Qualche problema di salute ha impedito, per il momento, a Mauro Pagani, di illuminare il Teatro Pasolini di Cervignano del Friuli con la sua Crêuza de Mä. Peccato; sarà per la prossima volta. (Ciao Mauro, ti aspettiamo!).

L’associazione Euritmica che ha organizzato l’evento, è dovuta correre ai ripari con un forzato cambio di programma e, intelligentemente, ha scelto di rimediare proponendo l’esibizione di un impressionante ensemble di straordinari musicisti sempre nel segno e nel sogno di Fabrizio De Andrè.

Mille anni ancora non sono certo come una delle tante tribute band che si vedono in giro. I membri fondatori del gruppo sono alcuni dei musicisti della band originale di Faber, quella che lo ha accompagnato nelle ultime tournée. Se questo non bastasse come garanzia d’origine controllata basterà citare il nome di Ellade Bandini, Mario Arcari, Giorgio Cordini e anche gli spettatori meno accorti capiranno che si è trattato dell’esibizione del meglio del meglio dell’aristocrazia della musica italiana.

Com’è stato ricordato dall’intrepido Giancarlo Vellisig, patron di Euritmica nella presentazione, la band è a oggi il miglior modo di ascoltare la musica di Fabrizio De Andrè alla pari della PFM che ha riportato sui palcoscenici di tutta Italia (Udine 12/11/2019) la storica tournè del 1978 (documentata in questi giorni al cinema anche da un raro film miracolosamente riemerso dalle cineteche) e di Cristiano De Andrè che da anni rimette mano e interpreta, in modo magistrale, il repertorio del padre (Udine 05/04/2019)

La serata del teatro si presentava sotto i migliori auspici che non sono stati per niente disattesi. La numerosa formazione ha aperto la prima parte dello show con l’esecuzione integrale dell’album Crêuza de Mä; sono esplosi così, fin da subito, in tutta la loro forza, la magia e l’incanto della musica e della poesia di Faber, come una nostalgia del lontano che viene su per una stradina di mare tra i sassi e i rovi e che conduce dritta ai nostri cuori.

Le emozioni arrivavano a ondate come il ricordo e un’emozione di un luogo da cui proveniamo senza esserci mai stati. Anche grazie alla straordinaria voce, mai sopra le righe e rispettosa del Maestro genovese, di Alessandro Adami tutti hanno potuto sognare come ragazze di buona famiglia che puoi azzardarti a guardare anche senza il goldone e cose da bere e da mangiare: frittura, cervella, lasagne, pasticcio e vino e sole. Crêuza de Mä è come una brezza marina che non si può spiegare ma solo sognare fino a farsi sanguinare il naso.

L’interpretazione di Ellade Bandini e soci è fin da subito apparsa intensa e meditabonda, emotiva e speziata, dai tempi lenti e pensosi come la risacca e rarefatta come l’eco di uno sciabordio appena percepibile. A fare la differenza inizialmente sono stati i Bouzouki e le corde di Enrico Mantovani e Giorgio Cordini davvero evocativi e dal suono speziato e salmastro.

Lo si percepiva immediatamente nel sogno arabo magicamente costruito dalle melodie sussurrate dai fiati di Mario Arcari in Jamin-A, sultana di bagasce con la lingua infuocata e la bocca spalancata di una nera lupa, lo sappiamo bene che dove c’è pelo c’è amore.

Come ha spiegato il prode Cordini, De Andrè metteva sempre all’inizio dei suoi concerti le canzoni in antico genovese perché aveva l’idea che nessuno ci capisse niente e invece non era per niente vero, in anticipo sui tempi, aveva creato un genere che ancora chiamiamo world music.

Le parole delle sue canzoni mordono, masticano e sputano il nostro cuore, come si è già avuto modo di dimostrare più sopra, non sono nenie esotiche e astruse ma brandelli di vita, visioni, allucinazioni, bagliori. Per quanto si cerchi di normalizzarla e sterilizzarla la sua poesia è sempre uno sberleffo, uno sputo e uno schiaffo in faccia ai benpensanti o a certi sedicenti politicanti che dicono di amarlo e non lo capiscono per niente forse solo perché, come diceva Faber, hanno il cuore troppo vicino al buco del culo e anche la faccia, aggiungiamo noi, deferenti e ossequiosi, con una pernacchia.

E’ in questo senso che va intesa la straziante lamentazione di Sidun che non è per niente un motivetto orientaleggiante tanto carino come pensa qualcuno, ma il grido di dolore di un padre che ha visto il suo bambino straziato dai cingoli di un carro armato e ridotto in un grumo di sangue e orecchie e denti da latte durante l’attacco a Sidone delle truppe del famigerato generale Sharon nella guerra civile in Libano scatenata da Siria e Israele.

Era uno dei brani che De Andrè amava di più cantare e, infatti, non a caso, ha una posizione centrale nel disco Crêuza de Mä proprio per la sua emblematicità e per il suo senso profetico. In questi ultimi anni tutta l’area del vicino oriente è di nuovo messa a ferro e fuoco dalla guerra, dilaniata dai conflitti e bruciata dalla nostra indifferenza, lo ha ricordato anche il violino pizzicato di Stefano Zeni.

Più scanzonata ma non meno significativa Sinàn Capudàn Pascià che racconta del marinaio genovese Cicala del XV sec. che dopo essere stato catturato dai Mori ne diventa Gran Visir e comandante di eserciti: E questa è la mia storia e te la voglio raccontare prima che la morte mi pesti nel suo mortaio”. Diego Maggi, lupo di mare, in quella linea d’ombra tra le tastiere e l’orizzonte, ha saputo perfettamente tenere bordone e armonizzare quell’antica storia.

