La torrida estate calda di Trieste tra temperature tropicali, siccità e pericolosi incendi ma anche tantissimi turisti e fantastici eventi, è stata impreziosita, come avviene da lunghi anni, dal Trieste Rock Summer Festival, splendente gioiello di una corona di concerti di grande richiamo. I suoni progressivi e il jazz rock sono da sempre la cifra della rassegna che anche in questa edizione non ha voluto smentirsi con una serie di proposte di altissimo livello tra le quali spiccavano per qualità e originalità le esibizioni di cui si parlerà qui di seguito.

Prima di iniziare, un sentito ringraziamento va all’associazione Musica Libera e al suo presidente Davide Casali che da sempre organizzano con coraggio e dedizione una manifestazione di grande qualità che nel corso degli anni ha fatto sognare gli appassionati e continuerà a farlo ancora a lungo.

Ozric Tentacles Electronic Ed Wynne (chitarra, tastiere) Silas Neptune Wynne (tastiere) Saskia Maxwell (flauto traverso)

Sostanzialmente un duo padre e figlio con il supporto della fidanzata di quest’ultimo vestita da fatina dei boschi con tanto di flauto. Qualche problemino iniziale con l’amplificazione subito risolto ma che ha lasciato per qualche attimo i musicisti dietro un impenetrabile muro di silenzio. Il sound è sostenuto dalle tastiere elettroniche e dai continui assolo alla chitarra del leader per una vera e propria performance di musica elettronica e psichedelica che porta il marchio e la firma del progetto quarantennale di Ed Wynne che conserva un grandissimo fascino anche ridotto ai suoi elementi essenziali; i glissando chitarristici, le aggressive suggestioni delle atmosfere space rock continuano ad avere il loro effetto straniante anche se gli anni d’oro del genere sono decisamente passati.

I due fanno tutto da soli, sul palco a Trieste avevano perfino un mixer completo da gestire in proprio. Sicuramente è questione di gusti ma la loro proposta musicale è ancora assolutamente valida.

Seguono la luna in una nuova dimensione. Solo il giorno prima i ragazzi del conservatorio, in altro contesto, avevano musicato dal vivo Freaks di Tod Browning; proprio in quella straordinaria pellicola ad un certo punto si dice: We are all freaks!

Forse la dimensione del pubblico seduto con i vigilantes che controllano non è quella ideale per godere di una musica così coinvolgente che andrebbe ballata in un rave a piedi nudi sull’erba con i volumi dell’amplificazione sparati a palla. E’ una musica che ha la forza dei fiori e degli alberi, è una cosa colorata che si vede nei sogni ruotare attorno alle luci in stati alterati di coscienza che non hanno per nulla bisogno di alcuna sostanza per indurre la trance. E’ sufficiente chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare nei mondi che Ed Wynne ha saputo creare e di cui conserva le chiavi d’accesso, abbandonandosi alla gioia e alla serenità ipnotica che quei suoni sanno generare. E’ un “rapimento mistico e bestiale” come diceva quel santo poeta dervishio.

È un incanto quando si aggiunge al duo la ninfa dei boschi lisergici Saskia con il suo strumento panico dai suoni misteriosi e caldi processati anch’essi dalla magia dell’elettronica. Nell’aria anche suoni naturali e canti d’uccellini come in un sogno silvestre in Arcadia di una bellezza celestiale e psichedelica e in un caleidoscopio di fragranze sensoriali inebrianti e perfino eccessive; rumori d’acque, liquide distanze e vortici, voragini nel cielo e immagini di frattali che fluttuano.

È una musica labirintica, senza alcuna via d’uscita, senza inizio, nè fine. E’ ripetizione, battito, pulsazione in un circo di suoni con risate di pagliacci, accelerazioni fotoniche e acrobati che si lanciano in spazi interstellari e trapezisti nei cieli di Urano. Tutte follie, è vero, quasi farneticazioni in musica ma che liberano l’immaginazione da tutte le brutture della quotidianità per portarci altrove in un mondo più luminoso senza tutti gli orrori e le costrizioni del reale, lo sappiamo bene: “Art is better than life!”

