Libro dell’Esodo 17, 5-6: In quel luogo dunque il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?» Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani di Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e và! Ecco, io starò davanti a te sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà».
Il giovanissimo band leader Moses Boyd, salutando il pubblico, ha ricordato che lo scorso anno concluse la sua tournée europea proprio in Friuli a Jazz& Wine of Peace così come quest’anno ha chiuso un altro volo del jazz al teatro Zancanaro di Sacile. Rispetto alla scorsa esibizione c’è però stato un cambio di formazione che ha avuto qualche influsso non proprio positivo sull’esibizione anche se nel complesso il concerto è stato davvero piacevole e intrigante.
Apre la performance un meraviglioso, intenso, incessante crescendo che ci introduce ad una vera e propria suite dalle dimensioni espanse e dilatate costruita su una ritmica ossessiva e minerale affiancata dai suoni notturni e celesti valvolari delle tastiere, in una sonorità del tutto liquida e psichedelica che vede l’alternarsi di fin troppo lunghi assoli di sax contralto e del chitarrista dotato di indubbie doti virtuosistiche con sfumature acide.
Si cambia completamente registro con il secondo brano in scaletta dalle geografie fisiche e politiche tropicali tutte in levare che si sono subito sviluppate in atmosfere zuccherose e alcoliche da Lounge bar con vaghi richiami all’Acid Jazz, alla musica degli Incognito con virate verso quel “cappellone”di Jamiroquai. Ancora una virata di bordo e il tutto si trasforma in un bastimento pieno di tanto funky, funky, funky. L’atmosfera che il pezzo regala è decisamente datata ma suona giovane e fresca sia perché è invecchiata bene sia perché Moses Boyd, picchiando con i suoi legni come l’altro più illustre suo omonimo biblico, fa zampillare una sorgente di suoni che disseta e ristora in questo deserto saturo di rumore bianco che intossica i nostri sensi.
Sono piuttosto rari ormai i gruppi centrati sulla batteria, le drum machines e gli altri aggeggi infernali hanno reso la vita dei percussionisti sempre più difficile. Se da un lato è ormai possibile campionare e riprodurre con glaciale perfezione qualunque ritmo, sfumatura, rumore e sequenziarli in beats roventi, è diventato sempre più arduo per i percussionisti trovare un proprio suono che li identifichi. Chiunque, chiuso nella propria cameretta con un buon computer e qualche programma per produrre musica, può inventarsi basi ritmiche fino a pochi anni fa impensabili o possibili solo ai più raffinati cultori delle pelli. Tutto vero, però poi la prestazione dal vivo dimostra che le macchine, per il momento almeno, non hanno ancora vinto.
Moses Boyd, batterista ispirato e versatile, dimostra che è possibile cambiare completamente stile e tempo nello spazio di un sorriso con un senso della poliritmia ed un gusto per la battuta che nessun computer potrà mai nemmeno lontanamente emulare. Il suo è un drumming moderno ma dal sapore artigianale e schietto da chi si è abbeverato alla sapienza dei grandi maestri della batteria contemporanea da Art Blakey che con i suoi Jazz Messengers fondò e rifondò più volte la musica afroamericana sotto la furia delle sue bacchette, fino ad arrivare al fantastico batterista nigeriano di Fela Kuti, Tony Oladipo Allen visto lo scorso anno a Udin&Jazz in splendida forma nonostante l’età non più verde. Dati questi due punti cardinali, il suo panorama ritmico sembra strabordare da quella linea d’orizzonte che è possibile tracciare dall’Hard Bop più classico fino all’Afrobeat. Un paesaggio diurno assolato e luminoso che va dai ritmi urbani e lividi del clubbing londinese fino alle caotiche periferie delle metropoli africane come Lagos in Nigeria, al centro, negli ultimi anni, di un vero e proprio rinascimento musicale e culturale.
