Ancora un pienone in Castello per uno degli eventi clou dell’estate udinese. L’impeccabile Steve Hackett, ancora una volta in Regione con il suo glorioso “Genesis Revisited”, in questo tour porta sulle scene il fantastico live “Seconds Out” del 1977, l’ultimo che vide la presenza del chitarrista e la loro prima vera testimonianza dal vivo dei Genesis del dopo Gabriel.

Quel tour di 45 anni fa fu il più grandioso e postremo della fase progressiva del gruppo e chiuse definitivamente un’epoca in contemporanea con l’esplosione della furia del Punk che la spazzò via definitivamente con il rimpianto di molti e la grande gioia di altrettanti.

L’iconica copertina di quell’album meraviglioso riporta la band on stage illuminata da due file parallele di 24 fari dello stesso modello e potenza di quelli utilizzati nelle piste degli aeroporti per i Boeing 747.

I Genesis allora avevano proprio la forza propulsiva di un Jumbo Jet intercontinentale; negli anni avevano acquisito un’esperienza tecnica e una perfezione ineguagliabile che facevano di quei loro show un’esperienza sensoriale più intensa di quelle teatralizzate del periodo Gabriel, almeno dal punto di vista musicale.

È proprio a quello cui continua sempre a fare riferimento Steve Hackett con il suo “Genesis Revisited” nelle sue varie incarnazioni. Non ha niente di tronfio, circense o trionfale, è sempre un’esecuzione perfetta di brani suonati al meglio senza alcuna concessione ai rituali dello spettacolo o ad un certo divismo di maniera. Il chitarrista con i suoi musicisti, sul palco e fuori, si presenta come una persona molto alla mano, generosa con il pubblico, affabile e sorridente con la sola voglia di divertire e divertirsi attraverso della buona musica. Fa la differenza in un mondo di suoni generati dalle macchine suscitati da cervelli all’ammasso che si credono star perché “I produttori gli dicono – Tu devi scrivere canzoni su questo e quello, fare canzoni che aiutino il pubblico a mettere roba dentro il carrello”.

Hackett è esattamente l’opposto dello zimbello dei produttori; ha lasciato i Genesis dopo un tour trionfale quando dal punto di vista commerciale erano ancora all’apice e di soldi ne avrebbero fatti ancora a palate nel decennio degli ‘80 con la loro conversione al pop. In tutti questi anni da solista ha continuato a produrre album propri assolutamente eccellenti e a portare in giro per il mondo le musiche che lui stesso contribuì a comporre negli anni dei Genesis. Alla lunga ha avuto ragione di quelli che, senza ascoltarlo, lo accusavano di nostalgici rimpianti e di fare del mero fan service. Chi lo ascolta oggi capisce bene che quel repertorio gli appartiene completamente e può godersi la magia che ogni sera si compie sulle assi dei palcoscenici di tutto il mondo.

La band che lo accompagnava su quello imponente del Castello di Udine era formata da: Roger King (Tastiere) Craig Blundell (Batteria percussioni) Rob Townsend (Sax, flauto, percussioni) Jonas Reingold (Basso e chitarra) Nad Sylvan (Voce) Amanda Lehmann (Chitarra, voce).

Il concerto è iniziato puntualissimo, il primo brano si è distinto anche per la preziosa tessitura melodica del sax soprano; il bassista che funge anche da chitarrista ritmico, sfoggiava una chitarra/basso doppio manico G14 Hugh Manson DoubleNeck che ricordava la Shergold di Rutheford dei tempi gloriosi, chitarra a 12 corde sul manico superiore e basso sul manico inferiore. Reingold in qualche brano ha suonato anche un basso Rickenbacker vintage non meno prezioso.

Steve Hackett ad inizio concerto ha parlato con il suo pubblico annunciando quello che tutti già sapevano e si aspettano, cioè l’esecuzione integrale di “Seconds Out”. Anche se i brani sono celeberrimi, diremo qui di seguito qualcosa su ognuno citando i versi dei testi che non sono per nulla trascurabili per chi voglia accostarsi a quel meraviglioso e complesso universo musicale.