Sono melodie da folletti del sottobosco, tra felci odorose e funghetti allucinogeni che a qualcuno possono sembrare anche ripetitive e noiose ma che ad altri sembrano spalancare le porte della percezione liberando la fantasia tanto da sentirsi proiettati, a volte, nella taverna di Mos Eisley su Tatooine con i Wookiee e altri bizzarri personaggi di Star Wars che mangiano, bevono e danzano mentre un disturbo nella Forza minaccia di far collassare l’orlo esterno della galassia.

C’è anche spazio per momenti dai ritmi in levare ai confini con il Dub. La forma dei loro brani è dilatata e sfilacciata fino a sfibrarsi in preziose eco e immateriali, continui loop che sembrano non finire mai in un andamento se non circolare, di certo sinusoidale, per dirla con il senso comune: “senza capo nè coda”.

È proprio vero, ognuno dei brani potrebbe andare avanti per ore, sempre uguale a se stesso con minime variazioni avvolgendosi e riavvolgendosi attorno ad un gruppo di suoni centrale anch’esso in rivoluzione. É una danza degli elementi in una cosmica espansione senza centro nè confini, perdersi in essa è un dolcissimo naufragare senza l’obbligo di doversi sempre ritrovare.

Soft Machine: Theo Travis (sax, flauto, tastiere) John Etheridge (chitarra) Fred Thelonious Baker (basso) Asaf Sirkis (batteria)

Quello per Soft Machine in tutte le loro ramificazioni è per gli appassionati un culto di carattere quasi religioso. Quando nel 1960 Daevid Allen, giovane australiano, affittò una stanza nella casa di Robert Wyatt a Canterbury nel Kent, incontrando in seguito i fratelli Hopper, Dave Sinclair, Mike Ratledge, Kevin Ayers, prese il via una rivoluzione musicale di portata enorme che generò letteralmente la musica sperimentale, prog e psichedelica come oggi la intendiamo.

Nel 1966 Ayers, Wyatt, Ratledge, Hopper, Allen diedero vita alla prima formazione del gruppo che nel giro di pochi mesi divenne una cult band della scena inglese tanto da meritarsi un tour americano con The Jimi Hendrix Experience e Pink Floyd. Cominciarono allora anche le incisioni ufficiali che raggiunsero lo zenith con la pubblicazione nel 1970 di “Third”, ineguagliabile capolavoro della musica d’avanguardia contemporanea in bilico tra il Jazz Rock di Miles Davis e il minimalismo di Terry Riley.

Da quel momento apicale si srotola una lunghissima storia artistica tra cambi di formazione, scioglimenti, reunion, side projects e migliaia di concerti in tutto il mondo. Oggi che tutti i membri fondatori sono passati ad una dimensione ulteriore, resta un gruppo di valenti musicisti che nel corso degli anni ha partecipato, in vario modo, all’avventura che continua a portarne avanti il nome e le composizioni.

L’attuale batterista John Marshall che fece parte del gruppo originario già dal 1972, non era presente al concerto di Trieste sostituito dall’ottimo Asaf Sirkis, percussionista di grande versatilità di origine israeliana.

Era ben presente, invece, il chitarrista John Etheridge nella band fin dal 1975 e il fantastico flautista Theo Travis con una discografia e collaborazioni assolutamente incredibili.

I primi minuti del concerto, nella meravigliosa cornice del castello di San Giusto di Trieste, sono stati funestati da un grave problema all’amplificazione della chitarra di Etheridge che sembrava non recuperabile tanto che il bravo chitarrista dubitava di poter portare avanti la sua esibizione.

La giornata per il gruppo era già stata parecchio impegnativa. In trasferta dalla Germania, dove avevano tenuto alcuni concerti, erano rimasti bloccati per ore in autostrada alle porte della città giuliana a causa dell’ennesimo incendio sul Carso.

