Ci sono poche cose più appaganti per un appassionato che vagabondare tra le vigne del Collio friulano e sloveno alla ricerca delle Cantine dove sorseggiare meravigliosa musica e ascoltare il colore dorato del nettare degli dei. Molti dei concerti non si svolgono solo nel teatro comunale di Cormòns che è la sede principale del festival, ma per l’appunto in molte accoglienti aziende vitivinicole sparse tra le colline.

Anche se spesso a guidarci necessariamente è l’impertinente voce del navigatore della nostra automobile, è possibile ugualmente scoprire autentici angoli di paradiso a pochi chilometri da Gorizia magari seguendo il corso dell’Isonzo/Soča/Lusinç, il fiume padre delle culture del Collio e del Carso insieme al Timavo/Timav/Timau.

Già solo le lingue con cui si chiama il fiume ci fanno capire la ricchezza culturale e spirituale di quei luoghi che il festival jazz esalta tra note e suggestioni raffinatissime.

La rassegna non è fatta solo di luoghi ed arte tra eccellenze musicali ed enogastronomiche, perderebbe il proprio significato fino ad essere nulla più che vano intrattenimento senza la passione e la dedizione delle persone dall’Ass. Controtempo che lavorano un anno intero alla sua realizzazione.

Senza voler fare torti agli altri si vuole ricordare almeno l’entusiasmo che il vicepresidente Pierluigi Pintar ha saputo comunicare anche in questa edizione al pubblico in brevi introduzioni ai concerti in coppia con Riccardo Tomadin. Quei brevi divertenti dialoghi, tutt’altro che accademici, ma impostati da un’affabile familiarità sono riusciti a far sentire tutti parte di una grande famiglia del jazz che ogni anno si ritrova e brinda alla musica e all’amicizia.

Di questi tempi è un messaggio di fraternità e di pace che senza troppa retorica va diritto al cuore di ognuno. A Cormòns nelle giornate del festival si sentono parlare molte lingue diverse, ci sono persone da molte parti d’Europa con gusti e abitudini tra le più eterogenee, ma ci si capisce subito con il linguaggio universale della musica che, come diceva James Brown, vuole solo: “Peace, Unity, Love and having fun!”

Cormons, 28/10/2023 – Circolo Controtempo – Jazz&Wine of Peace 2023 – ENRICO RAVA FEARLESS FIVE (Italy)
Enrico Rava: flicorno
Matteo Paggi: trombone
Francesco Diodati: chitarra elettrica
Francesco Ponticelli: contrabbasso
Evita Polidoro: batteria
Foto Luca A. d’Agostino / Phocus Agency © 2023

Enrico Rava Fearless-five Matteo Paggi (Trombone) Francesco Diodati (chitarra elettrica) Francesco Ponticelli (contrabbasso) Evita Polidoro (batteria) Enrico Rava (Flicorno, tromba)

Una delle più gradite novità di questa edizione del festival è stato il ritorno in massa del pubblico che ha gremito i concerti decretando parecchi sold out e riportando quell’atmosfera brillante e davvero festosa che gli anni del Covid avevano cancellato un po’ dovunque. Naturalmente, tra questi c’è stata l’esibizione di uno dei decani del jazz europeo, Enrico Rava con il suo gruppo di giovanissimi “senzapaura”. Se esiste un preciso profilo della musica d’avanguardia e d’improvvisazione italiana molto del merito va al trombettista nato a Trieste e fiorito artisticamente a New York suonando con i giganti della musica afroamericana. Da più di sessant’anni Rava progetta il futuro della musica senza mai sbagliare un’architettura. Come i grandi padri del jazz moderno anche Rava ha nei decenni cresciuto legioni di giovani musicisti aiutandoli a scavarsi il proprio percorso con un fiuto da vero talent scout. Naturalmente, non ha per nulla smesso di confrontarsi con energie giovani e il Fearless-five è assolutamente all’altezza dei suoi tanti precedenti combo.

Straordinario, per esempio, il nuovo trombonista Paggi che dimostra grande padronanza emotiva oltre che eccezionale virtuosismo alla coulisse; completa e arricchisce le linee melodiche che il leader gli suggerisce e gli indica. Diodati, il fido chitarrista cui si accompagna negli ultimi anni non è più una sorpresa per la sua competenza e inesauribile creatività che gli permette di unire il tapping al plettro con un’irruente dolcezza del tutto unica. Evita Polidoro è la dimostrazione vivente dell’assunto ellingtoniano “A Drum is a Woman”. Le percussioniste in generale così come le contrabbassiste hanno un senso del ritmo del tutto particolare e un approccio ai rispettivi strumenti del tutto diverso dai colleghi maschi e non è una questione di stereotipi di genere, ma di stile. Polidoro ha un tocco gentile anche quando picchia sui piatti in modo forsennato e appare ancora più morbida del dovuto quando usa le spazzole per lo shuffle.

