Una giornata uggiosa, un’atmosfera mesta per il mondo dello spettacolo sul quale pende l’affilatissima spada di un nuovo Dpcm come sulla testa di quel famoso greco che ne avrebbe fatto volentieri a meno.

Tra cancellazioni e sostituzioni dovute alle restrizioni dei protocolli continua a splendere la meravigliosa stella di Jazz&Wine of Peace che da decenni organizza e sviluppa una manifestazione unica in grado di far incontrare e mescere le bellezze e le bontà di Cormons e dintorni con le eccellenze del jazz e della musica d’arte. Sullo schermo del teatro comunale, mentre si aspetta il concerto di Mino Cinelu & Luca Aquino (Sula Madiana), via via che il pubblico prende il suo posto, passano gli Istanti Jazz, le splendide immagini di Luca d’Agostino che documentano le glorie delle scorse edizioni (Mike Stern, Bill Frisell, McTyner, Dave Brubeck e tanti altri) inframmezzate dai vigneti e dalle cantine nelle quali storicamente si tengono gli eventi musicali ed eno-gastronomici che rappresentano uno dei momenti più deliziosi di tutto il festival; giornate di vino e di musica che riguardano tutti i sensi più nobili, la vista, l’udito, il gusto e…i sorrisi. Lo scorso anno il fotografo ha guidato lo stage presso il festival di sei giovani fotografe, il loro lavoro è ora documentato da uno splendido calendario. Sempre nell’attesa del concerto qualche zelante cittadino non si risparmia nel redarguire gli altri spettatori per come indossano la mascherina, lo stesso che poco prima, appena fuori dal teatro, aveva calato la propria per fumarsi avidamente un paio di sigarette, paradossi e contraddizioni di questi strani giorni.

Entra finalmente in scena Minu Cinelu che ringrazia il pubblico per l’accoglienza e si accomoda dietro la sua batteria preparata. Comincia soffiando dentro un tubo ritorto che ha un suono di un altro pianeta. Mette tutto in loop e comincia a percuotere le pelli tessendo dei ritmi che a loro volta vengono riverberati dalle macchine sovrapponendosi ai primi. Ci sono ancora altri “aggeggi e gingilli” che solo la fantasia dei percussionisti più folli può immaginare.

Una specie di molla di acciaio simpatico sospesa regala sensazioni quasi di pericolo unita al tradizionale triangolo e al temporale di altri tamburi e tamburelli. L’effetto è decisamente tribale e selvaggio come solo ai tropici si può. I suoi vocalizzi fanno respirare l’aria umida e calda dei tropici molto diversa e forse più salutare di quella che inspiriamo nelle nostre mascherine, questa odora di magnifiche piume d’uccello, di giaguari, di formiche verdi e di occhi che ci scrutano dal folto della foresta.

Un brano dell’album con Nils Petter Molvaer che non ha potuto essere presente per problemi di salute. Ogni brano è un viaggio, un’incursione in una dimensione inquietante e onirica dove dentro ogni albero abita una donna o un dio come in un romanzo di Gioconda Belli (La donna abitata) e lungo tutte le spine dorsali s’avvinghia un serpente piumato in grado di morire per mille anni e poi tornare e divorare migliaia di cuori.

Solo le percussioni sono in grado di guidarci in un territorio così misterioso del nostro inconscio. Il tamburo riacquista così la sua funzione apotropaica e sciamanica di ponte e di tramite tra le dimensioni e tra le realtà inconsce.

Cinelu è una sorta di sacerdote pagano del ritmo che, contaminato di elettronica, compie viaggi astrali a partire dal battito e dal sussurro. A questo punto lo sciamano chiama il suo officiante Luca Aquino che risponde sulle note del proprio flicorno, soffiando e fischiando in modo molto evocativo. Ogni singolo spettatore si accorge di essere in una zona del suono liminare tra arcaismi suggestivi e proiezioni elettroniche futuribili. Tamburi e trombe insieme possono annunciare solamente la guerra, la distruzione delle mura della città e chiamare l’apocalisse oppure precedere con il loro tuono e le squilla la gloria a venire.

