L’ultima giornata della XXXIII edizione del festival udinese ha voluto celebrare due grandi geni della musica contemporanea: Frank Zappa e Pat Metheny. Il primo ovviamente quasi per saggiarne la persistenza nella memoria dell’immaginario collettivo, il secondo per godere ancora una volta della sua presenza sul palcoscenico della città friulana che tante volte lo ha visto assoluto protagonista.
Accostare due personalità così diverse può sembrare bizzarro e azzardato ma, in realtà, come cercheremo di dimostrare nelle righe che seguono, anche in questo caso gli estremi si toccano.
Doctor Delta. Zappa, idrogeno e stupidità. Tributo a Frank Zappa tra parole e musica. Giorgio Casadei (narrazione, chitarre) Alice Miali (voce, chitarre)
Mentre il cielo si stava preparando al peggio, l’esibizione prendeva l’avvio a Sant’Osvaldo nel parco della Comunità Nove nel complesso dell’ex Ospedale psichiatrico di Udine. Il Friuli si è confermato, e non ce n’era bisogno, “paese di primule e temporali” come diceva il poeta; un autentico fortunale si è abbattuto sul parco costringendo gli artisti e il pubblico ad una rapida ritirata gambe in spalla per rifugiarsi nel chiuso di uno dei padiglioni della struttura.
Dopo una cinquantina di minuti, serviti a spostare impianto di amplificazione e strumenti, si è ripreso, con l’uragano che bussava alle finestre, ma con almeno un tetto sulla testa. Un grande ringraziamento a Mimmo Dragotti, il fonico del festival che insieme ai propri collaboratori ha risolto la situazione. Le pazzie riescono a volte e un ex struttura manicomiale è proprio il posto giusto per rendersene conto.
Giorgio Casadei insieme Alice Miali ha raccontato tra parole e musica alcuni aneddoti sulla carriera del genio di Baltimora scegliendo tra migliaia di situazioni di una vita artistica densissima e impossibile da sintetizzare tanto è vasta e ramificata.
L’innesco della narrazione spettacolo è una frase del 13° capitolo dell’autobiografia:
Alcuni scienziati affermano che l’idrogeno, poiché sembra essere ovunque, è la sostanza basilare dell’universo; non sono d’accordo. Io dico che c’è molta più stupidità che idrogeno, e che quella è la vera sostanza costitutiva dell’universo”.
Non è ottimismo contro pessimismo e nemmeno ferrea logica scientifica contro approssimazione, è una constatazione meno banale di quello che può sembrare.
Nel nostro tempo soffocato dalle politiche di marketing e dalle cosiddette multinazionali dell’informazione a dominare la scena politica e sociale a livello planetario sono indubbiamente l’ipocrisia, l’avidità e l’idiota castronaggine di chi non si rende conto che essere liberi non vuol dire poter scegliere tra un prodotto e l’altro in un grande supermercato.
Zappa con la sua arte questo concetto lo ha cantato e suonato fin dai tempi delle sue Mothers of Invention e di “Freak Out” (1966), l’album che allo stesso tempo condannava gli abusi di potere (Trouble Comin’Every Day, Who are the Brain Police) e si prendeva gioco della cultura degli Hippie considerati solo dei piccoli borghesi figli di papà, del tutto funzionali al sistema.
La stupidità non ha bisogno di alcun supporto o incentivo si auto-sostiene e finanzia. Nel 1971 in una sala del casinò di Montreaux sul lago di Ginevra mentre Zappa si stava esibendo con le sue Mothers of invention, uno spettatore più entusiasta degli altri esplose dalla platea un razzo di segnalazione. La vecchia struttura in legno del casinò alimentò un incendio che lo ridusse in cenere. Si sprigionò una densa nuvola di fumo che aleggiò a lungo sul lago. A contemplare il disastro anche i Deep Purple che si trovavano nella struttura per registrare un nuovo album. A Roger Glover, il bassista della band venne in mente una frase che in seguito diede vita ad un capolavoro dell’hard rock:
We all came to Montreux, on the lake Geneva shoreline, to make records with a mobile. WE didn’t have much time. Frank Zappa & the Mothers were at the best place around, but some stupid with a flare gun, burned the place to the ground… Smoke on the water, a fire in the sky.”