Fin dal primo brano il gruppo ha espresso un sound hard bop e mainstream non privo di passaggi complicati ed eccentrici, non sono mancate per esempio nel secondo brano in scaletta atmosfere elettroniche ai limiti della Kosmische musik per contemplazioni di spazi siderali. Il flicorno sembrava suggerire un’astronave che atterra su un asteroide che si chiama blues dove la desolazione di certe notti a milioni di anni luce da casa sembra la buia campagna guardata attraverso i finestrini di un treno che viaggia nella notte senza luna e senza stelle. Chi si ricorda Galaxy express 999 di Leiji Matsumoto? Questo tanto per ricordare che Rava, oltre ad essere stato il musicista che ha dato forma al jazz moderno nel nostro paese, è stato anche uno dei maestri dell’avanguardia europea e ad ogni buon conto, lo è ancora. A tratti il brano ricorda anche il più indemoniato Miles Davis elettrivo. Il trombettista italiano però non rinuncia mai alla sua proverbiale vena romantica e melodica, a quel suo tenero rimuginare che da più di mezzo secolo rende unico il suo stile che gli ha fatto avere sempre un occhio di riguardo anche per la tradizione della canzone popolare italiana. Prezioso in questo senso l’accompagnamento del contrabbasso di Ponticelli che smorza certe asperità e rende lineari e razionali anche alcuni momenti che altrimenti rischierebbero il sentimentalismo.

Nell’ispirazione di Rava e dei suoi ensemble non è mai venuta meno la grande scuola della musica brasiliana; ritmi solari con atmosfere dall’aria spessa, morbida e soffice che il trombone di Poggi ha saputo fendere con la sua spada di pesce (Sword fish trombone) innestando sui groove caraibici nostalgie di blues che il contrabbasso continuava a rendere ancora più pensose allo sferragliare dei piatti della batteria.

Rava non è mai stato un leader prevaricatore o irruento e tanto meno lo è adesso. Il suo flicorno non s’impone e non sovrasta, in perfetto interplay con il batterista e tutti gli altri suoi compari che, in questo caso, gli potrebbero essere figli. Come sempre lascia che i suoi musicisti prendano il largo con il vento in poppa, lasciandogli qualche vantaggio per poi recuperare fino ad affiancarli, superandoli al giro di boa senza mai staccarli del tutto ma filando a pelo d’acqua giusto davanti a loro. Le metafore da regata sono proprio adatte a descrivere una musica che si inspira ed espira tra le labbra in un soffio.

Davvero emozionante il brano nel quale la batterista vocalizza in modo seducente e leggero per timbro ed espressività. Naturalmente, Rava la sostiene con brevi passaggi alla tromba che però sono stati solamente frammenti di un discorso nel quale il flicorno completa in modo più articolato frasi appena abbozzate.

In generale, è stato un suono ricco e moderno dalle venature retrofuturiste con fragranze d’antan che guardano a domani mentre è già ieri.

E’ una musica che si ascolta ad occhi chiusi, ben piantati nella poltrona del teatro e non importa se la persona che avete a fianco è una professoressa dalla penna rossa che per risparmiare sui tempi si è portata le verifiche dei propri allievi e le corregge nel medesimo istante in cui la storia del jazz passa a qualche metro da lei su un palcoscenico che sembra non interessarla minimamente; sembra incredibile, ma durante un concerto anche in platea può succedere di tutto.

Dopo i fragorosi applausi finali e le ovazioni meritatissime, immancabile il brindisi, sul proscenio, della band e degli organizzatori con il vino della pace. “God Save the King!”

Giasbana, 29/10/2023 – Circolo Controtempo – Jazz&Wine of Peace 2023 – FRANCESCO BEARZATTI Plays LED ZEPPELIN ” POST ATOMIC ZEP” (Italy)
Francesco Bearzatti: sassofono tenore
Danilo Gallo: basso
Stefano Tamborrino: batteria
Foto Luca A. d’Agostino / Phocus Agency © 2023

Francesco Bearzatti plays Led Zeppelin “Post Atomic Zep” Danilo Gallo (basso) Stefano Tamborrino (batteria) Francesco Bearzatti (sax tenore)

Dopo aver visto il concerto di Robert Plant poco più di un mese fa, viene da chiedersi a che cosa possa mai servire una ennesima coverband che reinterpreta i brani degli Zeps quando anche i legittimi autori hanno smesso da un pezzo di proporli.

“Post Atomic Zeppelin”: la location aveva qualcosa del rifugio antiatomico con condotti di acciaio luccicante, cemento armato, coperture in legno lamellare, luci al neon, la security in divisa nera e anfibi; se poi uno superava il primo impatto capiva che si trattava della nuovissima struttura di una prestigiosa cantina del Collio goriziano: Azienda Agricola Gradis’ciutta, Località Giasbana, San Floriano del Collio.

