Negli splendidi spazi del ridotto del teatro Verdi dedicato ad uno dei grandi geni della musica del nostro tempo, il triestino Victor De Sabata, tutto colonne con capitelli classici, stucchi e grottesche, in pieno stile neoclassico, è andata in scena una delle opere che da alcuni anni è diventata un vero e proprio cavallo di battaglia del teatro: La serva padrona di Paisiello in un gustoso adattamento a cura del Maestro Oscar Cecchi.
Già dal gioioso attacco si viene proiettati in una narrazione divertente e disimpegnata. Mentre l’orchestra eseguiva i primi accordi, colpo di scena! Uno scioperato giovinastro irrompeva sulla scena dal fondo della sala, alle spalle degli spettatori ignari, con il suo monopattino, interrompendo la breve ouverture, berciando che, dopo ventidue repliche consecutive, la scena era ancora da allestire e che se non ci fosse lui niente funzionerebbe. Dopo un breve divertente battibecco con il simpatico e capace direttore ucraino Serhii Nesteruk, si è ricominciato.
Era Vespone servo tuttofare interpretato dal versatile e giullaresco Giacomo Segulia che ha contribuito a rendere dinamico e ancora più divertente l’intreccio.
Una gag molto semplice ed efficace quanto inattesa che è stata di grande effetto e che, fin da subito, ha contribuito a sgretolare la “quarta parete” preparando gli spettatori ad un’ora di gran divertimento. Qualche ingenerosa critica ha ritenuto che il nuovo adattamento fosse troppo elementare e quasi puerile, cercheremo di dimostrare il contrario.
Sul palco la vicenda comincia subito a prendere corpo sostenuta dalla musica: Serpina, incarnata (è proprio il caso di dirlo) dalla vertiginosa soprano Olga Dyadiv, è la prosperosa cameriera, furba e decisa. La vediamo stendere i panni felice e “cicciosa” mentre il signorino Uberto (il basso Francesco Auriemma), ricco, colto e timidone, dorme il sonno del giusto nel suo letto. Tutto questo mentre Vespone il giovinastro, diventato muto per convenienza, continua ad allestire la scena.
Infine, Uberto si sveglia e canta l’aria celeberrima: “Aspettare e non venire, stare a letto e non dormire, ben servire e non gradire, son tre cose da morire”. Aspetta che la serva gli porti il cioccolato da sorbirsi in poltrona, roba da gran signori: “Questa è per me disgrazia, son tre ore che aspetto, e la mia serva portarmi il cioccolatte non fa grazia”.
Tra il pubblico un bambino di forse cinque anni accanto alla mamma, guarda divertito con gli occhi spalancati, completamente rapito dalla scena.
Serpina la cameriera è molto civettuola e non sopporta d’essere sottomessa all’indolente arroganza del suo padrone Uberto del quale è segretamente innamorata: “Adunque perch’io son serva, ho da esser sopraffatta. Ho da essere maltrattata? No signore, voglio essere rispettata, voglio esser riverita come fossi padrona, arcipadrona, padronissima”.
Una semplice gran trovata scenica è stata quella di mettere dalle due parti opposte dello spazio teatrale due lavagne sulle quali i vari personaggi scrivono e disegnano con il gesso colorato per sottolineare al meglio alcuni passaggi della vicenda, mentre la cameriera canta la sua aria sospirosa con voce cristallina e una gran verve interpretativa e perfetta presenza scenica.
Un’altra idea è stata quella di annullare ogni distanza con il pubblico facendo andare i cantanti verso gli spettatori per coinvolgerli nell’azione. Ad un certo punto, Uberto cerca moglie tra le signore della platea con grande scorno di Serpina, anche se nessuna lo vuole.
Prende vita così ancora una volta il delizioso “duetto buffo e antico” tra i due. Lei si propone, lui non la vuole ma ci sarà, come prevedibile, un rovesciamento. Serpina: Oh! Voi far e dir potrete che null’altra che me sposar dovrete”. Uberto: “Vattene figlia mia!” Serpina: “Lo conosco ha quegli occhietti furbi, ladri, malignetti, che, sebben voi dite no, pur m’accennano di sì”.
