Nel calendario gregoriano ancora in uso nella chiesa ortodossa l’11 settembre si celebra con digiuno stretto la giornata della decapitazione di San Giovanni Battista, il precursore.

Per gli Etiopi è invece il Capodanno (Kudus Yoannes) una giornata durante la quale le donne possono esprimere la loro libertà e sottolineare la loro cruciale importanza nella società attraverso particolari danze e riti di origine arcaica.

Una data simbolicamente importante che in Europa segna il degradare dell’estate e l’insinuarsi dei dubbi esistenziali e della tenebra al primo abbassarsi delle temperature e al dilagare dell’oscurità.

E’ proprio sul calare di quel giorno che, al motto di “Pochi ma buoni e Mai molà”, un gruppo di appassionati si è incontrato per ascoltare il concerto del Maestro Patrizio Fariselli in un luogo simbolo di Venzone, lasciato volutamente come lo ha diroccato il terremoto del 1976 a futura memoria, in un paese che, al contrario, è stato caparbiamente ricostruito letteralmente pietra su pietra.

Una chiesa in rovina genera immediatamente nel nostro immaginario tutta una serie di sentimenti contrastanti e perfino indefinibili, soprattutto quegli antichi luoghi di culto scoperchiati che ormai hanno come navata centrale solamente la vastità cangiante del cielo sostenuta da colonne spezzate. Non c’è che dire un luogo davvero suggestivo e simbolico per un concerto di pianoforte solo soprattutto se la chiesa è quella di San Giovanni Battista dell’antico convento dei frati agostiniani addossato all’antica porta della città murata di Venzone.

Fin dal XVI sec. una leggenda popolare racconta della predica dal pulpito del giovane Martin Lutero ospitato dai frati del suo stesso ordine e di ritorno dal suo famoso pellegrinaggio a Roma nel febbraio del 1511.

In quei giorni la Patria del Friuli era scossa dai tumulti che sfociarono nella cosiddetta “Crudel Zoiba Grassa”, la più grande sommossa popolare del Rinascimento europeo, quando il popolo friulano (sobillato anche da interessi veneziani) anche a Venzone, si ribellò contro l’antica nobiltà e il clero facendone scempio, saccheggiando i palazzi e portando nelle oscene sfilate del carnevale le teste dei ricchi e dei preti sulle picche.

Nell’animo del canonico di Wittenberg forse già allora si agitavano gli spiriti della Riforma; dopo aver visto con i propri occhi la corruzione della città eterna piagata dal malaffare e dal meretricio, di certo covava una voglia di contestare e di riportare al centro del discorso religioso l’autentica, radicale parola evangelica cui attingere senza intercessioni in spirito d’umiltà e fratellanza.

Con un’azzardata iperbole, qualcuno sostiene che il Protestantesimo abbia qualche radice nell’atteggiamento di sospetto verso la chiesa di Roma del Patriarcato di Aquileia che già tra VI e il VII sec. aveva dato vita allo scisma dei Tre Capitoli e che ha continuato a persistere anche nei secoli successivi fino ad oggi. Lutero ne avrebbe intercettato lo spirito.

Più facile che abbia visto nella Jacquerie del popolo friulano un esempio e una prospettiva immediata anche se 15 anni dopo quando toccò a lui, scrisse “Devono essere fatti a pezzi, strangolati, infilzati, in segreto o pubblicamente, chi lo può, come si deve ammazzare (a bastonate) un cane randagio” (Lutero, Contro la masnada assassina e rapinatrice dei contadini).

Anche per questo, considerare Martin Lutero un capopopolo rivoluzionario antiborghese è una leggerezza e lo compresero bene, a proprie spese, Thomas Müntzer e i suoi seguaci.

Le cooperative Farfalle nella testa di Bordano e Slou di Muzzana del Turgnano, in collaborazione con la ProVenzone, sotto l’egida del Ministero della Cultura ed il patrocinio del comune, hanno deciso di intraprendere, a partire dai ruderi della chiesa di Venzone, un percorso in più tappe “Nei luoghi di Martin Lutero”, un’esplorazione tra luoghi, memorie, genti del territorio friulano che riscopre le storie più dimenticate e s’interroga sulla Storia spesso ancora da scrivere. Il sentiero che sarà seguito è quello tracciato da due dei più importanti e scomodi intellettuali friulani del nostro tempo, entrambi ormai scomparsi ma ancora ben vivi nella memoria di tanti e attraverso le loro opere.