Giorgio Casadei dimostrando la propria grande competenza e passione per Zappa ha raccontato al pubblico del padiglione fatti e misfatti della carriera del grande musicista, inframezzando le piacevoli chiacchiere con brani dall’immenso repertorio del compositore sottolineando sia gli aspetti più ruvidi e aggressivi, le sonorità blues acide e psichedeliche, sia il lato forse meno conosciuto, dolce e riflessivo. In “Anyway the Wind Blows” Alice Miali canta con voce d’angelo e poi utilizza il kazoo che sdrammatizza il piglio quasi troppo cupo del brano.
Seguendo l’esempio del loro idolo anche loro non si prendono troppo sul serio, ma non bisogna credergli troppo. Zappa con il suo apparire anticonvenzionale e la sua musica spesso stralunata era in realtà una persona artisticamente molto determinata con riferimenti culturali altissimi (Varese, Webern, Schoenberg) che si è sempre considerato un compositore di musica contemporanea più che una rock star.
Non dobbiamo confondere la demenza con la demenzialità; la prima è la nostra condizione esistenziale più comune, tutti siamo inebetiti dai media e “salutiamo il signor padrone” senza nemmeno accorgerci d’essere degli schiavi; la seconda è un modo di mettersi in ridicolo con sagace ironia che spinge a riflettere sulla propria condizione.
Questa è solo una parte dell’immensa creatività di Zappa che con la sua arte ha voluto esplorare territori musicali mai battuti prima e ancora misconosciuti dal grande pubblico.
Casadei ha anche insistito molto sul caso più grosso di “stupidità” in cui incappò il musicista.
Nel 1985 l’artista pubblicò un album eccezionale: Frank Zappa meets the Mothers of Prevention che comprende l’altrettanto straordinario brano “Porn Wars”. La bizzarra incisione è il risultato dell’impegno politico e sociale del compositore contro la campagna censoria perbenista scatenata dal Parent Music Resort Service, un’associazione contro la pornografia e il turpiloquio nei media creata dalle mogli dei senatori americani ai fini di educare le giovani generazioni ai sani principi americani.
Zappa si fece beffe di questo rigurgito di bigottismo figlio della sciagurata amministrazione Reagan. Dalle registrazioni audio dei dibattimenti in aula e da varie dichiarazioni delle autorità ricavò delle sintesi musicali nelle quali la semplice chiacchierata unita alle musiche più complesse e perfino astruse si trasforma in un’opera d’arte unica. Ancora una volta Zappa aveva dimostrato che dalla più totale stupidità può scaturire la bellezza, basta essere un genio proprio come lui. L’adesivo “Parental advisory” che ancora oggi troviamo apposto su molti cd di musica anche solo un po’ fuori dagli schemi o irriverente, è ciò che resta di quello scandaloso tentativo censorio
Un ultimo aneddoto anche al di fuori dello spettacolo del duo è quello che ci permette di fare un confronto diretto tra Zappa e Metheny. Nei primi anni ’80 entrambi cominciarono ad utilizzare per le proprie composizioni il Synclavier, una sofisticata e costosissima tastiera sintetizzata in grado di sostituire del tutto i musicisti di una band. Zappa pubblicò un album di sue trascrizioni della musica di un suo omonimo compositore tardo barocco del ‘700 interamente “generato” dal Synclavier, con grande scandalo di critici e benpensanti a cui rispose utilizzando in più occasioni una frase di Edgar Varèse: “La musica per vivere ha bisogno di nuovi modi di espressione. Sogno strumenti che obbediscano al pensiero” e poi con la seguente “Definizione di giornalismo rock: gente che non sa scrivere, che fa interviste a persone che non sanno pensare, per poter scrivere articoli a persone che non sanno leggere”
Il suono stesso che distingue la chitarra di Metheny da decenni e quello dei suoi infiniti progetti è dovuto interamente all’utilizzo del diabolico strumento che genera letteralmente “musica delle macchine”, tanto per restare sul tema del festival.
