Così lontano, eppure così vicino. Perché diciamolo pure: vedere il sipario aprirsi su una scena in cui Paolini non è da solo (ma circondato da ben quattro persone!) spiazza. Bastano però pochi minuti per rassicurarci: anche se insolitamente in compagnia, quello sul palco è Paolini al 100%, con quel suo stile così caratteristico e così amato dal pubblico.

D’altronde la genesi stessa della spettacolo già poteva far intuire quanto Paolini ci avrebbe messo, di sé stesso: da sempre affascinato dalla figura di Ulisse, già nel 2003 aveva portato in scena un primo racconto su di lui (“U”). Da allora il suo lavoro sull’eroe omerico non è mai terminato, generando riletture (“Odyssey” – 2013, “Piccola Odissea tascabile” – 2017) e l’inizio di quel percorso (“Il calzolaio di Ulisse” in forma di oratorio – 2018) che ha infine generato “Nel tempo degli dei”.

Faccio subito coming out e ammetto che -basandosi sulle prime descrizioni dello spettacolo- avevo notevoli timori su di esso. Le note di presentazione, infatti, sembravano spostare il focus dell’opera dalla figura di Ulisse al senso della parola “dei”: intesi sia nel senso antico di creature che giocano con le vite umane, sia in quello più moderno che vede l’uomo come a un passo da diventare un superumano, un “dio di sé stesso”, perdendo però così la propria umanità. Sensazione acuita dalla scelta di relegare il nome dell’eroe al sottotitolo, lasciando titolo principale appunto agli dei. Questa chiave di lettura mi ha risvegliato i brutti ricordi di “Tecnofilò”, probabilmente lo spettacolo meno riuscito della carriera di Paolini, in cui l’artista si scagliava contro le nuove tecnologie e la disumanità che portano. In un modo che però faceva sembrare il monologo solo il “rant” di un vecchio refrattario all’inevitabile evoluzione tecnologica.

È stato quindi profondo e liberatorio il mio sospiro di sollievo al termine delle due ore abbondanti di spettacolo: perché sì, il nodo in merito al ruolo delle divinità, della loro crudeltà, del loro vedere gli umani come giocattoli c’è ma non è il protagonista. Al centro c’è davvero Ulisse: i suoi dubbi, il suo dolore, la sua rabbia contro gli dei che però alla fine è costretto a risolvere solo dentro di sé. Ed è un Odisseo profondamente “paoliniano”: nessuno come l’attore/autore bellunese sa rendere umani i propri personaggi, cesellando la loro psicologia e mettendo a nudo le loro debolezze, le loro paure, le loro rabbie ingiustificate. Ne “nel tempo degli dei” Paolini vuole metterlo subito in chiaro, tanto che una delle prima battute è ciò che meno ci si aspetterebbe da un eroe splendido e invincibile come quello a cui Omero ha dato vita: la sua dichiarazione (invero trasmessa in modo maggiormente volgare) di dover andare di corpo, mentre sta faticosamente salendo un’aspra e irta montagna.

Un Ulisse che non è Ulisse, che non vuole più essere Ulisse: questo è l’uomo vecchio, sconfitto eppure ancora in piedi che appare sul palco, e che nell’incontrare un giovane pastore si presenta solo come “un calzolaio”. Rifugge non solo dalla sua identità ma da tutta la sua storia, negando di sapere nulla del guerriero che ha deciso la vittoria a Troia con l’idea del cavallo. Ed è solo dopo la forte insistenza del pastore e un pagamento in capre che pian piano cede e inizia a raccontare della guerra di Troia, rivela la sua identità e la sua maledizione.

Non ci si aspetti però l’ennesima cronistoria delle vicende dell’Odissea. Certo, alcuni episodi vengono narrati -come il ritorno a Itaca e il massacro dei Proci- ma la maggior parte solo citati e sfiorati,  quel tanto che basta per concentrarsi su ciò che sta attorno, ciò che è venuto prima o dopo, e soprattutto il modo in cui Ulisse ha reagito ad essi e ciò che hanno fatto nascere in lui. Da questo punto di vista è sembrata maggiormente convincente la prima parte, che omette buona parte delle sue peripezie per mare e altre le cita solo di sfuggita, come Polifemo; mentre nella seconda si passa a una cronaca maggiormente approfondita degli ultimi passi verso Itaca. A ben vedere, comunque, probabilmente si è fatta questa scelta per dare sempre più peso ad un altro tema portante dello spettacolo: la colpa di Ulisse. Nell’Odissea l’eroe è innegabilmente un “buono”, un “giusto” che è solo vittima degli dei “cattivi”. In nome di questa sua appartenenza al “lato chiaro” e di tutti i soprusi a cui deve sottostare gli vengono perdonate molte cose: tradimenti, uccisioni, morti.