Don Dino Pezzetta e Don Gilberto Pressacco erano due “pretacci” friulani dalle scarpe grosse e dal cervello finissimo, entrambi impegnati in profondi studi etnomusicologici e storico-antropologici che hanno scavato nell’antichissima tradizione del cristianesimo aquileiese portando alla luce caratteristiche singolari e del tutto uniche di una cultura estremamente ramificata che costituisce le fondamenta religiose, sociali e culturali non solo degli abitanti della Piccola Patria del Friuli ma che innervano le radici stesse dell’Europa.

L’inizio del cammino è stato simbolicamente e non a caso il concerto di un grandissimo esploratore della musica contemporanea: il pianista Patrizio Fariselli, grande amico del Friuli e dalla carriera artistica “luterana”.

Non è nemmeno il caso di ricordare la grande importanza per la cultura italiana del gruppo Area (International Popular Group) che fondò e che è stato ed è un esempio di militanza e di coerenza ideologica ed estetica davvero notevole e pressoché unica nel panorama, a volte desolante, della musica italiana.

Il rigore e l’austerità d’allora, che impedì alla band di svendersi alle multinazionali dell’intrattenimento, non è cambiato. I capelli bianchi non mancano ma il vigore e l’energia sono gli stessi di tanti anni fa.

Al discorso fatto più sopra s’attaglia un brano strumentale dell’ultimo album della formazione classica del gruppo, “1978 gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!” che ricorda i carnevali di “Festa, farina e forca” durante i quali l’esplosione di rabbia popolare finiva per ritorcersi contro se stessa, in un paradossale, crudele gioco di Potere.

Fariselli negli ultimi decenni ha portato avanti la propria carriera solistica di pianista sperimentatore di nuovi orizzonti sonori e nel contempo ha favorito e architettato le varie reunion del gruppo fino alla forma attuale di “progetto aperto”. Area Open Project è tutt’altro che una band nostalgica che suona per rimpiangere i bei tempi andati, certo la musica d’annata non manca, ma è sempre riarrangiata e reinterpretata guardando al futuro.

A Venzone la progettualità è sempre stata di casa, non faceva difetto al giovane Lutero che tra le mura di quella chiesa cominciò la sua rivoluzione religiosa e nemmeno agli abitanti antichi e nuovi di quel meraviglioso borgo che nei secoli hanno sempre saputo affrontare con coraggio e ostinazione tutte le avversità.

La ricostruzione dell’abitato, pietra su pietra dopo la devastazione del sisma del 1976, è un potente simbolo di rinascita e di volontà di rialzarsi nonostante tutto. Lo ha raccontato anche il “contastorie” friulano Federico Orso che ha introdotto l’esibizione del pianista accennando alla parte storica e alle motivazioni che sostengono il progetto su Lutero illustrato più sopra, raccontando da par suo una filastrocca che ha raccolto nel corso degli anni nelle sue ricerche antropologiche riguardanti l’oralità nel nostro territorio.

Orso ha evitato scientemente di affrontare il côté ribellistico e violentemente eretico del popolo friulano che superficialmente sembra obbediente e discreto ma che sa mordere e sbranare quando è il momento giusto, fedele solo a se stesso e che sotto la scorza della propria indifferente sottomissione conserva ben vivo il proprio animo furbo di bracconiere, contrabbandiere e partigiano.

Nel particolare il “contastorie” ha declamato una filastrocca trasmessagli da Anita Pozzar di Aquileia (nata nel 1900) che l’aveva sentita dalla nonna che a propria volta l’aveva sentita dalla sua, e così avanti fino alla notte dei tempi.

