Il pubblico italiano ha sempre avuto una speciale predilezione per la musica di Peter Hammill e dei Van der Graaf Generator. E’ un affetto e una considerazione che non sono mai venuti meno nel corso degli anni a partire dall’epoca d’oro del prog fino ad oggi. Lo testimonia la trionfale recente tournée italiana che ha fatto tappa al Gran Teatro Geox.

Il trio ha regalato ai tantissimi fans vecchi e nuovi, una performance emozionante e superlativa senza alcun tipo di nostalgia autocelebrativa dei bei tempi passati come, in realtà, una band così longeva potrebbe perfino permettersi. Per chi li segue da qualche decennio il vero miracolo è vedere tanti giovani tra il pubblico. Certo non ci sono i ragazzini che ancora ascoltano la trap ma si fanno notare i ventenni della Generation Z che sono esattamente i nipoti dei primissimi fans dei Vdgg.

D’altronde chiunque si appassioni seriamente alla musica rock e a tutto ciò che ne consegue, prima o poi incappa nei lavori del gruppo che rappresentano ancora oggi il vertice del loro genere.

Nell’enorme foyer del Gran Teatro Geox, gli amici della rivista Prog Italia, media partner della tour della band, aveva allestito un piccolo stand per vendere abbonamenti, arretrati e un bel libro appena uscito sui testi dei Vdgg, e bene hanno fatto. Di Peter Hammill, autore di quasi la totalità dei testi, abbagliati dalle sue doti creative e interpretative ci si dimentica troppo spesso che è un autentico poeta contemporaneo e che i suoi versi sono considerati tra i più alti della produzione lirica attuale. Gli altri due membri fondatori del gruppo Hugh Banton (organo) Guy Evans (batteria) non sono nemmeno lontanamente dei comprimari.

E’ vero il contrario, il loro contributo al sound complessivo dell’ensemble così tipico e riconoscibile da oltre dieci lustri è assolutamente determinante. A parte le incisioni e le tantissime esibizioni live sotto il nome VDGG i due hanno anche una vasta esperienza come solisti negli album e nei progetti musicali vicendevoli cui hanno partecipato, moltissime sono le loro apparizioni negli album di Hammill tanto che a volte è davvero difficile distinguerli da quelli propriamente del gruppo. Si segnalano importanti collaborazioni esterne come quella di Evans con i fantastici Mother Gong di Gilli Smyth. Da notare, anche solo come curiosità, che Hugh Banton, dopo aver lavorato a lungo nel settore come ingegnere del suono, nel 1992 ha creato la Organ Workshop che progetta, costruisce e installa in tutto il mondo organi a canne ibridati con le tecnologie elettroniche più moderne.

Visto che sul gruppo si sono scritti i proverbiali fiumi d’inchiostro, daremo conto solo di alcuni brani tra i più significativi della serata concentrando la nostra attenzione soprattutto sui testi e sull’interpretazione fornendo magari qualche suggestione in più sui luoghi del concerto. Non è possibile e nemmeno auspicabile separare le esibizioni dal luogo anche geografico nel quale si svolgono. Altrimenti le sale da concerto finirebbero per diventare dei non-luoghi tristi e tutti uguali.

Il rischio è grosso. Per fortuna il Gran Teatro Geox ci tiene a diversificare le proprie proposte mantenendo un cartellone vivo e “marciante”; accanto ai tanti nomi di musica popolare e commerciale, gli organizzatori propongono delle serate davvero uniche e fuori dall’ordinario. Padova, con le sue radici antichissime e spirituali, è stata lo scenario ideale per un concerto intenso, meditativo ed emozionale come quello dei VDGG; consapevoli che le parole non basteranno nemmeno a evocare tanta meraviglia, ci proveremo lo stesso.

Influence Patterns: Hammill molto cortese ma senza troppi fronzoli dice: “Buonasera” e subito si parte con pezzi nuovi e pezzi vecchi come dice il band leader ma sempre e comunque crudeli e ossessivi, aspri e allucinati, come nei momenti più formidabili e cupi della loro poetica.

I VDGG non hanno mai fatto sconti a nessuno e del Prog rappresentano da decenni la parte meno carina e pettinata. Non sono mai stati dei piacioni e non sono mai venuti a compromessi con il mercato delle canzone. Meno che mai ora dopo più di cinquant’anni d’onorata carriera. Nella loro musica non c’è mai stata alcuna celebrazione o nostalgia.

