Sacile, 05/06/2021 – Controtempo – Teatro Zancanaro – Il Volo del Jazz – MANU KATCHÈ “The Scope” – Manu Katché: batteria – Jérôme Regard: basso – Patrick Manouguian: chitarra – Èric Legnini: tastiere – Foto Luca A. d’Agostino / Phocus Agency © 2021

Un improvviso temporale ha rinfrescato i tanti spettatori in ordinate file accorsi al teatro Zancanaro di Sacile per la terza intrigante serata de Il Volo del Jazz organizzato da Controtempo con un concerto in assoluta esclusiva per l’Italia.
Il temporale vero e proprio aspettava dentro, dietro le quinte, nei camerini. Si è scatenato quando l’eccelso batterista parigino Katchè ha cominciato prima a rullare e poi a colpire le sue “pelli”. Prima un brontolio lontano con qualche fulmine all’orizzonte tra i nembi che si aggrumavano nereggiando e poi d’improvviso lampi, vento, ferro e fuoco dentro il teatro, tra le assi del palcoscenico, tra ritmi e suoni in loop di chitarra e tastiere dal suono vintage.
Più l’incedere si faceva ossessivo, più l’attesa e la suspance tra il pubblico si faceva nervosa e spasmodica. Gradualmente, inesorabilmente, l’intensità diventava maggiore, fino a che un fulmine con il suo tuono rimbombante ha finito per rovesciare sul pubblico una vivificante pioggia di beats e di good vibes come non se ne sentiva dai tempi della fusion e del magistero di Joe Zawinul.

Katchè, oltre a essere un gran musicista, è anche una persona molto ironica e affabile che sa rivolgersi al proprio pubblico gratificandolo e ammaliandolo non solo con i suoi ritmi ma anche con le sue parole. Il suo sound è proprio così: dolce, suadente, mai aspro, sempre solare e ballabile. In questo concerto che si concentra su The Scope, decimo album in studio del febbraio 2019, non ci sono asperità o riflessioni di sorta, è semplicemente pieno di meraviglie musicali in una continua sarabanda di ritmi, colori, atmosfere. Parafrasando un titolo fondamentale di ogni discografia classica del jazz, potremmo dire: Relaxing with the Manu Katchè quartet.

Questo non vuol dire che non sia stata un’esibizione maiuscola. Katchè ha la poliritmia nel sangue e sembra quasi scontato dirlo per uno che fa il batterista, ma la sua grandezza sta nella semplicità apparente di certi passaggi e nel suono duro e marcato, quasi minerale dei suoi colpi che spesso coniuga con effetti elettronici senza però mai dare l’impressione di meccanica drum machine. Il suono che trae dalla sua batteria è rotondo, d’andamento sinusoidale, ripetitivo, spiraliforme ma, nel complesso, dolce e circolare, un universo di suoni che vibrano al battito del cuore.
E’ un percussionista che riesce a coniugare perfettamente un virtuosismo insuperabile e ipertecnico ad una morbidezza e levità quasi da dance hall; ha una tessitura ritmica nella quale ci si dimentica della tecnica e ci si smette di guardare l’incredibile assortimento di tamburi, piatti, campane, devices della sua fantascientifica e preziosissima consolle. Ci si lascia andare al groove di brani tutto sommato semplici fino a sfiorare la musica d’ambiente ma che conservano il grande fascino delle gemme preziose che si riconoscono sempre in mezzo agli altri sassi.

Katchè è un fuoriclasse che non ha bisogno di mostrare muscolarmente la sua perizia e il suo immenso talento. Certo gli altri pur ottimi musicisti che lo accompagnano spariscono davanti al suo carisma ma non lo si può certo accusare di irruenza o di volontà di schiacciare le altre personalità.
In un’intervista ad All About Jazz ha dichiarato di aver costruito tutte le canzoni attorno alla batteria e non c’è proprio da stupirsene visto che è lo strumento che ha sempre suonato a parte un breve giovanile percorso pianistico al conservatorio di Parigi. Spesso sa mettersi anche a disposizione del proprio ottimo chitarrista Patrick Manouguian in grado di passare agevolmente da accordi funkeggianti, al desert blues, fino a territori lisergici e acidi per poi ripiegare sul soul, jazzy e sweety, rivelando un’incredibile versatilità. In alcuni momenti la sua chitarra è diventata del tutto “africana” con passaggi e sonorità che ricordavano la Kora, la madre di tutti i cordofoni, che nel disco viene suonata in “Keep Connection” dalla grande musicista del Mali Kandia Kouyaté di un’antica famiglia di Griot.

