Lo “Spazio 35” di via Percoto a Udine è un laboratorio culturale che da qualche anno ha aperto una nuova finestra di iniziative in Borgo delle Magnolie che qualcuno definisce “Quartiere malfamato” tanto che le solerti autorità hanno pensato di militarizzare l’area con tanto di blindati, bersaglieri, mitra e giubbotti antiproiettile.
I ragazzi di “Spazio 35” pensano, al contrario, che il dialogo, l’inclusione, l’arte, la musica e il design possano molto di più dei militari. Come cantava quel Signore; “You may say I’m a dreamer, but I’m not the only one!” Proprio per questo, anche Udin&Jazz ha deciso di “decentrare” alcune sue lodevoli iniziative tra letteratura e musica proprio in quegli spazi.
Si è cominciato con la presentazione-intervista con l’autore, da parte del giornalista Max De Tomassi, del pregevole volume: “Il Jazz e i mondi” di Guido Michelone (Arcana ed.). Il testo fa parte di un trittico che esplora la diffusione della musica di derivazione afroamericana a livello planetario con la scansione di Italia, Europa e tutto il resto. Max De Tomassi, con la solita amabilità così rara tra i giornalisti d’oggi, ha incalzato Michelone con domande puntuali e golose.
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Udin&Jazz 2023_ ph Angelo Salvin
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Udin&Jazz 2023_ ph Angelo Salvin
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Udin&Jazz 2023_ ph Angelo Salvin
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Udin&Jazz 2023_ ph Angelo Salvin
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Udin&Jazz 2023_ ph Angelo Salvin
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Udin&Jazz 2023_ ph Angelo Salvin
Studiando il passato della musica possiamo capire quale futuro ci attende, solo un decennio fa sembrava una frase banale, ma oggi nell’orizzonte della musica liquida è diventato un assunto. Siamo talmente bombardati di informazioni musicali e frequenze da non capire più cosa stiamo ascoltando tanti sono gli stili, le contaminazioni e le interferenze che quotidianamente riempiono di “rumore bianco” i nostri spazi vitali da non saper più distinguere tra ciò che vale per la nostra crescita personale e tutto il resto.
Meritoria è dunque l’opera di Michelone che, con uno stile compassato e sobrio, senza eccessive retoriche, ci introduce ai mondi del jazz a tutte le latitudini e continenti. Naturalmente, anche comprendendo i tre volumi completi della sua opera, il suo è da considerarsi uno sguardo a volo d’uccello sulle tante realtà musicali derivate in un modo o nell’altro dalla musica afroamericana. Punto di partenza la considerazione che il jazz nacque dall’incontro tra la cultura afroamericana, caraibica, italiana, ebraica che immediatamente si mescolarono a molte altre.
Il Jazz è per definizione inclusione e contaminazione e fin dai primi del secolo XX° si diffuse molto rapidamente ovunque nel mondo diventando non solo uno strumento molto efficace per la diffusione della cultura degli afroamericani, ma anche per la rivendicazione dei diritti civili e sociali di tutte le minoranze. Proprio per questo venne aspramente contrastato, la sua libertà era contagiosa.
Ad ogni latitudine possiamo trovare le sue più diverse declinazioni: latin, afro-cuban, norwegian, gitan, french, ecc. Diverso il discorso per il Brasile e la sua musica che sono un continente a parte nel quale il jazz è un’isola in un immenso arcipelago di musiche tra le più diverse.
In sintesi, il Jazz è una musica “bastarda” proprio come diceva di se uno dei suoi più grandi interpreti. Charles Mingus così scrisse nella sua autobiografia intitolata significativamente, Peggio di un Bastardo: “Ogni volta che guardandosi allo specchio si chiedeva – Cosa sono io? – gli sembrava di vedere una serie di etnie: indiana, africana, messicana, asiatica, e una certa percentuale bianca, di cui suo padre si era sempre vantato. Lui voleva essere una cosa o l’altra, e invece era un po’ di tutto, senza essere niente di preciso: senza una razza, un paese, una patria…”
Claudio Cojaniz: “Black”
Mattia Magatelli (Contrabbasso) Carmelo Graceffa (batteria) Claudio Cojaniz (Pianoforte)
Presentando il concerto del vecchio amico di tante battaglie, Giancarlo Velliscig ha ribadito che Borgo stazione ha più bisogno di musica che di militari in assetto di guerra, sempre in linea con quella gioia rivoluzionarie che dice: “Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita”.
