Con le rappresentazioni che celebrano i vent’anni del celebre Musical di Riccardo Cocciante con gli interpreti originali del 2002, sono tornati finalmente a Villa Manin di Passariano (UD) i grandi eventi internazionali.

La villa dogale con le monumentali esedre e le sue barchesse che sembrano abbracciare lo sguardo, è un luogo perfetto per meravigliosi, scenografici concerti. Le memorabili stagioni in cui si potevano vedere, tra quelle eleganti mura, Bruce Springsteen, Radiohead, Iron Maiden, Motörhead, Kiss, Tom Yorke, Björk, REM, Ramstein, ma anche musicisti raffinatissimi come Ludovico Einaudi, Philip Glass, Caetano Veloso e Gilberto Gil e tanti altri, è ancora nel cuore di tantissimi spettatori d’ogni parte d’Europa cresciuti e nutriti da quelle emozioni nel corso degli anni.

Per fortuna, quelle occasioni avranno un futuro, lo si è potuto capire dalle tre serate sold Out di Notre Dame de Paris che hanno stupito, probabilmente gli stessi organizzatori, per il loro enorme successo friulano di pubblico.

Sono davvero pochi i luoghi in regione ad avere un’attrattiva così grande. Con un po’ di continuità, una programmazione adeguata e oculata, potrebbe diventare uno dei poli culturali, turistici e dello spettacolo, trainanti del Nord-Est.

Bisogna anche ammettere che, negli ultimi tempi, dopo la reclusione forzata durata praticamente due anni a causa del diabolico virus, la gente ha una gran voglia di uscire, stare insieme e risponde con grande entusiasmo agli spettacoli dal vivo e all’aperto, se poi ci si mettono anche delle romantiche serate estive di Luna piena e un Musical diventato la quintessenza del romanticismo caramelloso per almeno una generazione di europei, il gioco è fatto.

Sullo spettacolo in questi ultimi vent’anni è stato scritto letteralmente tutto è il suo contrario: qualcuno ha sostenuto che sia un contenitore vuoto, con pessimi arrangiamenti, testi insulsi, tradotti in italiano dal solito Pasquale Panella e arrangiamenti, scenografie e coreografie banali e televisive; qualcun altro, invece, ha gridato per quattro lustri al miracolo e alla rinascita del bel canto melodico e quasi della grande tradizione del melodramma italiano in salsa moderna.

Senza entrare propriamente nel merito critico, pareri così contrastanti, antitetici e divisivi significano quantomeno che lo spettacolo crea forti emozioni in un senso o nell’altro e di sicuro non lascia indifferenti.

Il palcoscenico con le sue altissime quinte, torri faro e tralicci è decisamente titanico ed è di per se un’enorme cattedrale che domina la scena su cui si muovono i personaggi del dramma, piccoli, piccoli che dalla platea a volte sembrano insetti. D’altronde anche un brano dello spettacolo dice: “Noi siamo il formicaio”.

Alcune indovinate trovate scenografiche sono pensate proprio per essere viste a grande distanza dal pubblico delle arene e dei grandi spazi aperti dove si rappresenta il dramma. Di grande effetto è, per esempio, l’enorme altissima gabbia nella quale ad un certo punto dell’intreccio viene chiusa Esmeralda. Del tutto implausibile, senza alcuna attinenza con la realtà del carcere medievale, diventa sul palcoscenico un significativo simbolo di oppressione, funzionale alla narrazione e comprensibile anche agli spettatori delle ultimissime file.

Medesimo discorso va fatto per la scena delle enormi campane sospese a mezz’aria e “cavalcate” da alcuni spericolati acrobati.

Lo spettacolo delle luci, vero e proprio light design su larga scala, potrebbe essere quasi definito un piccolo intervento di Land Art, tanto quelle luci influiscono sulla percezione del paesaggio circostante che, nel caso della Villa Manin, sono le quinte di per se scenografiche delle Barchesse.