Prima del concerto Roberto e Federico, soci dell’azienda, hanno illustrato le “magnifiche sorti e progressive” delle loro produzioni, giustamente fieri ed orgogliosi di essere i migliori e primi vigniaioli che applicano integralmente il metodo “organico” della zona. I loro eccezionali vini lo testimoniano egregiamente senza troppe parole. Unire musica, arte e vino è un altro modo “organico” di intendere la vita che tanto ci piace.

Nei magazzini della Cantina, nel cuore della produzione, poste alle pareti le cassette del prezioso nettare appena imbottigliato, tra enormi tini in acciaio inox e macchinari vari, è stato allestito un piccolo palcoscenico che ha permesso al numerosissimo pubblico di assistere all’esibizione di quello che è giustamente considerato uno dei migliori sassofonisti italiani.

Francesco Bearzatti ha attaccato lirico e nostalgico prima di trasformare il tutto in un blues ruvido e tagliente sulle note di un lungo, composito melange di Dazed and Confused, Blackdog, Heartbreaker, Moby Dick, Going to California. Il sax imitava al contempo la voce di Plant e la chitarra di Page facendo larghissimo uso di filtri e synth mentre gli altri due suoi “sicari” pestavano durissimi un post rock davvero apocalittico. In questi primi brani il primo gruppo a venire in mente non erano per nulla i Led Zeppelin ma i Morphine di Mark Sandman o i Melvins di Buzz Osborne.

Bearzatti in questi contesti adotta un modo di suonare il sax che può far storcere il naso a più di un purista che è portato a confondere il suo istinto terragno e l’esibita ingenuità rock’n’Roll con il sound tipico delle baracconate da Luna Park. Come dichiarato pubblicamente più volte dal musicista, è un effetto del tutto voluto per non prendersi troppo sul serio e uscire dalle considerazioni e dall’ascolto della musica troppo accademici che allontanano il grande pubblico e insteriliscono l’ispirazione.

Come si diceva una volta: anche un bel suono “ignorante” ha il suo bell’effetto e sia detto con il massimo rispetto. Anche perchè suonare l’hard rock con il sax tenore è il sogno di qualunque ragazzino che imbocchi un’ancia. Il rischio che Bearzatti sa schivare benissimo è l’effetto “Fausto Papetti” altoista di indubbia fama, ma anche dalle linee melodiche decisamente insostenibili.

Decostruire i brani degli Zeppys può sembrare un’operazione banale e perfino grossolana anche perchè già fatto altre milioni di volte da musicisti di ogni latitudine, ma quando si suona su un palco sostenuto letteralmente da pallet per le casse di vino con intorno diverse centinaia di ettolitri di mosti vari e davanti ad un pubblico caldissimo non si può davvero volere altro di meglio.

In questo senso è stato come sempre egregio il supporto solido, ispido e a tratti perfino piacevolmente rozzo di Danilo Gallo, fedele compagno di tante avventure del sassofonista, con il suo Vox Cougar semi hollow, anni ’70, dal suono particolarissimo per metà acustico e per metà elettrico.

Per riarrangiare certi brani bisogna essere davvero autentici geni come per esempio Roger Waters con il suo Dark Side of the Moon, oppure osare dove nemmeno gli stessi autori si arrischiano più. Il progetto di Bearzatti ci prova con la consapevolezza di chi osa perdere o che sa lanciarsi da un ponte attaccato ad un elastico come i pazzi del Bungee Jumping di Solkan in Slovenia a pochi chilometri dalla cantina; ci vuole un bel coraggio, ma l’adrenalina è assicurata.

Davvero temeraria, in questo senso, l’esecuzione di Stairway to Heaven che perfino Robert Plant canta solo in occasioni molto speciali circa ogni 20 anni.

Durante il solo conclusivo dell’ottimo batterista Tamborrino, secco, legnoso e metallico come non mai, capace anche di ottime vocalità (Whole lotta love) Bearzatti sorseggiava un “taglio” di bianco con gran gusto e soddisfazione ed è quello che volevano fare volentieri tutti gli scatenati presenti sentendoli suonare, anche perchè si era fatta una “certa” e l’atmosfera carica dei tannini della fermentazione stimolava la papille gustative alla salivazione incontrollata; per fortuna i generosi ospiti della cantina Gradi’sciutta hanno soccorso gli assetati con degustazioni della loro profumata ambrosia.

Al festival la corazzata degli Area ha celebrato degnamente il cinquantenario del loro “L’Abbattimento dello Zeppelin” tuonando ancora efficaci bordate; nel caso di Bearzatti il colpo è stato sparato pacificamente a salve con grandissimo divertimento del pubblico delle Cantine che “è sempre il migliore!” E allora: Prosit!