Claudio Cojaniz è un ospite assiduo del festival, nelle varie edizioni ha scelto di presentare i propri progetti che hanno sempre avuto come minimo comune denominatore la scoperta delle radici africane del Jazz in tutte le sue declinazioni.
Quest’ultimo lavoro, che viene dopo una lunga teoria di incisioni e concerti, è apparso dal vivo come una summa di tutto il percorso fatto “inciampando” tra le radici della musica afroamericana. Senza por tempo in mezzo, il concerto è cominciato con un rullare di tamburi cui si è aggiunto subito il contrabbasso in un crescendo che è sembrato un risveglio di energie di un altro mondo. Da quest’ultimo sgorgavano anche i primi accordi molto swingati e gioiosi, sembrava una meditazione sui colori dell’Africa visti e immaginati nelle pozzanghere delle strade di New York come in una foto di Vivien Maier.
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C. Cojaniz - U&J 2023 - ph Angelo Salvin
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C. Cojaniz - U&J 2023 - ph Angelo Salvin
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C. Cojaniz - U&J 2023 - ph Angelo Salvin
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C. Cojaniz - U&J 2023 - ph Angelo Salvin
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C. Graceffa - U&J 2023 - ph Angelo Salvin
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M. Magatelli - U&J 2023 - ph Angelo Salvin
I brani seguenti hanno toccato il Folk, Ragtime con echi della musica degli Appalachi che si tende sempre a considerare estranea alla tradizione del jazz perché considerata di derivazione anglosassone ma, come hanno dimostrato prima Woody Guthrie e poi Bob Dylan, il passo è davvero breve tra uno e l’altro. Il contrabbasso giocava sulle dissonanze in un approccio ritmico cantabile del tutto particolare e in certi tratti alla “Mingus”.
Cojaniz dal canto suo ha saputo essere molto morbido, spesso perfino malinconico e sognante, molto più melodico e arioso di quanto ci si potesse aspettare, tanto da sembrare a tratti molto più aderente alla tradizione della canzone europea che al blues. In questa sorta di variegato “American song book” molto particolare non sono mancati alcuni riferimenti alle canzoni messicane d’ispirazione “mariachi”. Subito di seguito hanno fatto la loro comparsa i ritmi “ferroviari” che ricordano la presenza ritmica del cavallo di ferro nell’immaginario sonoro degli americani d’ogni pigmentazione e cultura: da quella dei Nativi che la avvertivano giustamente come un minaccia, agli immigrati cinesi schiavi costruttori di binari, fino agli speculatori che ci hanno costruito l’impero finanziario americano e buoni ultimi i passeggeri che ignari di tutto questo hanno continuato sempre a viaggiare verso la fatidica frontiera. Il ritmo del brano rallenta, riprende vigore, accelera e poi rallenta ancora fino a fermarsi nel bel mezzo del tramonto nella prateria.
E’ stata poi la volta di indiavolati suoni africani in cui la ritmica si è fatta gradualmente più complessa, articolata fino all’astrazione. Magatelli e Graceffa hanno un ottimo interplay, sanno aspettarsi, rincorrersi e procedere insieme in perfetta sintonia.
Non è mancato, naturalmente, nemmeno il blues più tradizionale con i suoi rimpianti, nostalgie e dolori inconsolabili e così sono stati languidi sospiri, spazzole sui piatti e sulle morbide pelli in un’atmosfera molto classica e suadente.
Immediatamente dopo, quasi per contrasto, un brano nervoso e affilato con incursioni al limite del free con la ritmica che ricordava un temporale che si preparava ad esplodere volgendo a tempestoso fortunale, in tutta la sua violenza ma, quando sembrava si stesse scivolando verso l’irreparabile, Cojaniz con una melodia dolcissima ha scongiurato il peggio con un gesto apotropaico in punta di dita, pur lasciando alla ritmica la sua funzione luciferina. Sospiroso e delicato anche il bis sul filo delle bluenotes. Cojaniz è autenticamente Black e lo ha dimostrato ancora una volta con il coraggio delle sue dita e un sorriso beffardo sotto i suoi baffoni.