1) “Squonk”: “Vivo alle due estremità ma un po’ morto nel mezzo” è la storia di uno sfortunato animaletto che piange sempre perché si sente brutto, solo e triste. I suoi lamenti permettono ai predatori di individuarlo facilmente. Non appena lo ghermiscono lui si scioglie letteralmente in lacrime. È una specie di follia lontanamente ispirata, soprattutto nell’incedere marziale e maestoso, a “Kashmir” dei Led Zeppelin per stessa ammissione di Tony Banks che la compose dopo aver sentito alla radio i maestosi riff di Jimmy Page.

Molto buono, come sempre, il lavoro del cantante Nad Sylvan che da anni accompagna Hackett e che non ha mai cercato di imitare Phil Collins che non voleva imitare Peter Gabriel in un confronto impossibile e sempre impietoso ma, per tanto che se ne possa dire, tutti e tre sono stati ottimi interpreti ed hanno saputo costruire con la loro voce splendide alchimie sonore.

Il medesimo discorso si potrebbe fare sull’eterna riproposizione da parte di Hackett di quel repertorio con il suo progetto musicale che si appresta a celebrare il cinquantenario di “Fox Trot” già a partire dal prossimo novembre: Hackett non imita, esegue la propria musica: gran parte di quei brani non avrebbero, infatti, visto la luce allora senza il suo lavoro di composizione e arrangiamento e sono impensabili oggi nelle mani di chiunque altro.

È vero che esistono tribute band dei Genesis progressivi di pedissequa perfezione tecnica, in grado di riprodurre nei minimi particolari le esibizioni degli anni ‘70 (Vedi The Musical Box band) ma il lavoro d’interpretazione di Hackett è del tutto diverso, più arioso e meno letterale; da quella stagione, pur non rinnegandola (ci mancherebbe), si è emancipato da lungo tempo, quindi non esprime nessun intento nostalgico o rievocativo, non indulge mai nella teatralità e non blandisce il pubblico con il fan service. Suona la propria musica del passato e del presente con grande eleganza, classe e rispetto verso gli appassionati che non si sentono mai intrappolati in un mummificato eterno ritorno dell’uguale ma parte di una storia che continua e non sembra avviarsi verso la conclusione nemmeno dopo 10 lustri.

È stata davvero preziosa la presenza, in alcuni brani, della cantante chitarrista Amanda Lehmann, già vista in precedenti tour del Genesis revisited. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo pregevole album solista, “Innocence and Illusion” dopo una lunghissima carriera di turnista. La sua incisione ha visto la collaborazione di molti degli stessi musicisti della band, Steve Hackett compreso. Anche per questo la sintonia tra di loro non potrebbe essere maggiore e spiace vederla sul palco solo per pochi momenti anche se intensi.

2) “The Carpet Crawlers”: “Una salamandra corre verso la fiamma per essere distrutta. Creature immaginarie sono intrappolate nella celluloide al loro nascere”. Dice Hackett al pubblico: “I hope you havin’ fun” poco prima di impegnarsi nell’esecuzione di uno dei brani più importanti ed enigmatici del concept album “The Lamb Lies Down on Broadway”, capolavoro del rock progressivo e apice creativo dei Genesis in formazione classica prima maniera. Il brano, sia dal punto di vista musicale che poetico, descrive un momento d passaggio e di trasformazione da una forma tangibile, materica e corporea a una più spirituale, astratta e intangibile. Coloro che strisciano sul tappeto gridando: “We got to get it to get out” (dobbiamo entrare per uscire) sono coloro che, pur miserabili, indicano la via d’uscita all’abiezione e al male morale che ci attanaglia: dobbiamo purificarci e rinascere passando attraverso la cruna dell’ago (Needle’s Eye) in una nuova forma di consapevolezza e di esistenza.

3) “Robbery, Assault and Battery”, dall’album “A Trick of the Tail” del 1975 primo della nuova era dei Genesis: “Ciao ragazzo, spero che tu ti stia divertendo. Lei si sta sbagliando signore, io sono l’uomo delle pulizie, detto questo egli sparò, mentre l’altro morendo disse: mi hai fatto del male, è sempre la solita vecchia storia”. È la tragicomica, paradossale storia di un giovane sfortunato che finisce male sia come onesto cittadino, sia come maldestro furfante. Il mondo è troppo cattivo e crudele per quelli come lui.

