Tra i vari recuperi di materiale inedito dei grandi nomi della musica del ‘900, spicca la stampa degli Archives di Joni Mitchell. Le registrazioni d’archivio vengono presentate in vari cofanetti in vinile o cd, con booklet contenenti una lunga intervista alla signora Anderson da parte di Cameron Crowe, e incredibilmente in ordine cronologico su suggerimento dell’amico Neil Young (God bless him!). Sono già usciti negli anni scorsi i primi 3 volumi, mentre recentemente è – finalmente! – apparso il quarto.

Archives, vol. 1 – the early years 1963-1967 presenta i primi anni di gavetta: da piccoli spettacoli dove proponeva le “solite” cover (the house of the rising sun, kopper kettle, john hardy…), feste private, registrazioni casalinghe (in una del ’65 c’è la ormai conosciuta urge for going), e live ormai noti bootleg (come il famoso Live at the second fret del ’66 dove si sente già the circle game); poi demo e live del ’67 con provini e brani che finiranno nei primi due LP (Joni Mitchell del 1968 e Clouds del 1969) e qualcosa anche nel terzo, il favoloso Ladies of the Canyon del 1970. Qui siamo ancora in ambito folksinger, una ragazza che si appassiona delle canzoni di Buffy Saint-Marie e in cerca della sua via, che mostra una sconcertante fragilità e timidezza sul palco e contemporaneamente una forza interiore tipica del suo amato Saskatchewan in Canada (e di una vita privata non scevra da amarezze: la poliomielite da bambina, il matrimonio e divorzio con il cantautore Chuck Mitchell – di cui manterrà il cognome d’arte – e una bambina nata da una precedente relazione e data in adozione, che la segnerà per molto tempo).

Archives, vol. 2 – the Reprise years 1968 – 1971 presenta, invece, alcune demo e studio sessions degli LP prima citati e alcuni notevoli live (Le Hibou coffe house del ’68, Carnegie Hall ’69) e soprattutto BCC concert del 1970 a sugellare la collaborazione con James Taylor, ripresa anche dall’unico brano tratto dal Greenpeace concert for Amchitka (i cui diritti sono di Greenpeace Canada, presso cui è possibile acquistare il cd del meraviglioso concerto). Qui l’evoluzione artistica è già evidente: il primo album è prodotto da David Crosby, col quale ha una relazione, e i cori sono spesso appannaggio dello stesso Crosby e di Graham Nash, col quale si legherà sentimentalmente dopo il trasferimento a Laurel Canyon. Ormai fa parte a pieno titolo della comunità californiana, contribuisce a definire il west coast sound con l’utilizzo degli accordi aperti e, dopo il già notevole Ladies of the Canyon, firmerà nel 1971 uno dei suoi capolavori, Blue, dove con una estrema nudità autobiografica descrive le diverse sfumature delle relazioni sentimentali.

Archives, vol. 3 – the Asylum years 1972 – 1975 si apre col botto: session del ’71 con Crosby & Nash, demo e studio sessions per For the roses (1972), vari live, un paio di brani da sessions di Wild Tales di Nash e da Tonight’s the night di Neil Young. Alla fine, un altro salto artistico: la nuova Joni! Sono qui presentate le sessions di Court and spark (1974) ma anche live e session del successivo The hissing of summer lawns (1975), gli album registrati con Tom Scott & the L.A. Express (Scott già presente in For the roses), il gruppo jazz che permetterà una nuova espressività alla Mitchell e contribuirà a farla conoscere in ambiti inediti. In questo periodo si lega al batterista John Guerin e poi al percussionista Don Alias, una vita (movimentata) e una musica ormai indirizzate verso sonorità e strutture decisamente jazz.

Archives, vol. 4 – the Asylum years 1976 – 1980. Se non fossero bastati i primi 3 volumi, sufficienti a entrare in una top ten all time, il quarto, come si suol dire, sbaraglia la concorrenza. Si parte con un paio di brani tratti dai concerti della Rolling Thunder Revue (cui Joni si è aggregata nel ’75 e ’76) e qualche live del periodo, per arrivare alle studio session del trittico delle meraviglie: Hejira (1976), Don Juan’s reckless daughter (1977) e Mingus (1979). Qui non si parla più “semplicemente” di jazz o di cantautorato o di musica, probabilmente si tratta di una delle più incredibili commistioni di generi (e di geni) musicali del secondo dopoguerra. Le composizioni della Mitchell a questo punto hanno bisogno di qualcosa di più del pur bravo Scott, e così i collaboratori di questi anni sono, in ordine sparso, Jaco Pastorius, Wayne Shorter, Pat Metheny, Michael Brecker, Herbie Hancock… Con Hancock collaborerà anche negli anni successivi, Shorter diventerà presenza fissa (almeno una canzone in tutti i suoi album successivi), ma questo, in fondo, si sapeva. Quello che esce da questo cofanetto è anche altro… Ad esempio alcune session poi accantonate (!) dell’album Mingus (ricordiamo scritto in parte appositamente per lei dal grande contrabbassista) con altri musicisti rispetto alle registrazioni poi finite sul disco, quali Gerry Mulligan, Stanley Clarke, John McLaughlin, a dimostrazione del livello dei dischi di quel periodo. Spicca, tra le varie gemme la più preziosa della raccolta, una registrazione qui denominata “save magic” (in quanto registrata lasciando andare il nastro in studio all’insaputa di Joni) nella quale la Mitchell, sola al pianoforte, improvvisa una composizione che è la versione embrionale di paprika plains, dodici minuti di pura magia, ispirazione e introspezione che da soli valgono l’acquisto del cofanetto e a Joni un posto tra i compositori del novecento. In attesa che escano i volumi successivi, non resta che riappropriarsi del proprio tempo e mettersi in ascolto di sé stessi, questo spesso capita se si incontra la Signora del Canyon.

© Stefano Simonato per instArt