Cinelu e Aquino non ci dicono precisamente in quale di queste situazioni ci troviamo anche se il clima generale di tregenda non fa sperare nulla di buono. Di certo la loro è una vera e propria liturgia d’evocazione in musica.

Via via che i brani si susseguivano i ritmi si facevano più spezzati e astratti quasi come seguissero l’avanzare di uno stato progressivo di trance che si faceva sempre più profondo. Davvero l’ombra inquietante del Dark Magus Miles Davis con il quale Cinelu ha collaborato a lungo, non era lontana. La presenza dello sciamano elettrico era avvertibile anche se i due possiedono un’originalità e prospettive del tutto diverse. La tromba di Luca Aquino soffia, garrisce, brontola, s’inerpica e scende in picchiata anch’essa fornita dei tanti effetti che è possibile applicarle. E’ la prima volta che si esibisce dal vivo a fianco di Mino Cinelu; sostituiva il grande trombettista norvegese Nils Petter Molvaer che ha inciso recentemente con Cinelu l’album Sula Madiana e non è stata impresa semplicissima. Aquino si è battuto bene e merita l’onore delle armi ma la battaglia era assolutamente impari e non a suo favore.

Cinelu, oltre all’esordio appena sedicenne nella band di Miles Davis durante il tour da cui poi fu tratto il meraviglioso live We want Miles! (1982), ha avuto una carriera artistica sfolgorante con collaborazioni e progetti eccezionali (Weather Report, Herbie Hancock). Meno nota al grande pubblico è la sua attività di compositore di colonne sonore. Sostiene che un artista può creare la melodia più bella del mondo ma se quella non si accorda con le immagini non c’è altro da fare che mettersi in tasca il proprio ego e farsene una ragione. Ricordando una sua canzone canta in francese accompagnandosi ad un organo valvolare che riproduce il meraviglioso suono di una serie di bicchieri suonati a sfioro con un effetto d’incanto favolistico. Alla tessitura già piuttosto mielata di Cinelu si sono sommati gli interventi alla tromba di Aquino che, in quel caso, è sembrato soffiare zucchero filato rosa in una nuvola appiccicosa. Roba da coma diabetico al primo ascolto, ma, appena ristabiliti i livelli glicemici, l’effetto complessivo è risultato piacevole.

Tutt’altra atmosfera quando il percussionista di nuovo solo incarna, prima con le parole e poi con i suoi strumenti, lo Spirit in the Drums, come dice lui, la divinità che abita i tamburi come ogni altro strumento e che sta al musicista saper evocare e ingraziarsi. Quel tanto di animismo necessario gli viene anche da quello che ha ereditato culturalmente dal padre nativo della Martinica. Il brano che esegue con fare estatico vuole trasmettere il senso spirituale del suonare per sentirsi parte della germinazione della creazione e dei suoi misteri che non sono simbolicamente così dissimili da quelli della vinificazione che trasforma un frutto della terra in spirito di-vino e acqua vitae.

Aggiunge che, prima che i tamburi debbano tacere ancora una volta davanti alla giusta, implacabile spietatezza delle normative anticovid, dobbiamo pagare il nostro tributo agli spiriti che ci abitano e che vivono celati in ogni cosa e in ogni istante. Ipnotico e tribale, Cinelu non si fa certo pregare per farsi intermediario tra ciò che si vede e tutto quello che rimane celato ai sensi, investendo i propri spettatori con un’onda di calde vibrazioni che penetrano oltre il muro dell’epidermide in ogni fibra e nervo.

Non è più musica di certo ma un atto psicomagico che contrasta le forze ctonie e tenebrose che ci attanagliano e dio sa quanto ne abbiamo bisogno. Dal palco però Cinelu si accorge che il pubblico sembra piuttosto preoccupato e serioso e fatica a lasciarsi andare nonostante i ritmi torridi e l’energia che emana il musicista. Non è possibile biasimarlo, non è facile scalmanarsi felici e spensierati dopo tutto quello che abbiamo e stiamo passando soprattutto nell’incertezza di un futuro che appare piuttosto fosco. Il percussionista lo sa bene come sa che secondo i protocolli non è possibile abbassare le mascherine per gridare e cantare come si vorrebbe e tanto meno alzarsi per ballare e saltare, non può però fare a meno di restarne sgomento.