Molto efficace anche la presenza e l’intervento del coro che a volte si fonde con il pubblico, in un certo senso, diventandone la voce e garantendo maggiore prospettiva all’intero intreccio.
Una scolaresca di bimbi, profughi dall’Ucraina con le maestre si gode la scena, riuscendo forse a dimenticare per un attimo dolori lontani e molto prossimi.
Intanto, l’incantevole, burrosa Serpina di Olga Dyadiv viene verso la platea, architettando tra se e se il modo di far ingelosire e cadere tra le sue braccia il bel Uberto, riottoso ma in fondo ingenuo.
Infine, in combutta con Vespone dice di essersi trovata un focoso pretendente sposo, il focoso ufficiale di marina, Capitan tempesta. Per Uberto è un colpo al cuore e fin da subito cade nella trappola ordita dalla scaltra servetta e comincia a pentirsi (Si comincia ad intenerir) del suo “gran rifiuto”.
Ma c’è anche tanta tristezza virata in burla fino al ritorno del coro alle spalle del pubblico
Uberto canta pensoso “Le voglio bene oppure l’amo?”. Serpina più decisa ma comunque dubbiosa: “Sono innamorata lui mi sposerà?”
In breve si va verso un concitato finale con un Uberto sempre più confuso che canta: “Sono imbrogliato già…e basta lacrime”. E poi si butta platealmente sul divano.
In poche parole gli viene, infine, presentato il famoso capitan Tempesta, che non è altri che Vespone travestito da “pirata dei Caraibi”. Serpina, per l’occasione, si è tutta imparruccata di rosa con vestito a sbuffi molto pop, jeans e sneakers alla maniera della Maria Antonietta di Sofia Coppola.
Com’era prevedibile, dopo alcune schermaglie, Serpina riesce nel suo scopo ed estorce a Uberto la promessa di matrimonio che viene effettivamente celebrato.
Ultimo colpo di scena: grazie ad un provvidenziale testamento, si scopre che Serpina non è per nulla una povera orfana abbandonata ma la “superdotata” nobile unica figlia di un ricchissimo conte del quale eredita tutte le corpose sostanze.
E vissero tutti felici e contenti nell’esplosivo finale che li vede partire su di uno strano mezzo a ruote costruito con gli oggetti di scena; e poi ancora tutti sul palco, coro e cantanti, per gli applausi finali e il piccolo bambino insieme a tutto il pubblico applaude entusiasta e sbalordito da tanto divertimento.
Dopo che gli spettatori avevano già guadagnato l’uscita si sono visti i bambini ucraini con le loro maestre visibilmente contenti farsi un selfie con il generoso conterraneo direttore.
Paisiello compose il suo dramma comico alla corte di Caterina II, la zarina di tutte le Russie a San Pietroburgo. Un favoloso contratto lo aveva attirato e legato a quella corte dopo alcuni attriti con quella dei Borbone a Napoli che l’avevano fatto incarcerare per aver rifiutato di sposare una vedova che gli era stata raccomandata da ambienti vicini alla corona. Costretto a contrarre matrimonio dietro le sbarre, liberato che fu, con “l’amatissima” moglie al seguito, decise di preferire la tormenta del Baltico alla velenosa dolcezza dell’aria del golfo di Napoli. E’ legittimo arguire che nel matrimonio estorto con l’inganno della Serva padrona ci sia qualche richiamo autobiografico.
La zarina adorava la sua musica anche perché Paisiello era davvero molto scaltro ad adattare i propri lavori al gusto della corte russa: drammi brevi, storie divertenti con intrecci non troppo complicati, pochi personaggi in scena, argomento leggero e altrettanto agile orchestrazione.
