A cosa serve la musica in un momento nel quale il mare di Calabria da più di un mese sta vomitando sulle nostre spiagge i corpi di centinaia di nostri fratelli africani assassinati da chi aspetta che a salvarli sia sempre qualcun altro?

Che senso ha deliziare le proprie orecchie con i preziosi suoni degli strumenti antichi quando nei cieli dell’Ukraina risuonano continuamente le sirene d’allarme dei bombardamenti?
Perché starsene comodi in un lussuoso teatro mentre il resto del mondo precipita nella voragine d’odio e di violenza di centinaia di sanguinosi conflitti?
Cosa sono la bellezza e l’armonia in una realtà dove imperano il pregiudizio, la sopraffazione e la discriminazione e dove l’unico dio sembra essere il profitto ad ogni costo?
A tutti questi spaventosi quesiti hanno cercato di rispondere la viella e la lira del Maestro Jordi Savall, in accordo con il kanun di Hakan Güngör, il ney di Moslem Rahal, l’oud e la voce di Waed Bouhassoun, le percussioni di David Mayoral, il santur e la chitarra moresca di Dimitri Psonis, qualche sera fa, nella magica atmosfera di un concerto che è apparso come una liturgia di un rito apotropaico.
Il libretto di sala riportava: “Oriente-Occidente. Dialogo delle anime. Dialogo di musiche cristiane, giudaiche e mussulmane intorno al Mediterraneo”. L’ensemble ha eseguito danze, canzoni, inni, salterelli di antica tradizione araba, siriana, giudaica, siciliana in un peregrinare in lungo e in largo sulle sponde del “Mare bianco in mezzo alle terre” com’è conosciuto nel mondo arabo.
Ernst Jünger e Carl Schmitt nel 1953 licenziarono un piccolo saggio di cruciale importanza per la visione geopolitica del mondo d’allora e ancora valida per quello attuale: “Il nodo di Gordio. Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo”. Nelle prime righe scrivevano: “Questo incontro (tra Oriente e Occidente) non soltanto è d’importanza primaria ma rivendica anche un suo posto peculiare. Esso indica la direzione principale della storia, l’asse che si orienta sul corso del sole. Illuminato fin dai primi albori, è un modello che continua a svilupparsi verso i giorni nostri. I popoli si presentano sull’antico palcoscenico e nell’antico intreccio con una tensione sempre nuova”. (Pag 33, Il Mulino)
Per strano che possa sembrare a qualcuno la musica e l’arte, in generale, sono le uniche cose che ci possono ancora salvare. Davanti alla catastrofe che ognuno di noi, anche senza volerlo, ha contribuito a scatenare con la propria indifferenza e la propria ignavia, fermarsi a riflettere sull’universalità della bellezza in musica ci aiuta a riconciliarci con la nostra umanità e a prepararci ad accogliere con spirito nuovo le sfide che ci attendono. Nel caos che ci circonda e che non ci permette né di orientarci né di comprendere qual è il sentiero più adatto alle nostre esigenze, fermarsi ad ascoltare il suono arcaico degli strumenti del Mediterraneo è un autentico atto rivoluzionario. Come diceva Pasolini esortandoci a salvare le mura di Sana’a: “In nome degli uomini semplici che la povertà ha mantenuto puri. In nome della grazia dei secoli oscuri. In nome della scandalosa forza rivoluzionaria del passato”.
Prima del concerto, brevi momenti d’intonazione per corde che anche se non sono più di minugia richiedono comunque una cura straordinaria. Sentire accordare gli strumenti prima che l’esecuzione abbia inizio, è sempre una sensazione straniante e dolce amara nella quale si mescolano il piacere dell’attesa per l’imminente epifania sonora, ma anche il sottile fastidio causato dall’impazienza, dalla cacofonia, dallo stridio delle corde, dalle scale ripetute che si sovrappongono e slegano insensatamente.
Da quel magma sonoro più o meno incandescente dopo poco sorgerà quasi d’incanto la Fenice dei suoni armonizzati in una sinfonia di emozioni che riguarda sempre il mistero dell’esistere e la concordanza dei contrari che faceva dire agli antichi che la musica promanava direttamente dallo spirito della divinità.
A questo riguardo, scrive lo stesso Jordi Savall nelle “Note di sala”: “Fin dai tempi antichi ci sono stati continui riferimenti allo straordinario potere e agli effetti della musica e degli strumenti su persone, animali e persino alberi e piante. Questi sono gli attributi più caratteristici di Orfeo, ed è proprio a causa del potere e dell’abilità musicale di Orfeo che lui divenne il soggetto di uno dei miti greci più oscuri e simbolicamente carichi.
Il mito di Orfeo si è sviluppato in un’intera teologia attorno alla quale è cresciuta una letteratura copiosa e, in gran parte esoterica. Orfeo è il musico per eccellenza, di cui si dice che suonasse melodie così incantevoli che persino le bestie feroci, gli alberi e le piante si inchinarono davanti a lui, e il più feroce degli uomini fu placato dalla sua musica.”