Lascia per un attimo il palcoscenico per un assolo del trombettista che, sempre avvalendosi degli effetti elettronici, suona il suo strumento in modo caldo e avvolgente ma a tratti anche strascicato e sporco, volutamente impreciso e tutto vibrato e soffiato. L’impressione che suscita è quella della nostalgia e dell’esilio, della lontananza dalla casa, della vita nomade e raminga della profuganza sulle strade dell’est.

Torna Cinelu con una chitarra semiacustica e intona Cold as a night tratta dalla colonna sonora di sua composizione per il film di Raoul Peck Haitian Corner (1987). E’ un blues urbano in frammenti e pieno d’anima africana che il flicorno di Aquino sa esaltare e rendere ancora più morbido e notturno. É poi la volta di Sula Madiana affascinante title track dell’album appena pubblicato del quale accennavamo. Quei ritmi annunciavano anche una graditissima sorpresa del tutto inaspettata: tra le ovazioni stupefatte del pubblico, ha fatto la sua comparsa sul palcoscenico il pianista cubano Omar Sosa che si è immediatamente accomodato alle tastiere con il suo fare stralunato e affabile da stregone voodoo. Appena ha toccato i tasti tutta la forza tellurica della Santeria si è sprigionata, sono bastati pochi accordi e Baron Samedì si è manifestato in musica proprio lì davanti al pubblico con le sue quattro ossa sorridendo con il suo ghigno beffardo sotto il cappellaccio.

D’un tratto ci si ricorda di trovarsi in quel particolare periodo dell’anno che gli antropologi chiamano: “I giorni del magico” durante i quali la natura sembra infuocarsi nei suoi colori rugginosi per poi ritirarsi e morire. Presto sarà Samhain l’antica festa celtico pagana che si celebra tra il 31 ottobre e il 1 novembre e che ci fa scivolare verso i giorni sostiziali durante i quali le forze ctonie riaffiorano pretendendo i loro tributi e sacrifici in fuoco e spirito di vino. A Jazz&Wine lo si sa bene, mentre si suona, nelle cantine e nelle aziende vitivinicole il vino da poche settimane raccolto, ribolle nei tini e comincia la sua trasformazione alchemica. L’acino deve morire per trraslarsi nel sangue della divinità che piange per la perdita dell’amore come racconta il mito generativo di Dioniso e Ampelo.

Intanto i musicisti visibilmente allegri e divertiti continuano a deliziare il pubblico con il nettare dei loro suoni in una serie continua di rimandi e citazioni tanto che ad un certo punto intonano il famoso refrain di Banana Boat Song di Harry Belafonte ed è un omaggio non solo ad un grande cantante ma anche ad un simbolo della lotta per i diritti civili in tutto il mondo.

Anche Take the A# Train dall’ultimo album di Cinelu fa la sua gran bella figura con il lavoro strabiliante del percussionista sul triangolo che sa trasformare un piccolo strumento spesso sottovalutato in un’autentica macchina del ritmo mentre i loop imperversano arricchiti da strani vocalizzi e grida. Sosa semina appena qualche accordo qua e là, sembrano grosse gocce di pioggia che si infrangono colpendo un tetto di lamiera o i finestrini di un treno in corsa che ora ha preso piena velocità e sfreccia tra le case di una desolata periferia.

Si spandono suoni di Tablas, nostalgie per tromba, Sosa impreziosisce il tutto segnando il tempo, colpendosi le guance con la bocca semiaperta in una o. E’ una breve sosta del treno in una stazione intermedia per poi ripartire a velocità doppia così rapidi che il concerto è già finito. La paura vera dopo tanta bellezza è quella di uscire, di riaccendere i telefonini e vedere cosa ci aspetta per i prossimi giorni, a quale nuova punizione andremo incontro a causa del maledetto virus, contenti però che, per ora, la musica abbia vinto ancora.

© Flaviano Bosco per instArt

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