Cormons, 29/10/2023 – Circolo Controtempo – Jazz&Wine of Peace 2023 – PAOLO FRESU & OMAR SOSA “FOOD” (Italy, Cuba)
Paolo Fresu: tromba, flicorno, elettronica
Omar Sosa: pianoforte, elettronica
Foto Luca A. d’Agostino / Phocus Agency © 2023

Paolo Fresu & Omar Sosa “Food”

Spiace dirlo ma nonostante il clamoroso successo di pubblico, il tutto esaurito e le acclamazioni finali al teatro comunale di Cormòns, di emozioni autentiche durante l’esibizione di questi due fuoriclasse della musica, se ne sono viste e ascoltate “pochine”.

Tutto è sembrato molto banale e televisivo a partire dalle luci i cui fari puntavano su pentole e padelle disposte sul proscenio proiettando bizzarri riflessi sulle pareti del teatro. Se si permette una similitudine, il concerto è stato vuoto come tutte quelle pentole con qualche luce qua e là. Il diavolo fa le pentole e a noi spetterebbe pensare ai coperchi, ma spesso ce ne dimentichiamo.

Il trombettista si è limitato a soffiare note languide e circolari nei suoi strumenti, sempre lirico, zuccheroso e di tanto in tanto sdolcinato e stucchevole.

In alcuni momenti, naturalmente, Fresu, da grandissimo musicista qual è, ha saputo dare il meglio di se anche con la tecnica della respirazione circolare e anche con piccoli gesti molto evocativi, come tenere il tempo battendo con l’anello sull’ottone della tromba.

Sosa non ha risparmiato ritmi indiavolati afrocubani restando però sempre nei limiti di un’innocua world music atmosferica e ambientale caricata di voci “naturali” registrate e mixate per l’occasione. Il pianista cubano ha saputo però essere anche incontenibile con la sua verve come un fiume in piena, in un continuo carnevale di variazioni alla tastiera, incoraggiando il battimani e i vocalizzi del pubblico, ballando scatenato in giro per il palcoscenico e perfino battendo il ritmo sul pentolame di scena.

Vari omaggi sono stati tributati a colleghi musicisti come Peter Gabriel, con un’ispirata anche se didascalica cover di “What Lies Ahead” e Fabrizio De André con “Â çimma” con i due che suonavano sulla voce registrata del figlio Cristiano, un po’ discutibile come scelta, ma ormai non ci si scandalizza più di niente e si riesuma di tutto.

Non è la prima volta che Fresu sembra sprecare il suo immenso talento in progetti “alimentari” nel senso che dava al termine Luis Bunuel quando si riferiva ai film che di tanto in tanto era costretto a fare per pagare le bollette o per mettere qualcosa in tavola per la propria famiglia.

Il trombettista sardo non ha certo problemi economici, ma ugualmente non di rado si presta a operazioni commerciali di livello non eccelso nel quale sembra lavori a mezzo servizio, impiegando il proprio talento con il “freno tirato”. Probabilmente, la causa è nella sua sovraesposizione e nei moltissimi progetti nei quali si lascia coinvolgere da vero stakanovista del palcoscenico e della sala d’incisione. Medesimo discorso per il grande pianista cubano dotato di altrettanto immenso talento che non si risparmia dal gigioneggiare fino a sembrare la sinistra caricatura di se stesso.

Entrambi sono degli ottimi istrioni e navigati intrattenitori; nel corso degli anni hanno dato prova di sensibilità uniche che gli hanno fruttato una giusta guadagnata visibilità anche commerciale a livello internazionale che gli potrebbe tranquillamente garantire tutto l’agio di esprimersi al meglio anche perchè come si sa la fama è transitoria e il mondo è grande, “Ars longa, vita brevis”.

Davvero meritevole, in ogni caso, l’intenzione di coniugare la musica con progetti sociali come il sostegno al “banco alimentare” e “SOS mediterranee”. Tutto assume un altro aspetto ed ogni critica è vana, se assumiamo lo scopo del concerto come quello di difendere “ il principio del rispetto degli esseri umani e della loro dignità, senza distinzioni in base a nazionalità, identità etnica, credo religioso, appartenenza sociale o politica” prestando soccorso in mare oppure ridistribuendo a chi ne ha bisogno tutto il cibo che giornalmente sprechiamo.

Il festival di Cormòns per fortuna non ha una classifica, nessuno tra i partecipanti arriva secondo, ogni performance taglia per prima il traguardo. A vincere è sempre e solo la passione per la musica e la felicità del pubblico.

Un saluto e alla prossima edizione sperando che nel frattempo la Pace possa trionfare e si possa ritornare serenamente a brindare in Jazz.

© Flaviano Bosco – instArt 2023