Savall e il suo ensemble conoscono bene il potere teurgico e terapeutico della musica, sanno che credendo nei suoi valori è davvero possibile ristabilire l’armonia del cosmo anche nelle miserrime esistenze degli esseri umani. Conoscono la necessità di credere con tutte le proprie forze nell’urgenza di questa illusione che possiede la forza della trasmutazione alchemica. La musica è in grado di trasformare lo sterco delle nostre esistenze nell’oro spirituale che ci trasporta platonicamente verso la contemplazione del bene e del bello.
Fin dal primo brano proposto, al richiamo del tamburo ha risposto da dietro le quinte la voce evocativa e lontana del Ney che mano a mano si avvicinava proiettando tutti i presenti immediatamente in un’altra dimensione dove il tempo sembrava non avere alcun senso; sempre in dialogo con il tamburo, il flauto mediorientale intarsiava le memorie con le prospettive in un gioco infinito di specchi e rimandi tra quello che c’era e quello che forse nemmeno vedremo.
E’ un suono metallico quello del flauto arabo che ricorda di lame sfiorate dal vento a metà tra il verso di un misterioso uccello e il belato di un ovino. E’ un richiamo della natura che viene da una radura in mezzo al bosco oppure dalle profondità che ci sovrastano, a volte sembra solo un sussurro ma, sappiamo bene che contiene il candido furore di un sospiro urlato.
In perfetta consonanza, la viella e il salterio tracciavano le loro geometrie nel buio della sala cui il tamburo finiva per adeguarsi insieme al Ney. L’atmosfera sempre cangiante diventava a tratti più ordinata e seriosa, senza però perdere mai minimamente di fascino e suggestione, arrivando al contrario, fino agli eccessi orgiastici della danza per poi placarsi nelle melodie speziate del Quanun e delle sue corde pizzicate che facevano presentire il canto femminile che seguiva dolcissimo, non senza un’eco di dolore nascosta sotto i sospiri e i sussurri.
A tutta questa fantasmagoria di suoni si univa il potere ipnotico e sciamanico del tamburo a cornice con i sonagli in bronzo (Daf e Riqq) che esaltava i luminosi accordi della chitarra moresca cui a volte si accodavano tutti gli altri strumenti per una danza medievale con tanto di dame prese per mano e guidate in giro, in giro in infinite carole cortigiane.
Le corde percosse con grande sapienza del Santur iraniano hanno un suono che rapisce e che da solo ci fa pensare al Vicino Oriente delle notti stellate di Shahrazad o delle avventure di Sindbad il marinaio del califfato abbaside.
La voce maschile baritonale di Rahal e quella più aggraziata e flautata di Bouhassoun armonizzavano in delicati melismi, conducendosi a vicenda in una spirale ascendente e melodica che, unita agli altri strumenti, ricordava il volo nuziale di alcuni insetti sociali che nel calore dell’estate sciamano verso il sole seguendo innamorati la propria regina.
Gli scroscianti applausi del pubblico esplodevano quasi timidi e stupiti davanti a tanta bellezza, in alcuni momenti, paradossalmente perfino eccessiva e difficile da gestire in un tumulto d’emozioni rare come gli uccelli del paradiso.
Il Maestro Savall con il suo archetto, in certi tratti, guidava gli altri suoi sodali in ariosi larghi che poi sfociavano in danze suadenti e seducenti durante le quali la voce di Bouhassoun sembrava venire dalle corolle dei fiori di un misterioso giardino incantato in delicatissimi istanti di sospensione e levità; tutto il teatro rimaneva allora con il fiato sospeso per lunghi minuti come se galleggiasse in una leggerissima dimensione di cristallo. E’ stata una vera e propria estasi sonora per il pubblico, ma anche per i musicisti che sono stati le luci guida di una mistica ascesi.
Nel battito delle mani e nei ritmi più elementari si conservano le fantasie del tempo così come nel canto comune e conviviale che ricordano a tutti la necessità di dar voce alla pace e alla misericordia fino a toccare le corde del cuore.
Jordi Savall rivolgendosi al pubblico lo ha ricordato con grande forza spiegando la scelta dei brani in scaletta che erano variazioni di una stessa antica melodia che accomuna molte culture che si affacciano sul Mediterraneo e che ognuno crede appartenergli, mentre è un vero e proprio patrimonio collettivo di Siriani, Turchi, Greci, Ebrei Shefarditi e molti altri.
Ognuno contende l’origine della medesima melodia che, in realtà, da sempre appartiene a tutti e si chiama Amore. L’ensemble ha dedicato la propria esecuzione a tutte le vittime delle guerre nel mondo, esortando alla pace e alla misericordia nella sera dell’equinozio di primavera, in piena Quaresima per i cristiani, a pochi giorni dall’inizio di Ramadan per i fratelli mussulmani, mentre s’appresta Pesach per il popolo ebraico, nel tempo della riconciliazione e della solidarietà per tutti gli uomini di buona volontà.
Sempre Jünger e Schmidt scrivono: “I confini tra la concezione occidentale e quella orientale non devono essere considerati rigidi, giacché hanno qualcosa di fluido; ai loro margini, infatti, si ha costantemente uno scambio di idee e di forme, e ciò in ogni epoca. Le grandi questioni della storia illuminano senza illuminare; muovono senza essere mosse; si ergono come rocce in mezzo ai flutti.”

© Flaviano Bosco – instArt 2023

Share This