Si è aperta nella trecentesca chiesa di San Francesco a Udine con una lezione spettacolo dedicata a Dante la 17° edizione della manifestazione vicino/lontano.

Mentre a poco meno di duecento metri lineari dalla sede del festival il comune di Udine che patrocina il festival pensa all’ennesimo “giro di vite” nei confronti degli immigrati in quella che definisce la suburra di Borgo stazione, sul palcoscenico del festival si inaugura una pregevolissima edizione con sacrosanti approfondimenti geopolitici.

Guarda lontano la pubblicazione dei Diari dal carcere di Sepideh Gholian, attivista incarcerata in Iran, encomiabile l’idea di aderire alla campagna “Siamo tutti Zaky” dell’università di Bologna a sostegno dello sfortunato studente prigioniero in Egitto, doveroso il sostegno alla causa del povero Giulio Regeni; uno sguardo più distratto e miope è stato dedicato questa volta alle immediate vicinanze e alla contiguità con realtà quotidiane e che sembrano del tutto invisibili e inattingibili.

Sotto la navata della chiesa di San Francesco, dopo le rituali parole di ringraziamento ai partner del festival e ai sostenitori in solido, è stato subito il momento di Angelo Floramo e della sua dotta e inedita esplorazione della distanza/vicinanza che ci divide/unisce al Dolce padre Dante Alighieri.

Non poteva esserci luogo migliore che sotto gli affreschi trecenteschi di San Francesco e del Beato Odorico da Pordenone per celebrare il settimo centenario della morte del Sommo Poeta la cui poesia non è forse mai stata così viva e necessaria come oggi.

Nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy nel racconto Catene formulò l’ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata, attraverso sei elementi concatenati tra loro a qualunque altra persona o cosa.

E’ questo che ha voluto fare Floramo stabilendo un percorso di sei elementi che ci avvicinano alla poetica e al mondo di Dante e che allo stesso tempo ci dimostrano quanto ne siamo distanti. Per ribadire i concetti si è fatto aiutare dal prezioso fisarmonicista Paolo Forte, più che un accompagnatore un vero e proprio interprete di poesia in musica.

La fisarmonica è uno strumento, in fondo, davvero dantesco se lo avviciniamo alla dolce armonia d’organo che troviamo nel XVII del Paradiso. Non a caso lo strumento con il suo mantice viene anche definito organetto.

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento…inizia con il celeberrimo sonetto giovanile di Dante l’incanto della personale lectura dantis di Floramo. Il poeta è poco più di un ragazzo e farfuglia di amore e di sentimento con i coetanei che, in realtà, ne sanno quasi meno di lui. Il loro è un vagheggiamento, un amore “infante” che ancora deve educarsi all’altezza. E’ proprio questo tipo d’amore impubere di un’adolescenza spirituale, il primo grado di separazione con il grande poeta. Per lui e anche per noi è “Energheia” che innerva tutto il cosmo, è una vertigine incontrollabile, è una febbre improvvisa che ci colpisce.

Come i provenzali, Dante risolve la Questio affidando il suo sentimento letteralmente ad una Ballata che ha il compito di ritrovare amore e con lui presentarsi davanti alla donna che il poeta ama e destare la sua pietà e compassione.

Floramo fa un accenno a Forte e subito il suono della fisarmonica sale verso la navata dolce e pensoso, sospiroso vicino e lontano nello stesso momento. Quel languore amoroso così terreno, così pieno di natura, lo sappiamo bene, contiene in se qualcosa di tragico e irrimediabile ed è quell’indefinibile dolore che ci traghetta verso il secondo grado di separazione con l’Alighieri che non può essere che la Morte.

Come dicevano i medievali, parafrasando Seneca, è necessario farsi trovar vivi dalla morte che viene. La nera Signora che porta “corona” ne trova invece tanti che continuano ad alimentare un corpo il cui spirito è deceduto già da molto tempo. Tra le Rime della Vita Nova, Floramo sceglie quelle destinate alla morte della giovanetta che aveva visto spesso in compagnia della sua Beatrice anch’ella ormai scomparsa: Morte villana, di pietà nemica, di dolor madre antica, giudicio incontastabile gravoso. Per poi declamare Oh vana gloria delle umane posse! com’poco verde in su la cima dura, se non è giunta da l’etadi grosse (XI Purg). Alla morte non si sfugge ma non si sfugge nemmeno all’istanza prima di tutto etica del dovere di essere vivi e liberi.

La fisarmonica, a questo punto, regala al pubblico emozioni stranianti e di forte tensione drammatica anche grazie una serie di effetti di amplificazione che ne rendono i suoni sinistri, impalpabili e immateriali.

E’ proprio il suono l’altro gradino che dobbiamo salire/scendere per misurare con i nostri orecchi la distanza da quel poeta che, non dobbiamo dimenticare, apparteneva ad un altro evo e che quindi non sarà mai assimilabile completamente alla nostra contemporaneità, nemmeno quella futura. I grandi poeti però guardano sempre avanti e non è escluso che il suo lungimirante sguardo non comprenda anche noi, nell’orizzonte degli eventi; per ora, sembra che ci aspetti più avanti, chissà se riusciremo mai a raggiungerlo.