Un’altra caratteristica che accomuna il genio dei due compositori è quella dell’estrema maniacalità professionale che è il risultato di una ricerca di perfezionismo che sembra portarli verso un narcisistico solipsismo. Estremamente esigenti con i propri musicisti gregari da non tollerare nemmeno il minimo errore nelle esecuzioni, sono un esempio di dedizione totale alla musica nella sua forma più pura.

Pat Metheny Side-Eye.
Chris Fishman (piano, tastiere) Joe Dyson (batteria) Pat Metheny (chitarre, orchestrion)

In una recente intervista il grande chitarrista di Baltimora ha dichiarato:
Non so molto di Frank Zappa. L’ho conosciuto un po’ ai tempi del Synclavier, ma non ho mai seguito molto la sua musica. Ma era davvero divertente nelle interviste”. (www.fingerpicking.net 4/11/21)
Per questo il nostro paragone potrebbe essere campato in aria, ma chi ha assistito al memorabile concerto di Metheny e del suo trio sul piazzale del castello di Udine potrà testimoniare dell’estrema versatilità, attenzione e creatività del chitarrista americano, qualità che ancora lo accomunano a Zappa anche se ormai è inutile continuare con il confronto, chi voleva capire ha già capito.
L’esibizione è iniziata con un ritardo di più di un’ora dovuto alla necessità da parte della lodevole organizzazione di Euritmica di ripristinare perfettamente la platea dopo il rovescio della prima serata. Senza la caparbietà e la fatica dello staff probabilmente il concerto non sarebbe stato nemmeno possibile.
Per il primo brano Metheny si è presentato sul palco con la sola compagnia della sua Picasso Guitar a 42 corde costruitagli nel 1984 dalla liutaia canadese Linda Manzer che è ancora oggi uno dei punti di riferimento per l’inesausta ricerca del chitarrista nell’ambito dell’evoluzione degli strumenti. E’ un’introduzione acustica, morbida e setosa, piena di un energia sottile ma allo stesso tempo vigorosa che è poi la cifra distintiva della musica di Metheny.
Prosegue in trio con gli ottimi Fishman e Dyson, giovanissimi ma non per questo intimoriti dal confronto con il monumento del jazz con cui condividono il palcoscenico. Il chitarrista, durante le oltre due ore filate di concerto, cerca di non sovrastarli mai anche se è evidente che il baricentro di tutti i nuovi arrangiamenti in scaletta è esclusivamente lui. Quest’ultimo progetto musicale che ha già visto la luce dell’incisione in un primo pregevole album live (Side Eye NYC V1.IV) vede Metheny rielaborare i grandi successi della sua carriera insieme ai migliori musicisti della nuova scena jazz.
In questo modo, il chitarrista del Missouri sembra voler restituire quello che gli è stato dato quando, da giovanissimo, grazie al proprio talento, ebbe la possibilità di misurarsi con autentici giganti della musica afroamericana, primo fra tutti il “dimenticato” trombettista Clark Terry che lo tenne a battesimo nel dicembre del 1970 in un concerto a Kirksville Missouri:
Sono molto orgoglioso di averlo visto praticamente esordire. Noi vecchi musicisti lo siamo sempre quando un talento emergente si presenta sulla scena jazz. Che dire di Pat? Potrei riempire pagine e pagine, raccontando quale fantastico musicista sia. Ma questo penso che ormai lo sappia tutto il mondo.” (L.Viva, 2021, pag.23)
Metheny non si è per nulla dimenticato della lezione del vecchio “Mumbles” (1920-2015) autentico pioniere del Be-bop, incredibilmente attivo fino a pochi anni fa. Faceva parte di quella generazione di grandi Maestri che ha “allevato” moltissimi ragazzi aprendo i nuovi orizzonti del jazz almeno a partire dall’immenso “Bitches Brew” e la successiva esibizione all’Isola di Wight davanti a 600.000 giovani in delirio.
Sono queste le radici di Metheny che ha avuto la possibilità, durante la sua carriera, di suonare con musicisti eccelsi esplorandone i generi e gli stili. Di certo fu il vibrafonista Gary Burton a dargli la possibilità di incidere il suo primo album con la prestigiosa ECM: “Bright Size Life” (1976) che, per la cronaca, vendette come prima stampa solo 800 copie.