Come ha dimostrato l’ultima patetica riunione dei Genesis con il famoso video di Collins che confessa la propria malattia articolare, ciò che davvero è rimasto intatto e positivo di quel periodo progressivo è proprio l’inestinguibile talento creativo ed esecutivo di Steve Hackett che si diverte ancora come un ragazzo nella sua stanza dei giochi fatta di chitarre, di luci e di ritmi.

4) “Afterglow”: “Come la polvere che si posa attorno a me devo trovare una nuova casa le strade e i buchi che in genere mi davano rifugio adesso l’uno vale l’altro per me”. E’ una dolce ballad piena di fiducia e di speranza in un mondo che sta faticosamente rialzandosi dopo una terribile sciagura che aveva minacciato di “perderlo” per sempre.

Il palco di Udine era incorniciato sullo sfondo dalla doppia scalinata del castello che porta al piano nobile e alla sala dell’antico Parlamento del Friuli con un effetto estetico-scenografico dalle architetture davvero affascinanti.

5) “Firth of Fifth”: “Il percorso è chiaro, sebbene nessun occhio possa vedere, il corso è stato stabilito molto prima. È così con dei e uomini le pecore restano nel loro recinto anche se hanno molte volte visto la via per uscire”. Il pianoforte di Roger King ha disegnato nella notte di Udine il meraviglioso incipit e poi il lento maestoso percorso di quello che è stato il simbolo di un’intera epoca della musica; se il prog è stato qualcosa e continua ad esserlo è questa cosa qui…la figura del chitarrista nel suo assolo con tutti i fari puntati addosso emergeva paraliturgica e sospesa nel tempo mentre officiava un rito nella venerazione di tutti.

“The sands of time were eroded by the river of costant change” era da brividi, un’”assolutamente” perfetta sintesi di un’emozione che non finisce mai nell’eternità di quei versi annegati nella loro melodia.

6) “I Know what I like (in your wardrobe)” il brano era riarrangiato in una versione appena appena jazzata con tanto di sax tenore e walking bass, in questa veste se è possibile, appare ancora più divertente e godibile; quando si ritorna nei ranghi dell’esecuzione tradizionale la canzone appare decisamente arricchita. E’ una versione in musica della favola di Esopo, nota con il titolo “Il parere degli altri” che riporta gli sprezzanti giudizi della gente sui comportamenti di un ragazzo, di un contadino e del loro asino che qualsiasi cosa facciano vengono considerati degli idioti. In questo caso, l’oggetto delle critiche di tutti è un povero taglia erbe ma il senso è il medesimo, qualunque cosa si faccia per i maldicenti è sempre un errore.

7) “The Lamb lies down on Broadway” è il brano che da il titolo all’omonimo, criptico album imperniato sulla vicenda del messia contemporaneo Rael, agnello sacrificale dello show business (1974) che, a distanza di tanti anni, non smette di essere quel complesso capolavoro innovativo che è sempre stato, teatrale, ambizioso, forse esagerato ma luminoso che Hackett e i suoi sanno riportare a nuova vita. “I guardiani della notte si sono divertiti dormendo per pochi soldi durante lo spettacolo di mezzanotte è lo stesso vecchio finale, è ora di uscire…Sembra che non riescano a lasciare il sogno”.

8) “Shadow of the Hierophant” con la chitarrista Amanda Lehmann che canta con voce d’angelo, suona ed è decisamente un bel vedere, cosa volere di più? E’ un brano epico tutto sussurri e flauto traverso: “Si scioglie nel vuoto del sogno da cui non potrà mai scappare. Perso nei pensieri alla ricerca della visione come la luna eclissò il sole.” Lo Ierofante, nella religione greca più arcaica, era il sacerdote supremo cui spettava officiare ai riti d’iniziazione durante i culti misterici eleusini; era colui che era in grado di mostrare chiaramente tutta la forza e la misteriosa profondità del sacro. A quegli antichi culti non era estranea per nulla la musica che era strumento di elevazione e di trascendenza verso stati superiori di coscienza.

C’è stato anche tempo per una bella esibizione di tapping dall’effetto “organistico” del chitarrista con tanto di campane nel finale in un crescendo trionfale.

