William Blake e tratta degli sforzi e della fatica di chi s’incammina sulle strade della vita: “Una strada anche se asfaltata d’oro è sempre una strada sulla quale fatichiamo con i nostri stivali”. Stupenda nella calda pioggia battente della sera.

Visto che siamo a pochi metri dal mare – dice- vi canto una piccola canzone su una spiaggia. Tutti capiscono subito che si tratta di uno dei suoi cavalli di battaglia da “Horses” del 1975: “Redondo Beach” ha l’apparenza di una gaia canzone estiva tipo cuore, sole, amore con i suoi disimpegnati ritmi reggae ma è tutt’altro, basta ascoltare bene il testo per capire che si racconta di una ridente spiaggia sulla quale si è compiuta un orrenda tragedia: “Giù in riva all’oceano tutto era così triste…tutti piangevano per la piccola ragazzina vittima di un dolce suicidio” per amore. L’adolescente di cui si parla è una piccola Ofelia scivolata nel mare e annegatasi nel fiore degli anni per i turbamenti del suo cuore cantata da chi sta vivendo le stesse disperate sensazioni.

Scritta insieme a Leonard J. Kaye, “Ghost Dance” s’ispira alle danze sciamaniche dei nativi americani Hopi che evocano i loro antenati per lenire le loro ferite e per chiedere vaticini. E’ un vero e proprio rito illuminato dai lampi all’orizzonte che nel cielo disegnano tra i nuvoloni carichi di pioggia volti antichi e mostri colossali; in una condizione simile non è stato difficile immaginarsi accanto a presenze dall’oltretomba: “Eccoci qui, Padre, Signore, Spirito Santo. Pane del tuo pane, fantasma del tuo ospite. Siamo lacrime che sono scese dai vostri occhi. Parola della vostra parola. Noi vivremo ancora!”

Mentre continua a piovere sul pubblico, la cantante scherza bonariamente sul fatto che certe simili danze indiane nel West servivano ad invocare la pioggia sui raccolti ma lì non se ne sentiva proprio il bisogno. In un meraviglioso omaggio all’amico Bob Dylan aggiunge che, dopo aver perso tante persone care, dobbiamo essere grati di continuare ad avere come guida un poeta così immenso che qualche mese fa ha compiuto ottant’anni in splendida forma e piena attività. Canta una lunghissima, sgangherata ma molto commovente versione di A Hard Rain’s a-Gonna Fall, la prima canzone del Bardo di Duluth che ascoltò da ragazza e che l’ha legata a lui indissolubilmente.

Sbaglia ogni tanto i versi, inciampa forse volutamente nei ritmi, declama e racconta il testo invece di cantarlo, si ferma, riprende, si scusa, incita il pubblico a cantare con lei il ritornello. Si capisce che il testo di Dylan le ha scavato l’anima, lo avevamo già visto alla cerimonia di attribuzione del Nobel durante la quale la Smith ha cantato la medesima canzone. Pronunciando alcuni versi non riesce proprio a trattenere l’emozione: “Cos’hai visto, figlio mio adorato? Ho visto un neonato circondato da lupi feroci, ho visto un’autostrada di diamanti che nessuno percorreva, ho visto un ramo nero dal quale continuava a colare sangue, ho visto una stanza piena di uomini dai martelli sanguinanti.”

Anche i presenti non riescono a trattenere l’emozione e non è la pioggia a bagnare le loro guance. Parafrasando un famoso film possiamo dire che “tutti quei momenti NON andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. Patti Smith, cantando quei versi, ha rivelato a tutti che “è il tempo di vivere” come dice sempre: “The Future is Now!”

Non resta che ballare a piedi nudi sui ritmi di “Dancing Barefoot” che fa “girare e girare tutti come inebriati in una benedizione estatica che ci rimette in contatto con le nostre radici come una sostanza psicotropa in un rito antico che quasi ci fa perdere il controllo nella sublimazione e nell’essenza, incessantemente”, tanto per giocare un po’ a parafrasare il testo della canzone che però non sono così lontani dal reale.

A tratti l’Arena veniva invasa da un fetido afrore salmastro dovuto allo scirocco che a qualcuno tra i più attenti deve avere ricordato quello che si diceva del mitico locale proto punk della Lower East Side di New York nel quale è iniziata la sfolgorante carriera della cantante.