E’ proprio con una rivisitazione in trio del brano che dava il nome a quella prima incisione che il concerto di Udine ha preso l’abbrivio, per snodarsi in una magnifica teoria di composizioni che ha condotto gli spettatori fino alla celeberrima “Phase Dance” dal primo album “bianco” del Pat Metheny Group (1978) pilastro fondamentale del jazz contemporaneo.
Naturalmente i due lunghi bis (Zenith blue e Are you going with me) hanno impreziosito ulteriormente un’esibizione che si può, senza alcuna esagerazione, definire memorabile.
A sbalordire gli spettatori più attenti anche il quarto elemento del trio, con una parafrasi “Fourth of a perfect trio”, una versione ridotta dell’immaginifico Orchestrion, parte fondamentale dell’estro creativo di Metheny.

Come racconta lui stesso, da bambino, nello scantinato della casa di suo nonno materno in Wisconsin, aveva scovato: “un vecchio pianoforte automatico che allora aveva più di cinquant’anni, con tanto di scatole piene di rulli con tutti i possibili generi musicali. Trascorrevo ore là sotto con i miei cugini, provando ogni singolo rullo e pigiando i pedali finché non eravamo completamente esausti”.
Ha conservato quella fascinazione d’infanzia fino a quando non decise di farsi costruire un enorme orchestra meccanica elettro-acustica che interagiva con le frequenze della sua chitarra. Nel 2009 incise l’incredibile album solo “Orchestrion” nel quale suona accompagnato dalla robotica “macchina da musica” cui seguì una mastodontica tournée mondiale.
Alcuni enormi tir servivano per trasportare tutta la complicatissima strumentazione fatta di decine e decine di strumenti acustici. Della tappa di Londra si disse: “Il colpo d’occhio è di grande impatto, il bellissimo teatro fa da giusta cornice a questa macchina che, vista dal vivo, fa un grande effetto. E’ tutta un intreccio di strumenti: piano, batteria, campane tubolari, chitarre, marimba, bottiglie, vibrafono, tastiere, tutte collegate tra loro”. (Viva, pag.422)
A Udine l’impatto era più modesto, qualcuno tra gli spettatori meno attenti probabilmente non se n’è nemmeno accorto estasiato dalla musica, pensando forse ad un effetto di scenografia. Sul fondo del palcoscenico, dietro ai musicisti, si vedeva una strana, grande cassa di plexiglass con all’interno una serie di percussioni (tamburelli, sonagliere, maracas, idiofoni vari, ecc.) che meccanicamente venivano colpite a tempo da singole bacchette, ai lati facevano bella mostra di se due enormi vibrafoni i cui tasti, quando erano colpiti automaticamente da qualche sorta di battenti, s’illuminavano; era così possibile individuare una precisa connessione tra gli accordi di Metheny sulla chitarra e la relativa consonanza delle varie percussioni.
Naturalmente, anche la resa sonora era straniante e al tempo stesso di grandissimo fascino. L’Orchestrion di Metheny, in tutte le sue varianti, è stato sognato da una miriade di musicisti fin dall’antichità ellenistica quando si costruirono i primi automi musicali. Nel XVIII sec. molti grandi compositori scrissero per Organo meccanico (Haydn, Bach, Salieri, Cherubini, Beethoven).
Mozart in una lettera alla moglie Constanze (03/10/1790) si lamentava delle piccole dimensioni dello strumento per cui doveva comporre desiderandone uno molto più grande e complesso: “…sì, se questa cosa fosse un grande orologio e sonasse come un organo, allora mi farebbe contento; ma così il meccanismo consiste in piccoli zufoli rumorosi, che suonano acuti a me troppo infantili.”
Quella macchina ora c’è e la suona un musicista-compositore le cui “luminose dimensioni vitali” e il nome possono essere associati senza tema di smentita a quelli dei più grandi di ogni tempo.
Metheny’s Bright Size Life now!

© Flaviano Bosco – instArt 2023