Dopo tutta questa “messa cantata” al gruppo e al suo leader, è giusto parlare anche delle “dolenti note”. Il sassofonista contralto Donovan Haffner, pur non permettendosi mai di strafare, sembra sempre fuori posto. E’ vero che la sua voce è risultata spesso struggente e sembrava raccontare storie lontane e languide ma non gli apparteneva ne riusciva a dominarla. Ha saputo anche essere indiavolato, irruento ma tutto quasi a sproposito e di certo sopra le righe. Insieme al tastierista Deschanel Gordon, è entrato da poco nella band e davvero si sente. Entrambi fanno la loro parte diligentemente suonando quello che gli è stato assegnato e concesso dal leader che dirige con polso fermo le danze ma sembra quasi che eseguano meccanicamente degli ordini senza mai una sbavatura o un emozione di troppo.
Discorso del tutto diverso per il chitarrista Arthur Zaitz, fedele compare di Moses, capace di assolo astratti, meditativi e interminabili senza essere mai supponenti o accademici. Anche per lui la parola d’ordine è fluidità e immediatezza. I suoi accordi e lo stile cambiano in continuazione ad un cenno del batterista, dal blues madido di sudore del Delta, alle lunghe note latine di Santana fino alle dimensioni astrali di John McLaughlin (visto a Jazz & Wine of Peace solo un paio di settimane fa). In alcuni momenti le atmosfere si sono fatte perfino alla David Lynch come in una colonna sonora di Antonio Badalamenti o in un album del regista (BlueBob, Crazy Clown Time, The Big Dream). Sono solo suggestioni sia chiaro, lo stile del Moses Boyd Exodus è tutt’altro ma, in generale, si sa a volte gli opposti si toccano.
Nel mezzo dell’esibizione è stato necessario un cambio degli amplificatori della chitarra perché distorcevano leggermente il suono e tendevano a sovrastare gli altri strumenti. Spiace per il tastierista anche lui ingessato e spento in un esibizione da gregario nella quale la sua presenza è stata del tutto pleonastica. Il suono delle tastiere analogiche risulta sempre affascinante e lo si sente sempre più spesso ruggire dai palcoscenici anche i più improbabili. Quando però la sua funzione viene limitata a quella di semplice accompagnamento, tende ad annoiare. Senza infamia e senza lode è proprio quest’ultimo il problema di Gordon: essere pedissequo e poco originale.
Come sempre la bravura e lo stile del grande percussionista sta nei dettagli e s’intravede nei piccoli accorgimenti che adotta per rendere particolare e inimitabile le loro battute. Moses ha usato una bottiglietta d’acqua di plastica per modulare la tensione delle pelli che colpiva producendo suoni stranianti e perfino sgradevoli ma perfettamente inseriti nel suo discorso musicale.
La sua azione di coordinamento e anche di guida ha permesso al concerto di essere comunque interessante e intenso come uno sguardo di una bella sconosciuta in treno o lungo le tortuose strade di un villaggio in un’oasi nel deserto.
Quello che è certo è che Moses Boyd è un profeta della batteria ed ha ancora una lunghissima carriera davanti a sè. E’ la garanzia che saremo ancora giovani nel futuro e che potremmo andare ad ascoltarlo ancora un sacco di volte.
Bob Marley nel suo mistico brano Exodus cantava:
Open your eyes
And look within
Are you satisfied
With the life you’re livin’
We know where we’re goin’
We know where we’re from
We’re leavin’ Babylon
We’re goin’ to our father’s land
Exodus
Aprite gli occhi
E guardatevi attorno
Siete soddisfatti
Della vita che fate?
Noi sappiamo dove stiamo andando
Sappiamo da dove veniamo
Stiamo lasciando Babilonia
Stiamo andando nella terra paterna
Esodo
Oh yeh oh yeh, alright
Send us another brother Moses
From across the Red Sea
Exodus (Alright, alright)
Oh sì oh sì, va bene
Mandaci un altro fratello Mosè
Dall’altra sponda del Mar Rosso
Esodo (Va bene, va bene)
© Flaviano Bosco per instArt