Il “CBGB is a state of mind” diceva la Smith dove si è suonato, a fasi alterne, il migliore alternative rock del mondo dal 1973 al 2006 ma era famigerato per il suo cesso, viste le condizioni in cui era ridotto non si può usare un altro termine, dal quale emanavano insopportabili fetori che ammorbavano tutto il locale. A quei tempi girava anche un’orrenda barzelletta sessista e razzista sulle prostitute portoricane che lo frequentavano ma che noi non ripeteremo per carità di patria. Non sono solo lontane nostalgie, la leggenda vivente sul palcoscenico dell’Arena Alpe Adria le incarnava ancora tutte, non c’era da sbagliarsi.

E’ venuto il momento anche per un caloroso omaggio a Mick Jagger, anche lui ormai non più un giovanotto. Tony Shanahan ha cantato a squarciagola una splendida canzone dei Rolling Stones, accompagnato dal gruppo, “I’m Free to do what I want any old time, sono libero di fare quello che mi pare in qualunque momento, quindi amami, stringimi, amami.” Ulteriore omaggio interno a Lou Reed con il refrain di Walk on the Wild Side. Momenti magici per i quali dire fantastico è poco con sempre la scenografia della pioggia e del cielo illuminato dal temporale.

Segue “Benath the Southern Cross”, dichiaratamente in memoria di tutti quelli che abbiamo perso in questa epidemia ma anche una canzone sulla forza e sulla volontà di vivere: “Feel the blood flowing in our veins! We are Alive” grida alla fine dopo uno psichedelico scambio tra i chitarristi in una versione quasi marziale e sicuramente molto dilatata e visionaria del brano che si rivela una ballad ritmata e solenne che accumula sensazioni su sensazioni fino a farle deflagrare come un cupo, sordo tuono lontano.

Mentre intona la successiva “Peaceable Kingdom” scritta insieme a Shanahan come auspicio di speranza, la cantante s’interrompe un attimo perché dalla tenda bar dell’Arena i soliti cafoni vociavano, ebbri delle solite birrette cui da bravi alcolizzati non riescono mai a rinunciare. “Ma di cosa mai staranno parlando? Non sarà che stanno festeggiando qualcosa senza avermi invitato?” Patti Smith, con grande classe, bonaria e gentile si rivolge loro pregandoli di abbassare la voce. “Forse un giorno saremo capaci di ricostruire il regno di pace che avevamo tanto sognato e che è andato distrutto” dice in sostanza la canzone alla quale Patti Smith aggiunge un’istantanea da “People have the power”. In quel momento, ancora illuminata dal bagliore dei fulmini tutti capiscono le sue doti di profetessa che sogna dentro un sogno il nostro futuro e lo canta per la nostra anima se ancora ce l’abbiamo.

Ancora lacrime rigano il volto di tutti al sentire le prime note di “Pissing in a river”, la più bella canzone d’amore della storia del rock, commovente e straziante, anzi mesmerizzante. “What more can I give you”, cosa possiamo volere di più?

Naturalmente non poteva mancare l’altra più grande canzone d’amore del rock, guarda caso scritta sempre da Patti Smith con l’aiuto dell’amico Bruce Springsteen per l’amato padre dei suoi figli, Fred Sonic Smith: “Because the Night”. Tutto il pubblico, bagnato di gioia, in piedi a cantare, danzare e a gridare per amore vero, solo per amore.

Prima di lasciare il suo pubblico, Patti Smith, preoccupata che qualcuno potesse essersi preso un malanno dopo tutta quella pioggia, ha consigliato come una vecchia zia, una bella tisana appena rincasati: acqua bollente, limone, aglio, miele e una dose abbondante di whiskey. Con tutto il rispetto si è tenuto per buono solo l’ultimo ingrediente balsamico, magari con un po’ di ghiaccio vista l’afa.

Esplode l’Arena sulle note e le parole di una finale intensa versione di “People Have the Power” : “Ascoltate! Io credo in tutti i nostri sogni, che tutto può avverarsi attraverso la nostra unità, possiamo capovolgere il mondo, possiamo dar vita alla rivoluzione della terra! Abbiamo il potere, il popolo ha il potere…il potere di sognare, di governare, di cacciare dal mondo gli stolti, è scritto che spetta al popolo governare! Noi abbiamo il potere!”

Noi ti crediamo con tutto il cuore Patricia Lee Smith da Chicago, e non dimenticheremo mai le tue parole, continuando a sognare nei tuoi sogni, perché come dice Ma’Joad nel finale di Furore di John Ford: “We keep a-comin’. We’re the People that live. Can’t nobody wipe us out. Can’t nobody lick us. We’ll go on forever…We’re the People”. Noi continueremo ad andare avanti. Noi siamo il Popolo vivente, nessuno ci può cancellare o spazzar via. Noi continueremo per sempre…Noi siamo il Popolo!

© Flaviano Bosco per instArt

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