Riciclare, riscrivere, riadattare, tagliare, cucire le proprie e altrui opere musicali non è per nulla una novità nemmeno nel mondo della musica classica dalle cantate di Bach alle arie di Rossini fino al minimalismo di Reich giusto per coprire un arco dei tre secoli che ci separano dalla musica cosiddetta antica che è anch’essa adattamento a canoni e a modelli dati.
Paisiello non fu certo da meno; per quanto riguarda La serva padrona si avvalse del medesimo libretto che era servito a Pergolesi per la sua opera omonima e lo musicò secondo il gusto per il buffo della corte dei Romanof. Senza dimenticare che quella andata in scena al ridotto del Verdi è a propria volta una rielaborazione.
Alla fine degli anni ‘20 del secolo scorso i Balletti russi di Sergej P. Djagilev commissionarono a Otorino Respighi una nuova orchestrazione dell’opera di Paisiello con una richiesta di radicale intervento sui recitativi da mettere in musica; l’opera così trasformata purtroppo non vide mai la luce del palcoscenico e solo qualche decennio fa la partitura fu fortunosamente riscoperta.
Come dicevamo più sopra, qualche critica malevola sostiene che l’adattamento di Cecchi per il ridotto del Verdi, che segue i due precedenti per la sala grande, sia stato concepito a misura di bambino, reso “cartoonesco” e adatto a neofiti dell’opera.
Prima di tutto, anche se così fosse, non sarebbe per nulla un difetto ma qualcosa di cui vantarsi. Il grande merito del teatro Verdi è di saper attrarre e appassionare tanti giovani e giovanissimi che frequentano la stagione lirica non solo per obbligo scolastico.
Secondariamente certe allusioni fanno tornare alla memoria la famosa “Querelle des Buffons” che imperversò negli ambienti culturali francesi e in particolare parigini nei primi decenni del XVIII sec.
Buffoni erano chiamate con disprezzo tutte le compagnie di teatranti italiani della commedia dell’arte poi per estensione tutti gli artisti italiani compresi i musicisti. Una parte delle élite francesi ritenevano l’opera di stile italiano troppo leggera e vaga, gli preferivano la più compassata, realista e solenne tradizione del teatro lirico francese.
Nel 1752 a Parigi vennero allestite contemporaneamente La serva padrona di Pergolesi e Acis e Galatée di Lully e si scatenò la bufera. Per la prima parteggiarono gli illuministi, gli enciclopedisti che vi vedevano un’opera fresca, attuale e leggera adatta a fustigare i vizi privati e le pubbliche virtù dei benpensanti d’Ancien Regime.
Con Lully, autore alla corte del re Sole Luigi XIV di opere solenni, sontuose e complesse di carattere mitologico, si schierarono i fautori della monarchia assoluta, coloro che apprezzavano sopra le altre, la Tragédie lyrique di carattere aristocratico, raffinato, convenzionale espressione della casa regnante e che definivano i gorgheggi italiani: “musica da castrati”.
Per noi si tratta di composizioni entrambe meravigliose ma allora gli animi si scaldavano e scalmanavano per questioni come queste. Anche se i tempi della Rivoluzione dovevano ancora venire, qualcosa cominciava a muoversi facendo scricchiolare le istituzioni politiche e culturali più vetuste.
La questione imperversò per un paio d’anni mettendo a rumore ed esacerbando la cultura francese già irrequieta fino a quando s’impose addirittura un bando di Luigi XV che proibì ai Buffons qualunque forma di rappresentazione nei teatri francesi.
Criticare la messa in scena di un’opera buffa voluta e composta per divertire, perché risulta troppo accessibile e adatta anche ai più piccoli scolari è paradossale e davvero anacronistico.
La migliore risposta a certe illazioni è lo sguardo e il sorriso estasiati che si vedevano sul volto del piccolo bambino in braccio alla madre tra il pubblico del ridotto alla fine della rappresentazione. Lui è il futuro della musica e del teatro… allora non ci resta che dire: “Evviva i Buffons!”.

© Flaviano Bosco – instArt 2022

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