In seguito, un violento acquazzone aveva avuto il merito di spegnere i fuochi ma minacciava di far saltare il concerto per motivi di sicurezza, così come la provvidenziale bora, che, pur spazzando le nubi, aveva raffiche talmente forti da non far presagire niente di buono.

Come in tutte le più belle favole però alla fine tutto si è risolto per il meglio e l’efficiente service del festival ha risolto per tempo l’inghippo restituendo la “voce” alla chitarra; nel frattempo comunque, Theo Travis aveva tessuto un’affascinante improvvisazione alle tastiere per intrattenere il pubblico, una “piano atmosphere” davvero gradevole che è stata un preludio ad un’esibizione tutta maiuscola.

Il primo brano è stato “Hidden Details” dall’omonimo album del 2018 che segna il primo album di inediti di questa formazione della band. Il sound è di chiara derivazione jazz rock, non è troppo spericolato ma di ottimo gusto con il chitarrista che si da un gran da fare. Quell’album ricuciva molti degli strappi nel prezioso arazzo della storia artistica della band, riprendendo e ricomponendo trame e orditi di un’esperienza musicale che sarebbe stato sacrilegio perdere.

Si è proseguito con una composizione originale di Mike Ratledge, “The man who waved at trains” dall’album Boundles (1975) sofisticata e fluttuante ballad che prende le mosse da un gran giro di basso e continua galleggiando sulle suadenti e morbide note del sax di Travis che utilizza anche il flauto traverso che regala un’atmosfera pastorale e caterburyana come ai vecchi tempi, dal suono bucolico.

Segue un brano del tutto nuovo “Felt to Earth” che evoca gli anni ‘60 dei locali londinesi come Ufo club nei quali esplose la psichedelia dei Soft Machine, Pink Floyd, Tomorrow ecc. Si decolla con una breve intro ipnotica per scatenarsi in una cacofonia oracolare vagamente ispirata alle tensioni di “Interstellar overdrive” durante la quale i quattro dimostrano tutta la loro forza e talento di impareggiabili artisti. La loro musica ormai non si può più certo chiamare avanguardia, troppi anni sono passati, ma resta davvero un gran piacere ascoltarla. Splendido l’assolo del bassista che gradualmente riporta l’ordine nella composizione fino al ritorno al tema iniziale incorniciato dal sax di Travis.

“Tales of Taliesin” è un pezzo del 1965, una vera e propria nenia orientale a passo di marcia con le note tirate lunghe dalla chitarra fino a che il ritmo non aumenta in un duello all’ultimo sangue con la batteria in un crescendo parossistico che si chiude implodendo su se stesso.

Il concerto è continuato con molti altri brani dalla storia del gruppo tra i quali “14 hours dream”, “Kings and Queens”, l’agape assoluto è stata l’esecuzione di “FaceLift” di Hugh Hopper dal monumentale “Third” (1970), un brano che ha più di cinquant’anni ma che conserva una forza e una freschezza tanto da sembrare scritto domani. Si è chiuso con un generoso medley finale di ben tre brani incastrati l’uno nell’altro “The Relegation of Pluto/Tarabos/Hazard profile part one” che ha compreso anche un prodigioso assolo di batteria. Le battute di Sirkis hanno un suono e un colore del tutto particolare, secco e aspro quasi privo di profondità e vibrazioni, insolito ma non certo spiacevole.

Durante tutta l’esibizione, il vento forte si è fatto sentire anche sulla struttura del palco facendone basculare paurosamente il tetto a cui naturalmente era stato lasciato un giusto gioco negli ancoraggi proprio per rispondere oscillando alle sollecitazioni. Gli artisti non si sono fatti di certo intimorire ed hanno concesso un altro generoso bis per salutare degnamente il pubblico del castello che ondeggiava e applaudiva con foga sotto l’occhio vigile e compiaciuto della luna.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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