A parte il completo stravolgimento e saccheggio dell’opera di Victor Hugo che non smette di rivoltarsi nella tomba, un certo fascino è garantito dall’attenzione nei testi per la tematica sociale che anche se già presente nell’originale, viene attualizzata con più intermezzi di denuncia delle ingiustizie che subiscono i nostri fratelli in cammino, i migranti di tutto il mondo.

Quello della giustizia sociale e della rivendicazione dei diritti dei più sfortunati è un sotto-testo apprezzabile del Musical che si rifà ad alcuni temi portanti della poetica di Hugo, magnificata nel monumentale: “I Miserabili”.

Il coro dei disperati popolani dice di essere composto di folli, miserabili, sconfitti, clandestini, si ripete nelle scene della Festa dei Folli e in quella della Corte dei miracoli. Le coreografie di massa con tutti i ballerini e gli acrobati sul palco insieme ai protagonisti forniscono un colpo d’occhio di notevole impatto.

Non serve dir niente dei due cantattori Giò Di Tonno e Lola Ponce, diventati vere e proprie icone strapaesane che interpretano gli eterni Quasimodo ed Esmeralda; in questi vent’anni, anche su di loro si sono scritte intere biblioteche di inutili facezie. E’ certo che hanno trovato il ruolo della loro vita, nel nostro paese resteranno per sempre legati a questo musical che, indubbiamente, ha segnato la loro carriera artistica e la loro esistenza tutta intera.

Per i fan sono insostituibili così come le emozioni che ancora questo spettacolo riesce a dare dopo tanti anni per il suo intreccio semplice, popolare e di facile assimilazione, tutto centrato sui buoni sentimenti e con i caratteri grossolani dei personaggi ben definiti e senza alcuna sfumatura tanto da apparire caricaturali. Lo stesso discorso si può fare sulle basi musicali, senza grandi pretese, che sostengono il cantato dalla tessitura e dai testi nazional-popolari e dal romanticismo smanioso e sdolcinato.

Bisogna farsene una ragione, sono queste le proposte commercialmente vincenti, quelle che muovono le folle di spettatori, che sbancano i botteghini e fanno sorridere a 32 denti i promoter.

Non è necessario rifarsi alle considerazioni di Propp, McLuhan o Guy Debord sulle dinamiche della comunicazione e dell’omologazione nella nostra sfortunata “Società dello spettacolo” per una volta, richiamiamoci solamente a Victor Hugo che il “Tempo delle cattedrali” ha saputo immaginarlo in modo inarrivabile attraverso il suo romanzo.

Il Musical di Cocciante si chiude con Quasimodo che si lascia morire sul corpo di Esmeralda, il romanzo di Hugo, invece, concede ancora un po’ di futuro a quei personaggi che hanno vissuto il loro dramma nel 1482:

“Circa due anni o diciotto mesi dopo gli eventi con cui si chiude questa vicenda, quando si andò a prendere nel sotterraneo di Montflaucon il cadavere di Olivier le Daim, impiccato due giorni prima, e a cui Calo VIII accordava la grazia di essere seppellito a Saint-Laurent in compagnia migliore, si trovano fra tutte quelle carcasse orrende due scheletri di cui l’uno teneva l’altro stranamente abbracciato. Uno dei due scheletri, che era di donna, aveva ancora qualche brandello di veste di una stoffa che era stata bianca, e gli si vedeva attorno al collo una collanina di semi di azedarach con un sacchettino di seta, ornato di pietre verdi aperto e vuoto. Quegli oggetti erano di così scarso valore che il boia probabilmente non aveva saputo che farsene. L’altro, che teneva il primo strettamente abbracciato, era uno scheletro d’uomo. Si notò che aveva la colonna vertebrale deviata, la testa incassata tra le scapole, e una gamba più corta dell’altra. Non presentava d’altronde alcuna frattura vertebrale alla nuca, ed era evidente che non era stato impiccato. L’uomo al quale era appartenuto quello scheletro era dunque venuto in quel luogo, e lì era morto. Quando si volle staccarlo dallo scheletro che stringeva, andò in polvere.”

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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