E’ uno che non sa fare niente e non ha voglia di far niente ‘A pittima che se ne va in giro a chiedere soldi mentre la vocalist Laura De Luca imbocca il flauto traverso in un delicato accompagnamento per suggerirne meglio l’amarezza e la vergogna.

E poi è finalmente domenica A dumenega, quando le figlie del diavolo fanno il giro del paese in un dondolare di cosce e di tette facendo voglia a tutti di andare in casino senza accorgersi che in mezzo a quelle creature di Cristo che si guadagnano il pane da nude ci sono anche le loro mogli e forse persino le loro mamme.

Quando ancora le ultime note continuavano a librarsi sul pubblico è cominciata, senza soluzione di continuità, la seconda parte del concerto con l’esecuzione di una serie dei più bei brani di Faber; una collana di fiori odorosi, un serto di magnifiche rose con tutte le spine. Gli arrangiamenti sono stati perfettamente aderenti al canone, senza discostarsi minimamente dal modo di suonare di venti anni fa, senza variante alcuna.

Anche, se a tratti, c’era da restare perplessi perché una riproposizione così letterale sembrava quasi sacrilega, in un attimo ci si è fatti comunque travolgere dall’emozione e dalla reminiscenza della rimemorazione. Certi che questa musica appartiene ormai di diritto a tutti, non ha mai avuto padroni e mai ne avrà. E poi i Mille anni ancora l’hanno suonata insieme a Faber, e anche per questo hanno tutto le giustificazioni possibili per poter cercare di ricreare quelle atmosfere nel modo che gli sembra migliore e ci riescono benissimo. Le persone che affollavano il teatro Pasolini di Cervignano ne erano perfettamente consapevoli e ne hanno gioito a cuorcontento.

Hanno sfilato ancora ordinatamente capolavori come: Anime salve con le sue ore infinite come costellazioni e onde e poi Dolcenera fredda come un dolore e senza cuore. Non ci sono abbastanza parole per cercare di spiegare e capire il dono che Faber ci ha fatto creando questi due sogni in forma di canzone che si possono solo ascoltare trattenendo le lacrime ammesso di riuscirci davvero.

Il pubblico attento conosceva tutti i brani della scaletta a memoria, nota per nota, in ogni piccola sfumatura, per averli sentiti e risentiti migliaia di volte in centinaia di versioni, qualcuno forse avrebbe saputo perfino suonarli. Eppure è come se fosse sempre la prima volta, come se Fabrizio De Andrè non se ne fosse mai andato e continuasse a guardarci storto e a sorriderci bonario dietro le sue sigarette, lui che conosceva ogni nostro piccolo vizio, tutti i peccati e le omissioni.

Sono vent’anni che Faber ne ha sempre cinquantanove come quando ha chiuso la porta dietro di se per l’ultima volta; tra qualche giorno ne avrebbe compiuti ottanta. Manca a tutti, è vero, ma ci ha lasciato la migliore parte di se, per riempire l’incolmabile assenza. La sua musica e la sua poesia ci sorpasseranno e un giorno potranno fare a meno anche di noi e se ne andranno incontro al futuro finalmente libere da tutto e tutti.

Chissà cosa avrebbe pensato il poeta del fatto che in Arizona, per edificare il vergognoso muro di Trump al confine con il Messico, le ruspe hanno sbancato impunemente alcuni antichi siti di sepoltura dei nativi americani tutelati dall’Unesco. Viene allora da dire che oltre ad essersi presi il loro cuore al Sand Creek, non rispettano nemmeno più nemmeno i loro poveri resti mortali.

Naturalmente in scaletta c’è stato posto anche per le super hits come Marinella, Bocca di Rosa, Amico fragile, la canzone dell’amore perduto, Geordie ecc. Quando partono le prime note de Il pescatore, sembra stia tutto per finire, anche perché era quello, tradizionalmente, il barano di chiusura degli shows di Faber e, invece, dopo un diminuendo e un brusco finale di canzone, un’interruzione in forma di sterzata che è sembrata un solco lungo il viso come una specie di sorriso, è decollato uno splendido assolo di basso di Max Gabanizza che ha riportato tutti ai clamori fusion dello slapping e del walking bass degli anni ‘80; al groove si è subito accompagnata l’esplosione del drumming di Ellade Bandini che si diverte ed estenua da decenni picchiando energico le sue pelli. Virtuosismi un po’ datati ma assolutamente godibili e piacevoli. E, ad un tratto, letteralmente, si Volta la carta inseguendo Angiolina che cammina cammina con le sue scarpette blu.

Nel finale, è stata allora la volta di Andrea una canzone dedicata a quelli che anche il filosofo Platone chiamava i figli della Luna e che noi, con il cattivo gusto che ci distingue, diciamo diversi. Il gruppo, come faceva De Andrè, a questo punto, ha fatto accendere tutte le luci in sala, perché nessuno deve vergognarsi più di quello che è; nessuno deve essere costretto a nascondersi nella tenebra del disprezzo. Guardiamoci tutti quanti una buona volta, onestamente, dritti negli occhi a luci accese cercando di scoprire i fratelli che abbiamo davanti.

In piena luce, nel finale lo splendido Ellade Bandini con un tamburo e la vocalist sono scesi tra il pubblico entusiasta per incitarlo e cantare tutti insieme gli ultimi bagliori di uno spettacolo che è finito in un diluvio di meritatissimi applausi.

Perchè scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia, e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile”.

Flaviano Bosco © instArt

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