Non ci si poteva certamente aspettare lo stesso dalla “umanizzazione” del trattamento-Paolini: e infatti il suo Ulisse è un uomo che di colpe ne ha eccome! E queste colpe gli vengono spesso rinfacciate, anche dalla persone a lui più care. Come il figlio Telemaco, che lo accompagna nel suo esilio volontario da Itaca e che dopo dieci anni senza proferire parola riprende a parlare solo per dire al padre che vede solo sé stesso, è concentrato solo sul suo dolore misto a voglia di vendetta, tanto da non vedere nemmeno il figlio che ha accanto. O la moglie Penelope, che dopo il massacro dei Proci fatica a riconoscere il marito nell’uomo che ha davanti: non solo per i cambiamenti che gli anni di viaggio hanno provocato nel suo fisico ma soprattutto perché vede -e non sa perdonare- la crudeltà da lui perpetrata e che non appartiene all’Ulisse che lei conosceva. Se i vent’anni necessari per tornare a Itaca sono certamente colpa delle bizze degli dei, il suo nuovo esilio da casa è anche da addossare a loro o in fondo è stato lo stesso Ulisse, nel suo imbarbarimento profondamente umano, a condannarvicisi? Una domanda che non ha una risposta esplicita sul palco (Paolini/Ulisse fino all’ultimo biasima gli dei, e quando essi gli offrono il perdono e l’immortalità al loro fianco egli rifiuta, vedendolo come l’ennesimo dileggio di divinità che ancora vogliono giocare con lui) ma a cui certamente gli spettatori daranno una risposta interiore.

Immenso come sempre Paolini nella recitazione. Il suo Ulisse risulta DAVVERO umano, generando una fortissima empatia per la sua fallacia e i suoi errori di giudizio e di comportamento e allo stesso tempo un mix di tenerezza e sotterraneo fastidio per la sua insistenza nel vedersi sempre come vittima, nel non saper davvero capire gli altri e -attraverso gli occhi degli altri- un po’ meglio anche sé stesso.

Ma -come detto all’inizio- una delle sorprese più grandi dello spettacolo è la presenza di altri artisti sul palco, tutti a dividersi tra il ruolo di musicisti e di attori. Applausi sinceri per tutti, bravi in entrambi i ruoli e in alcuni casi con un forte carisma nonostante delle parti recitate minime rispetto a Paolini. La meno convincente è stata Elisabetta Bosio, bravissima musicista (si è divisa tra violino e contrabbasso elettrico) ma di certo non particolarmente esperta come attrice: la cosa è stata però ben sfruttata lasciandole solo il ruolo di Athena, in cui la sua poca espressività può essere fatta passare per il semplice distacco/disinteresse di una dea nei confronti delle vicende umane. Ha stupito invece Vittorio Cerroni, che nonostante la sua giovanissima età (classe 2002, come lo stesso Paolini ha tenuto a sottolineare) ha mostrato buone presenza e “tenuta” scenica in uno degli unici tre personaggi -il pastore- in scena per quasi tutte le due ore. Generalmente buona anche la prova di Elia Tapognani, che per tutta la prima parte dello spettacolo non dice una parola ma che nella seconda finalmente prende vita: non particolarmente memorabile il suo Telemaco, forse troppo poco appassionato anche nei momenti in cui da sfogo alle proprie emozioni (il reincontro col padre dopo ven’anni, le accuse verso la di lui insensibilità), per una prova che potremmo archiviare come “senza infamia e senza lode”.

Ha strappato invece più di un sorriso Lorenzo Monguzzi, bravissimo chitarrista e cantante ma anche notevole caratterista, che nel corso dell’opera ha dato vita a brevi monologhi molto variegati nei toni (passando dai panni di Crono a quelli del vecchissimo musico Femio) ma con un fare sempre sornione e irresistibile.

Si è lasciata volontariamente per ultima Saba Anglana, che veste i panni di tutti i personaggi femminili con cui Ulisse interagisce nella sue avventure, oltre ad essere la voce principale negli stacchi musicali. Compito non facile il suo, considerato anche che i cambi di ruolo non potevano giovare di altrettanti cambi d’abito. E compito portato a termine molto bene, rendendo ben distinguibili i vari tipi di femminilità che l’Odisseo si trova davanti: dalla lussuria di Elena di Troia alla pazzia di Circe, la suadenza di Calipso, l’innocenza di Nausicaa, l’amore misto a riluttanza di Penelope. In una scena -quella del riabbraccio tra i due sposi- che comunque non ha convinto molto; non per demerito degli attori quanto per una scrittura che forse fa passare troppo rapidamente Penelope dal disgusto all’affetto.

Ciò che più ha colpito di Saba sono però le doti canore. La sua è una voce davvero superlativa sotto tutti i punti di vista, che dimostra pieno sviluppo e controllo sotto tutti gli aspetti: potenza, timbro, range vocale, capacità di passare con estrema facilità da un registro all’altro. Una vera sopresa che ha reso ogni momento musicale una grande emozione.

“Nel tempo degli dei” è quindi un’opera che convince, pur avendo qualche difetto. È un viaggio roboante, dai mille stimoli, che avvince e che -come sempre con Paolini- fa sentire a casa. Manca forse nel sottolineare adeguatamente un vero focus, lasciando così un sottile smarrimento finale: è quindi una condanna del concetto di divinità? O della miseria umana? Ma tutto sommato si può anche uscire dal teatro rimanendo col dubbio, ed anzi può essere il punto d’avvio di una bella riflessione da fare con calma, nella propria mente e nella propria coscienza.

Luca Valenta / ©Instart

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