Katchè ha prestato i propri ritmi, tra gli altri, a Peter Gabriel, Sting, Joni Mitchell; solo da queste incredibili collaborazioni possiamo capire quanto è vasto l’universo di riferimenti del percussionista francese.
Nella serata di Sacile si sono sentite, infatti, suggestioni world music dal Rif Marocchino e dalla Costa d’Avorio, evidenti nel brano che si avvale della voce di Faada Freddy, ma allo stesso tempo reggae in dub anglo-caraibici fino al soul folk urbano dei club americani.

Nei puristi una qualche perplessità iniziale hanno provocato gli inserti video e audio sui quali la band ha suonato coinvolgendo artisti che così hanno prestato la loro voce e presenza virtuale all’esibizione. I brani erano però talmente ben orchestrati e arrangiati che, infine, le proiezioni sono sembrate uno dei tanti preziosismi elettronici che hanno arricchito e reso ancora più splendida e complessa la texture del concerto.

Proprio in uno di questi ultimi, il batterista ha dichiarato di aver incontrato, molti anni fa, l’incredibile voce di Jonatha Brooke che innamora in “Let Love Rule” tra beat elettronici e piano bar d’annata. Ha potuto mettersi così in evidenza il tastierista Eric Legnini che, con la sua NordStage 2, rievoca sia nostalgie groovie anni ‘60, sia l’electro pop dei locali e dei club delle capitali europee, da Parigi a Berlino. Dichiaratamente, Katchè, in queste composizioni, ha voluto immaginarsi le persone che ballano felici a tutte le latitudini, al ritmo di composizioni sofisticate ma al tempo stesso immediate e allegre; da Londra a Dakar è una tribù che balla!

Un deciso contributo a rendere ancor più suggestive e profonde le atmosfere della band sono state le autentiche acrobazie di Jérôme Regard sulla tastiera del suo basso. Elegante e ipnotico, anche grazie ad un controllo assoluto della strumentazione elettronica collegata al suo “legno” che così appariva a tratti come il Caduceo di uno sciamano dai suoni stregoneschi e magici.

Un altro vento africano ha fatto sentire il proprio calore al pubblico dello Zancanaro di Sacile quando il gruppo ha intonato il brano “Vice” dolce, rinfrescante e alcolico come il vino di palma fermentato cantato in duetto virtuale con il rapper senegalese Faada Freddy noto per esprimere la sua arte anche in lingua Wolof.
Nel ritornello della canzone la frase “Yes we can” ha riportato alla memoria uno slogan che dopo l’Era Trump e il Covid sembrava tramontato ma che invece ha ancora molto da dirci. Come nella musica meravigliosamente poliritmica, multiculturale, meticcia, contaminata di Katchè è vero che possiamo vivere tutti insieme da fratelli, abbracciandoci in una nuova primavera di pace, di suoni e di ritmi in una “nuova felice ripartenza” com’è stato detto dal palco.

Uno dei momenti più straordinari del concerto è stato quando il batterista ha invitato il pubblico a ritmare un brano con la voce. Ha diviso le donne dagli uomini, facendo scandire alla voce più acuta delle prime un ritmo che potremmo rievocare con la parola Twetty, alla voce più greve dei maschi invece era assegnato il classico Tum-Tum. Ad un certo punto è sembrato un miracolo, una vera rinascita in musica di tanta anime. Sotto le mascherine ognuno rideva cantando. E’ proprio vero che il jazz può farci volare sopra i nostri affanni e le quotidiane miserie. Come dice la canzone di Katchè: May be we Should let love decide…Let Love Rule.

Nel finale delicatamente funky, sui titoli di coda ringraziando i propri musicisti e il pubblico che si scalmanava in applausi, il batterista ha scandito G-R-A-Z-I-E-S-A-C-I-L-E come un mantra e una lode piena di fantastiche emozioni. Anche noi allora possiamo dire con la danza del nostro cuore, volando liberi in Jazz: Grazie Manu, Grazie Controtempo.

© Flaviano Bosco per instArt

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