Stewart Copeland’s Police Deranged for Orchestra
Orchestra del FVG, Troy Miller (direttore) Laise Sanches, Raquel Brown, Sarah-Jane Wijdenbosch (Coriste) Vittorio Cosma (Tastiere) Gianni Roiatti (Chitarra) Alessandro Turchet (basso) Stewart Copeland: (batteria, chitarre, voce)
Si respirava un’atmosfera davvero elettrica al Teatro Nuovo Giovanni da Udine “sold out” nell’attesa dell’esibizione di uno dei più grandi batteristi della storia del rock. I Police hanno lasciato una traccia davvero profonda nell’immaginario collettivo e la loro musica è ancora ben viva sia nella generazione dei ragazzi degli anni ’80, sia in quelli di oggi. L’equilibrio che i tre avevano saputo creare tra suggestioni punk, reggae, pop, elettronica, jazz non è per nulla superato e le hit sono ancora fresche e attuali.
Naturalmente, non è solamente il marketing ad aver permesso tanta longevità. Prima di tutto vi è la caratura e il talento di autentici geni della musica come Andy Summers e Sting cui Copeland non è certamente da meno. Lo si è capito benissimo a Udine con la nuova orchestrazione dei vecchi brani, ma il batterista ha anche una luminosa carriera solista che ha preso il via con un capolavoro assoluto come la colonna sonora del film di Francis Ford Coppola “Rumble Fish” (1983).
Copeland ha dalla sua anche una grandissima verve da uomo di spettacolo e da intrattenitore, tra un brano e l’altro dialoga con il pubblico tra un fiume di battute, risate e applausi. Sembra che non si prenda mai troppo sul serio, sminuendosi e facendo finta di essere quasi lì per caso. Naturalmente non è così, Copeland è un artista di livello altissimo dalle immense potenzialità che non ha per nulla finito di regalare al pubblico fantastiche emozioni.
In questo, come in molti altri casi in precedenza, la sua bravura di musicista si evidenzia anche perché sa attorniarsi di ottimi professionisti dai quali sa trarre il meglio. Non è la prima volta che l’orchestra del Friuli Venezia Giulia si cimenta con il rock, si ricordi la direzione di Walter Sivilotti o di Paolo Paroni con i quali si è cimentata, ovviamente, soprattutto con il rock progressivo.
Questa volta però il coinvolgimento dell’ensemble è sembrato maggiore, meno compassato e più dinamico. Merito va anche alle integrazioni dell’organico di musicisti locali straordinari. Tra gli ottoni aveva preso posto il sax di Nevio Zaninotto, una delle punte di diamante del jazz regionale, così come altrettanto importante la presenza al basso elettrico di Alessandro Turchet, senza dimenticare che il chitarrista per questa breve tournée in Italia del batterista è stato l’udinese Gianni Rojatti, turnista di lusso e grande virtuoso della sei corde.
Lodi meritate vanno anche alle tre vocalist che non sono state per nulla relegate alla loro stereotipata versione decorativa come in tanti ensemble, ma al contrario sono state pienamente front-women. Anche la loro vocalità, tra il soul e il caraibico, ha contribuito a stravolgere scientemente i brani trasformandoli in qualcosa di inedito e altrettanto piacevole. Hits celeberrime come Roxanne, Message in a Bottle, Spirits in the Material World sono risultate così del tutto nuove, inaudite e imprevedibili tanto da spiazzare gli spettatori abituati a canticchiare le strofe e i versi nel modo più classico dell’originale.
Anche qui Copeland ha applicato un suo personale metodo compositivo che ha molto a che fare con il suo approccio sincopato e perfino barocco alle percussioni. Nella sua ritmica non c’è mai niente di scontato, come batterista carica e complica all’inverosimile anche i passaggi più semplici e piani; la sua formazione allo strumento è stata infatti molto influenzata dalle poliritmie arabe e mediorientali grazie ai primi rudimenti appresi da adolescente quando si trovava in Libano con la famiglia. Per sintetizzare con una facile metafora il suo particolarissimo modo di suonare la batteria possiamo dire che dove c’è una linea (ritmica) lui vede ed esegue un astratto arabesco con un effetto da “Mille e una notte”.
Si permetta una piccola digressione per legare l’esibizione in modo “diagonale” al tema del festival che era “Jazz against the Machine”. Riprendendo un concetto introdotto in psicologia da Gilbert Ryle nel 1949, Arthur Koestler sviluppò il suo saggio “The Ghost in the Machine” pubblicato nel 1967.
