© Foto Davide Carrer

Somewhere dei Danse Society è un brano che rappresenta benissimo un genere, la dark wave, molto in auge nell’anno in cui fu pubblicato (1982). Una batteria in controtempo irrompe dopo una brevissima intro, assieme ad una chitarra che ricama un riff ipnotico per tutta la durata del brano. Quando un basso scuola Joy Division si fa strada, il cantante Steve Rawlings declama testi che si possono riassumere nella strofa “… now i’ve found everything, the eye and the tear”, dopo la quale una suggestiva tastiera impreziosisce e permea il brano. Tipico brano eighties, in heavy rotation sul mio hi fi all’epoca, che assieme agli altri rappresentava l’esprit del tempo. I Danse Society pubblicarono altri singoli ed EP oltre ad un’eccellente album (Heaven is waiting del 1984), dopo il quale perderanno lo stato di grazia degli esordi. Questo ed altri brani più o meno oscuri hanno fatto da preludio ai concerti di Sexto ‘Nplugged di venerdì 6 agosto, nello spazio Sexto Lounge di fronte al chioschetto di piazzetta Burovich curato da Eva Poles. Un bel biglietto da visita ed un piacevole ascolto che ha riporta al passato gli astanti che ascoltavano tempo fa determinati generi musicali: post punk, dark, synth pop, shoegaze ed altro. Questo piacevole aperitivo ha stimolato un appetito musicale saziato inizialmente dai veronesi You, Nothing, giovane quartetto folgorato sulla via di Damasco da certi suoni britannici tra shoegaze ed indie rock anni ottanta. Sul comodino hanno le foto di Slowdive, Cocteau Twins e My Bloody Valentine (tra gli altri), omaggiati nel loro set con una freschezza ed un piglio veramente personali. Sul palco vuoto appare il chitarrista Federico che lavora sulla pedaliera producendo effetti noise e saturazioni che introducono il resto della band: la cantante/chitarrista Gioia che col suo caschetto biondo pare un incrocio tra Rachel Goswell e Debbie Harry e la impeccabile sezione ritmica formata dalla bassista Giulia e dal batterista Nicola. La frontwoman conduce le danze passando dai toni eterei di marca shoeagaze a ritmi più energici e sostenuti. Nonostante la giovane età sono molto compatti e precisi, creano un notevole muro del suono che copre/accompagna le melodie grazie al lavoro sugli effetti del chitarrista ed al drumming a tratti indemoniato del batterista, mentre la bassista fa un prezioso lavoro di raccordo. Tutto questo senza cadere nei manierismi e nelle stucchevolezze di certo dream pop. Una bella sorpresa, superiore a quello scadente luogo comune del rock che sono i coevi Maneskin, visto che senza pose e mossette riescono ad essere energici e melodici allo stesso tempo. Ragazzi, contattate Robin Gurhrie o Kevin Shields, se non l’avete già fatto. Non Manuel Agnelli.

Stesso spirito anima i britannici House of Love, per quale motivo, se no, uno come Guy Chadwick (deus ex machina del gruppo) si dovrebbe presentare di fronte ad un pubblico poco numeroso come quello della serata agostana di Sesto al Reghena, con tutto il peso dei suoi 65 anni (portati non benissimo), vestendosi peraltro con una camicia di dubbio gusto? Volevano essere i nuovi Smiths, con i quali condividevano la capacità di scrivere canzoni di tre minuti irresistibili, anche sei i modelli di riferimento erano diversi: all’accoppiata Byrds / Oscar Wilde del gruppo di Marr e Morissey, il cantante Guy Chadwick opponeva i Velvet Underground del terzo album (senza averne la cattiveria però) e una maggiore attitudine alle caramelle psichedeliche del pop inglese della seconda metà degli Ottanta. La loro vena dopo i due primi eccellenti album si è inaridita, anche se ultimamente sono usciti alcuni album con il solo Chadwick al timone rispetto alla formazione originaria. Non riuscirono ad avere un successo planetario, ma costruirono un solido culto che resiste tuttora. Il concerto parte col botto con Road, che si sviluppa su territori velvetiani, seguita dalla trascinante Christine (ripresa in un bis da pilota automatico), per poi affidarsi alle dolcezze di Hope. Tutte e tre canzoni tratte dallo splendido album di debutto. Si nota subito che la voce non è più quella di una volta, mentre il resto del gruppo sembra far fatica ad entrare nel mood dei brani meno recenti. Sarà un problema di amalgama o forse il pur bravo chitarrista non ha il tocco “narcotico” che aveva il predecessore Terry Bickers? Per questo motivo i brani più attuali non stonano rispetto a quelli più datati: si perde in poesia ma si guadagna in energia. Laughter and the Honey e, specialmente, Sweet Loser, definiscono il nuovo corso della “casa” di Chadwick: suoni più robusti e grintosi, sorretti però dalla classe del cantante/chitarrista e dalla sua capacità di costruire canzoni convincenti. Si arriva quindi alla fine in un’altalena tra vecchi classici (l’immancabile Shine On, la delicata Beatles and the Stones, la suadente The Girl with the Loneliest Eyes) e nuovi brani, fino a che, prima del dispensabile bis, Chadwick canta (e si chiede) I don’t know why i love you. Ma la risposta noi la conosciamo Guy, non eri tu che scrivevi “Your heart is perfect, my love is real”?

© Daniele Paolitti per instArt

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