E’ il suono della parola a creare i paesaggi in un riverbero d’assoluto. Nella tradizione filosofica tomistica è il nome che crea le sostanze. Come diceva Isidoro di Siviglia nelle sue Etymologiae, la voce è come un battito d’aria che entra nel labirinto del nostro orecchio per fecondare le idee. Per fare comprendere l’importanza del suono come Logos spermaticon, ha declamato un pastiche poetico costruito con i versi e le parole più sonore e con le onomatopee della Divina Commedia, a partire dai suoni chiocci e gravi dell’Inferno fino alle contemplative preghiere dell’Empireo; dalle unghiate merdose e dai sozzi rumori del cul fatto trombetta fino al Cantus firmus polifonico degli Spiriti Beati.

La voce attoriale di Floramo si fa alta, bassa, grave, acuta, argentina, squillante, cupa, grave, sorda, chiara, limpida, gutturale, nasale, sorda solo per far capire a chi lo ascolta con gli “orecchi circoncisi” quanta forza ci mettesse il Poeta per parare direttamente al nostro cuore. E’ uno dei momenti più intensi della serata con il pubblico letteralmente ammaliato dall’interpretazione del fine dicitore.

La fisarmonica risponde dando voce a tutte le proprie possibilità con battiti, stridii, improbabili rumori, brontolii, colpi fino ad un ultima nota limpida, percussiva e penetrante che fa “sognare forte tutti fino a far venire sangue alle orecchie”.

Come finalmente le parti vennero al sangue così si è parlato della politica per Dante scoprendo che viviamo in un mondo completamente diverso dal suo, dove non comanda più il maledetto fiore e non esiste più l’indolenza, l’indifferenza, la viltà verso le proprie responsabilità di fronte alla vita. Non esistono più “quelli per cui tutto va bene purché non mi dia fastidio” come diceva un altro grande dantista, Primo Levi. L’ignavia non è più un peccato del nostro tempo, non esistono più anime tristi che vivono sanza ‘nfamia e sanza lodo.

Le lamelle della fisarmonica stridono e cigolano sbuffando per la larga forza del mantice. E’ un respiro concitato che ci dice che non è vera una parola, anche noi siamo condannati alle terribili eterne punture di mosconi e vespe che ci righeranno il volto di sangue che si mischierà alle nostre lacrime di pusillanimi per essere ricolto, ai nostri piedi, da fastidiosi vermi.

E’ un respirare, concitato, affannoso e sordo a volte ma profondo e giù, fino in fondo all’ultimo alveolo con tutta la fame d’aria e di giustizia che ci opprime.

Il penultimo grado di separazione, a conferma di tutto ciò, è l’Erranza, condizione simbolica e materiale di milioni di persone nel mondo allora e oggi. Dante sapeva bene che cos’era l’esilio, la “profuganza”; sapeva bene com’era salato e duro l’altrui pane; conosceva la disperazione di chi perde ogni cosa compresa la propria patria ed è costretto a vagare bussando d’uscio in uscio confidando nella compassione altrui. Siamo noi che forse abbiamo perso la capacità di vedere quella sofferenza negli occhi dei nostri fratelli che miseri e logori si aggirano per le “nostre” strade, lavorano come schiavi nelle “nostre” vigne, lavano i piatti nelle “nostre” cucine e vendono i propri corpi sui “nostri” marciapiedi. Abbiamo dimenticato soprattutto che il mondo non è nostro, non ci ricordiamo più che non saremo mai liberi fino a che anche uno solo dei nostri fratelli sarà in catene. La Divina Commedia è stata scritta esattamente per liberarci dalle catene che ci impediscono di amare davvero i nostri fratelli e di essere liberi tutti in insieme.

Floramo cita Gino Strada che qualcuno, anche tra il pubblico della chiesa di San Francesco, ha definito “un medico dalle idee confuse” quando invita a pensare a quanti Leonardo e Michelangelo annegano in mare ogni giorno a causa della nostra ignavia.

Dante incontra Casella e gli altri penitenti sulla spiaggia del Purgatorio e cantano insieme, sono profughi in attesa di una speranza che li salvi e cantano d’Amore e d’amicizia (Amor che nella mente mi ragiona); loro sono ancora pienamente esseri umani, e noi che ce ne stiamo a guardare mentre gli abissi del mare si chiudono sopra di loro, cosa siamo?

Un drammatico tango di Paolo Forte suona come una strascicata marcia funebre e una condanna.

Tennyson sosteneva che dio è talmente grande che sa nascondersi nella madre perla di una conchiglia. L’ultimo grado di separazione è di nuovo l’Amore, questa volta con la maiuscola.

Mentre la fisarmonica suona un’alba con il sole che sorge: O somma luce che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la mia lingua tanto possente. Ma nemmeno la lingua di Dante è bastata ad esprimere quello che vide ficcando lo viso nella luce etterna e tanto meno la nostra.

Dante e Floramo ci aiutano a scorgere l’assoluta ineffabilità dell’Amore che move il sole e le altre stelle ma spetta al nostro cuore sanguinare e coglierne l’essenza che sta in quello che vediamo riflesso negli occhi dei nostri fratelli che soffrono.

Un lunghissimo applauso e una altrettanto interminabile ovazione fanno capire che qualcuno tra il pubblico sembra averlo capito; speriamolo davvero, altrimenti le nostre lacrime e il nostro sangue nutriranno in eterno i fastidiosi vermi della nostra ignavia.

© Flaviano Bosco per instArt