9) “The Musical Box (Closing Section)” è il brano di apertura di “Nursery Crime” del 1971. Il titolo dell’album era un gioco di parole con “Nursery Rhymes” le favolette inglesi per bambini che le balie raccontavano ai loro piccoli per spaventarli o farli dormire. Il lungo brano è un racconto macabro, esoterico che la musica sottolinea magistralmente. In sintesi, due bambini giocano a croquet, la piccola e dolce Cynthia con la sua mazza stacca la testa all’innocente Henry che, in seguito, il suono di un carillon, fa ritornare sotto forma di vecchio che dolorosamente si disgrega e dissolve. Solo il tocco della bambina potrà dargli pace: “Touch me! Touch mw, Now”. Ma arriva la balia, distrugge il carillon e tutto svanisce. Il testo lascia sgomenti e atterriti, la musica soprattutto nella versione attuale di Hackett e soci non smette di meravigliare e colpire per la sua incredibile, inquietante magia.

10) “Supper’s Ready” è una lunga suite in 7 movimenti dolcissima e dolorosa come ogni ricordo lontano e perduto che il flauto traverso e la tastiera riportano alla luce della memoria di ognuno. Il culto dei Genesis passa anche per una pietra miliare della musica come questa con il suo trascendersi allucinatorio. Nella buona sostanza è il resoconto di una sconvolgente esperienza extrasensoriale psichedelica nel soggiorno di un loro amico, provata da Peter Gabriel e dalla moglie. La coppia ha sempre sostenuto che in quell’occasione, insolitamente non avevano assunto alcuna droga psicotropa. “Camminando attraverso il salotto, spengo il televisore. Sedendo dietro di te, guardo nei tuoi occhi mentre il suono delle automobili svanisce nella notte. Giuro che ho visto la tua faccia cambiare…”

Il movimento finale di “Supper’s Ready” è marziale e scandito a passo di marcia, segue una parte intermedia dura, tirata, scura e perfino violenta, il tutto si conclude con un assolo di Hackett stellare che lascia tutti senza fiato. E’ un sogno che non finisce ma svanisce e ritorna in un altro e poi in un altro ancora. Alla fine apriamo gli occhi e ci ritroviamo esattamente dove siamo sempre stati, non abbiamo mosso un passo ma abbiamo viaggiato ugualmente nel tempo e nello spazio.

11) “ The Cinema Show”: “Una volta ero un uomo, m’infuriavo come il mare. Una volta ero una donna, mi concedevo come la terra, ma in effetti c’è più terra che mare”. Dall’album “Selling Englan by the Pound” del 1973 è apparentemente il racconto dei reciproci pensieri di due innamorati che hanno appuntamento al cinema, ma nella realtà la canzone cita anche il mito di Tiresia che provò la condizione di entrambi i generi nel proprio corpo.

La sfera stroboscopica sul palcoscenico sparava una miriade di piccole luci nell’aria calda della sera come un turbine luminoso mentre Rob Towsened suonava il pennywhistle, (pemperino in italiano) il tipico flauto dritto della musica folk celtica che regalava un’atmosfera sognante e sospesa tra le dimensioni, in questo caso, del maschile e del femminile.

12) “Dance on a Volcano”: “La musica sta suonando, le note sono giuste, sposta per primo il tuo piede sinistro e muoviti alla luce…faresti bene a farlo come si deve, che la danza abbia inizio”. Anche questo brano, che è stato il lungo bis finale in forma di suite dell’esibizione, parla di una mutazione, di una trasformazione fisica e spirituale legata come in molte tradizioni iniziatiche all’ascesa di una montagna che in questo caso è un vulcano la cui lava è fatta di una luce talmente intensa che non è difficile perdersi in essa. Per questo, non appena raggiunto l’orlo dell’eruzione sulla cima è necessario imparare a “danzare” nel modo giusto.

Hackett ha voluto unire a questo brano finale il drum solo, potente e tutto a doppio pedale, niente di inaudito ma fa sempre molto rock’n’roll, e poi il robusto classico strumentale “Los Endos” con il quale conclude sempre i suoi concerti, in scena di nuovo anche Amanda Lehmann.

Il Boeing 747 del comandante Steve Hackett con il suo equipaggio ha compiuto ancora una volta una perfetta trasvolata oceanica ed un altrettanto spettacolare atterraggio, ai passeggeri del Castello di Udine non è restato che esplodere in un liberatorio, riconoscente, lunghissimo applauso.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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