Every Bloody Emperor: La musica dei VDGG è sempre in qualche modo profetica o quanto meno strettamente legata all’attualità. Non è per nulla casuale che tra i primi brani del concerto abbiano scelto questo brano contro ogni guerra contenuto nell’album “Present” del 2005 che segnò la rinascita del gruppo dopo anni di relativo silenzio.

Il testo scritto da Hammill è straordinariamente contemporaneo e sembra quasi una cronaca del nostro presente miserabile: “E’ impercettibile il cambio mentre i nostri voti diventano gesti e basta e i nostri signori e padroni decidono di affibbiarci i ruoli di servi, di schiavi in nome del nuovo impero. Si, e ogni imperatore sanguinario proclama che la sua causa è la libertà mentre parla in modo populista e volgare per farla franca…Questo a tutti ci sorregge: credere nella natura umana. Ma la fede ci sta abbandonando, e si è quasi esaurita. Siamo solo servi, schiavi mentre l’impero collassa.”

Over the Hill: A qualche decina di chilometri dal Gran Teatro Geox il navigatore della nostra auto ci può guidare con estrema facilità nel piccolo incantevole borgo di Arquà, che notifica la propria presenza adagiata nella dolcezza verde ed ordinata dei colli Euganei. Una piccola casa è quella che si fece costruire il poeta di Laura per passare i suoi ultimi anni di vita coltivando l’orto e viziando la sua amatissima gatta.

La casa ha subito molte trasformazioni nel corso dei secoli com’è naturale. E’ passata attraverso moltissimi proprietari che proprio per troppo amore verso il poeta hanno voluto onorarlo mantenendone la memoria ma allo stesso tempo stravolgendo la struttura originaria dell’abitazione con abbellimenti che alla fine l’hanno snaturata. Quello che resta praticamente intatto è il paesaggio circostante, ordinato di vigne e coltivazioni che ci fa intuire cosa pressappoco poteva vedere Petrarca dalle sue finestre che guardavano le meravigliose colline circostanti. E’ proprio oltre quei colli che il poeta ci aspetta; presto o tardi, ognuno di noi lo raggiungerà in quel nulla abitato “over the Hill”. E’ proprio di questo che parla la canzone, forse non del poeta aretino ma dell’ultimo congedo che riguarda tutti noi e che dobbiamo accettare con letizia e in spirito di fratellanza e condivisione. In fondo, la fine non è che un nuovo inizio e il contrario.

Lemmings: E’ musica adulta quella del gruppo di Peter Hammil, preziosa. Il palcoscenico era scenograficamente molto semplice e sobrio, giusto un minimo gioco di luce; i tre musicisti erano costantemente illuminati da uno statico fascio di luce bianca che accentuava la drammaticità della loro evidente presenza. C’era solo un minimo variare di riflessi dai colori primari con sfumature rosse, gialle, blu, verdi. Niente che distraesse troppo dalla magia della musica che era il vero veicolo dell’emozione senza altri orpelli e inutili decorazioni.

Il loro pubblico non si aspetta e non vuole nient’altro, tutto concentrato com’è solamente della musica che è per loro ogni volta un’avventura, un’esperienza introspettiva, quasi d’autocoscienza di rara intensità cui vengono precipitati dall’implacabile incedere della ritmica legnosa e solenne di Banton; capita raramente di ascoltare un drumming così solido e duro, perfino marziale. Non c’è stato un singolo momento in tutto il concerto nel quale il batterista si sia lasciato andare alla tenerezza di qualche battuta d’accompagnamento o d’atmosfera oppure a un gioioso suono di cembali percossi, nessuna melodia nelle sue pelli, in una drammatica sequenza di colpi per nulla freddi ma sempre deliziosamente ruvidi e perfino minacciosi.

La versione di Lemmings, grande capolavoro contenuto in quell’opera d’arte che è Pawn Hearts del 1971, eseguita a Padova è dilaniata e dolorosa, ancora più enigmatica ed atmosferica di quanto sia mai stata. La voce di Hammill declamatoria e drammatica esprime una sofferenza indicibile, in un suono complessivo aspro, trattenuto e concreto come di una tragedia inarrestabile che si sta compiendo lasciandoci attoniti e impotenti. Di certo un brano dolente ma per nulla permeato di rassegnazione: “Sanno che ormai è davvero troppo tardi per fermarci. Perché se il cielo è seminato di morte, Qual è lo scopo di riprendere fiato?…Quale scelta ci resta se non quella di vivere? Per salvare i più piccoli? Quale scelta ci resta se non provare?”