Sting lo lesse e ne trasse grande ispirazione per il quarto album dei suoi “The Police”, dallo stesso testo il mangaca Masamune Shirow trasse la storia per il suo “Ghost in the Shell”. In poche parole, Ghost (spirito) è l’Essenza, ciò che differenzia un umano da un robot biologico. Per quanto la macchina possa sostituire le nostre funzioni, fino a che riusciremo a mantenere il nostro Ghost manterremo la nostra umanità e individualità.
Il festival di Udine “contro la Macchina” ha creduto profondamente nel fatto che la musica e più precisamente il jazz possa aiutarci a mantenere lo “spirito” giusto. Proprio dall’album “Ghost in the Machine” sono venute alcune efficacissime canzoni del concerto di Copeland. Prima fra tutte “Demolition Man” con la quale si è aperta l’esibizione. Sting ha dichiarato che: “Il demolitore è la bestia, non ci può fare niente, deve distruggere. E’ una parte di ognuno di noi, anche di me che sono particolarmente distruttivo. So anche essere creativo, ma quella è la mia metà”.
Sicuramente anche Copeland ha una parte di se distruttiva, ma a prevalere di certo è quella creativa. Lo si è visto e sentito sul palcoscenico di Udine con le nuove versioni dei classici brani dello storico gruppo.
E’ bene precisare che non si è trattato per nulla di cover o di semplici nuovi arrangiamenti. I brani, pur conservando alcune caratteristiche originali soprattutto per quanto riguarda la ritmica, sono stati letteralmente stravolti dal lavoro certosino da autentico compositore del batterista. Come ha spiegato Copeland direttamente al proprio pubblico, le nuove versioni vengono da un “taglia e cuci” su materiale d’archivio in suo possesso con outtakes, prove e registrazioni varie riassemblando le quali si è trovato di fronte a qualcosa di completamente inedito e di piacevolissimo ascolto.
Il rapporto del rock con le orchestre sinfoniche non è per nulla una novità, tra i primi ad incidere un album dal vivo con un organico così particolare furono i Deep Purple nel 1969 (Concerto for Group and Orchestra) avvalendosi della Royal Philharmonic Orchestra. Da allora lo hanno fatto proprio tutti dai più estremi gruppi black metal fino a Gianni Morandi, con risultati comprensibilmente non sempre ottimali.
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S.Copeland+FVG Orchestra - U&J 2023 - ph A.Salvin
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S.Copeland+FVG Orchestra - U&J 2023 - ph A.Salvin
Cosa c’è di diverso nel lavoro di Copeland? Come si è potuto ascoltare a Udine è possibile partire da materiali di scarto di capolavori e costruire nuove emozioni che hanno una nuova vita con una propria autonoma bellezza. “Deranged” in inglese corrisponde ai nostri “sconvolto, scompigliato, messo a soqquadro, squilibrato”. E’ proprio questo che ha fatto il batterista con i brani dei The Police con un metodo che sembra molto simile al concetto di Cut-up di William Burroughs.
La magia sta nel fatto che anche se riassemblato il materiale funziona. Il suono inconfondibile della batteria di Copeland è sempre stato una delle colonne portanti dei The Police che hanno funzionato fino a quando il batterista ha dato il proprio appoggio; la goccia che fece traboccare il vaso o meglio il pretesto per lo scioglimento fu una caduta da cavallo dello stesso batterista che si ruppe una clavicola giocando a Polo poco prima di incidere quello che sarebbe dovuto essere il nuovo album della band.
Tra le caratteristiche tecniche ed esecutive che hanno sempre distinto Copeland e che sentite dal vivo hanno una forza trascinante sono l’Octobans, una serie di otto piccoli tamburi con tonalità differenti, il piccolo piatto Splash dal suono quasi “giocattolo” e poi:
“Il rullante. Copeland ha sempre sostenuto di aver usato lo stesso rullante di provenienza ignota in tutti e 5 i dischi dei Police…nonostante le tecniche di registrazione siano molto cambiate da un disco all’altro…dal suono secco di Zenyatta Mondatta a quello nitidissimo e incisivo di Synchronicity, la voce, il carattere, di quel rullante sono sempre rimasti gli stessi.” (Classic Rock spec. N°6)
Quel suono c’è ancora e lo si è potuto sentire benissimo anche a Udine; è per questo che tutti i brani in scaletta, seppur “deranged”, hanno funzionato benissimo ugualmente. Ogni volta che Copland colpisce un rullante o un piatto ci mette la firma con il suo tocco unico: “Every little thing HE does is magic”.
© Flaviano Bosco – instArt 2023