E’ la tipica storia circolare del folklore contadino in questo caso tramandata nella parlata “sonziaca”, il friulano delle rive dell’Isonzo. Un contadino perde il cappello, chi lo ha ritrovato per ridarglielo vuole pane, per procurarselo deve dare latte che viene dalla mucca che vuole fieno, che si taglia nei campi che necessitano di concime e via di seguito in un racconto in cui si dimostra che tutto nella vita dei campi è collegato strettamente e che ogni elemento è in correlazione con l’altro in una sinergia che rende possibile l’esistenza.

Alla fine grazie alla propria pazienza e alla collaborazione di tutti il contadino riottiene il proprio cappello, un’impresa che da solo non avrebbe mai potuto portare a termine. La morale è molto semplice, ma la filastrocca ha la forza delle cose minime ed elementari senza le quali quelle più grandi non ci sarebbero; è una piccola pietra vicina alle altre ugualmente minime che costruiscono un enorme edificio.

Sul pianoforte Steinway & Sons posizionato nei pressi dell’antico portale della chiesa in rovina, Fariselli ha intonato brani del repertorio degli Area e alcuni di quello solistico, anche di recentissima composizione e praticamente di prima esecuzione pubblica.

Il primo è stata una magica fusione tra “In a Silent Way” di Joe Zawinul e “Il bandito del deserto” degli Area dedicati rispettivamente al batterista friulano U.T. Gandhi, grande amico e sodale e alla caparbietà degli organizzatori della manifestazione.

Inconfondibile e meravigliosa ha riempito il cielo vuoto della chiesa di San Giovanni, La “Cometa rossa”.

Su ruderi del rosone della chiesa proprio sopra al portale e al pianoforte, il vento ha portato un seme che ha avuto la sfrontatezza di germinare, sublimandosi in un piccolo albero (forse un pioppo) che è diventato quasi un simbolo di resistenza, un autentico albero della vita le cui foglie stormivano nell’antico rosone, traguardato dalla cornice contro il cielo della sera dove sembrava quasi di intravvedere l’astro sanguigno che può “cucire la bocca dei profeti, aprire il nostro cuore e aiutarci a trovare la libertà”.

Tra un brano e l’altro il pianista ha accennato ai tanti ricordi che lo legano al Friuli dove è stato sempre accolto con grande entusiasmo e dove, come è sempre il caso di ricordare, gli Area negli anni ‘70 tennero fantastici, incandescenti concerti che rimangono nella memoria di molti e nelle cronache locali come eventi epocali.

Sul rosone, intanto che le dita di Fariselli disegnavano sulla tastiera le proprie traiettorie, a far compagnia all’alberello di cui dicevamo un unico testardo filo d’erba, che sembrava un dito ad indicare la luna, volendo farsi guardare.

I suoni e le armonizzazioni del pianista sono sempre perfettamente riconoscibili, ricchi e pieni senza alcuna irruenza e ridondanza come una morbida cascata di note capace di fondersi e di mimetizzarsi con il paesaggio sonoro circostante tanto che quando una sirena d’antifurto è esplosa sull’explicit di un brano, mentre le campane battevano le ore, l’effetto sembrava sempre voluto.

Mentre l’aria fresca, incanalata dalla valle del Tagliamento, portava la sera e spazzava via le ultime luci, risuonavano le note di “L’Elefante bianco”, “Luglio, agosto, settembre nero”, estratti ed accenni dal songbook pop (Blackbird, On my own, Hey Joe, ecc.), tra brividi di piacere e la consapevolezza del definitivo tramonto di un’estate torrida, gli appassionati spettatori intervenuti prima dei saluti finali vivevano ancora una volta l’ebrezza di “Gioia e Rivoluzione” con un pizzico di malinconia mentre suonavano ancora le campane di Venzone, città murata di pietre e di vento che non dimentica che ciò che la fonda e la fa autentico bastione sono lo spirito di comunità, la condivisione e la propensione al multilinguismo e alla multiculturalità.

Il mondo che Pier Paolo Pasolini amava e rimpiangeva in Friuli non è finito sotto le rovine del sisma o dell’ancora più distruttivo terremoto mediatico-consumistico, è stato di certo lesionato gravemente, ma resiste e rinasce come un alberello e un filo d’erba tra le pietre di una vecchia chiesa per nutrirsi anche delle note di un pianoforte in un paese che non ha perso le sue primule e i suoi temporali.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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