Alfa Berlina: con Hammill alla chitarra il pezzo che ha come probabili protagonisti due che viaggiano su una vecchia gloriosa auto italiana mentre un paesaggio incantato si muove con loro attraverso i finestrini. E’ una specie di sogno automobilistico che il cinema italiano ha raccontato con Il sorpasso di Dino Risi, con Viaggio in Italia di Roberto Rossellini e perfino con lo sgangherato In viaggio con papà di Verdone. Il brano si fa strada nel traffico rumoroso, a colpi di claxon mentre sfrecciano sirene d’ambulanza e camion, straordinario e materico. Di certo non è una gita di piacere ma, in fondo, siamo anche contenti, conosciamo bene la nostra infelicità, l’unica compagna che non ci abbandona mai, l’amica più fedele di sempre, non ne possiamo proprio fare a meno.

La Rossa: per alcuni partecipare ad un concerto costituisce un’esperienza dai contorni parareligiosi. Quindi non si tratta più solo di suoni armonicamente disposti a diverse altezze tanto da apparire come la certezza di un sacramento ma un autentico rito apotropaico dagli effetti imprevedibili. Ascoltare il canto di Hammill dal vivo, accompagnato dai suoi pari, non lascia indifferenti. I tre insieme sembrano cercare una forma musicale aperta e un lessico in grado di dimostrare ruvidezze ai confini dell’hard rock destrutturato e spigoloso soprattutto quando il band leader imbraccia la chitarra. La Rossa è l’eterno femminino, quello nel cui grembo raggomitolarsi e lasciarsi naufragare: “Nel profondo del tuo corpo oceanico, lavami come un relitto a riva, lasciami sdraiato per sempre! Sommergimi, sommergimi ora e tienimi fermo. Prima della tua fame nuda, bruciami all’altare della notte! Dammi la vita!”

Man-Erg: Tra i banchi della piccola, preziosa chiesa di Santa Sofia nel pieno centro storico medievale di Padova capita di vedere un barbone vagabondo, con tanto di sacchetti di plastica con dentro tutti gli stracci che sono il suo mondo, mentre parla con dio nella sua solitudine troppo rumorosa. Non è per nulla un monologo farneticante, il suo interlocutore è piuttosto silenzioso ma lo ascolta di certo con attenzione e annuisce nella luce del pomeriggio che filtra dagli antichi rosoni. E’ anche di lui che parla la sempre fantastica Man-Erg, capolavoro della musica prog e immancabile nei concerti dei VDGG: E anch’io vivo dentro di me e molto spesso non so chi sono, lo so non sono un eroe, spero di non essere dannato.”

L’interpretazione di Peter Hammill è vetrosa, tagliente e a tratti dissonante ma di una bellezza irraggiungibile e ancora nuova come quella di una pietra nera di ossidiana che ruba per se tutta la luce disponibile, custodendo nella profondità della sua superficie muta tutta la tenebra luminescente rendendola talmente solida che la si può toccare e che, a volte, rivela echi pesantissimi dal punto di vista musicale in completa dissonanza. Materia solida e pesante fino ai limiti dell’insostenibilità.

Still Life: decisamente “dulcis in fundo” la parte più memorabile di un concerto che resterà a lungo nel cuore degli appassionati. La voce di Hammill nella sua teatralità shakespeariana sa essere scarna, imperiosa, declamatoria e allo stesso tempo anche sussurrata e lieve. La batteria di Banton martellata di colpi sordi si inserisce violentemente in una brutale tessitura di morbidi colori in piena contraddizione ma anche in paradossale corrispondenza del suono valvolare e profondo di Evans che regala atmosfere ardite e perfino spericolate mentre Hammill con la sua tastiera continua a scavare nei ricordi per una storia passata che non sembra ancor essere finita: “Cosa siamo diventati? Cosa abbiamo scelto di essere? Ora tutta la storia è ridotta in sillabe. Il nostro nome non può essere più lo stesso: ora gli immortali sono qui.”

In scaletta anche le splendide: Go, A Louse is Not a Home, Room 1210, ma noi ci fermiamo qui prima di essere sopraffatti dall’emozione o prima che l’incanto svanisca come un bel sogno che non tornerà più. O forse no?

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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