Penultima serata del trentennale della manifestazione tra Udine e Grado con ospiti davvero straordinari, salutati dal pubblico delle grandi occasioni, per una serata di musica pienamente all’altezza delle aspettative.
Paolo Fresu è un grande amico di Udine Jazz e del Friuli Venezia Giulia, negli ultimi cinque lustri si è esibito con assoluta continuità sui nostri palcoscenici con ogni sorta di progetto musicale dimostrando tutta la sua creatività e la sua voglia di sperimentare sempre e comunque nuove formazioni, oltrepassando nuovi confini in musica. La sua etichetta discografica registra negli studi di Artesuono di Stefano Amerio, gloria cristallina del nostro Friuli.
Proprio la scorsa edizione di Grado Jazz aveva accolto ancora calorosamente il trombettista sardo con il suo coinvolgente omaggio a Chet Baker, in uno spettacolo intenso, vibrante e in qualche modo nostalgico. Sul filo dei ricordi ritorna, anche quest’anno, proponendo la ristampa di un lavoro del suo vecchio gruppo di amici musicisti con i quali formò il suo straordinario quintetto nel 1984 che è ancora vivo e super-attivo: Wanderlust del 1997.
Esiste perfino una sindrome che prende il nome da quel desiderio indefinibile dell’altrove che ogni tanto ci prende e ci spinge ad andare oltre ogni ragione e razionalità: “La Wanderllust indica il desiderio di andare altrove, oltre il proprio mondo, di cercare qualcos’altro: un desiderio di esotismo, di scoperta di viaggio. Può riflettere un’intensa voglia di autosviluppo personale attraverso la scoperta dell’ignoto, affrontando sfide impreviste e conoscendo culture e stili di vite sconosciuti. Può essere guidato anche dal desiderio di fuggire e lasciarsi dietro sentimenti depressivi di colpa”.
Chissà cosa deve avere pensato Fresu con il suo quintetto quando, quasi per caso, tanti anni fa, trovandosi in tour a Liegi, gli venne proposto di incidere, nel giro di un pomeriggio, in un’unica session di prove, un album che documentasse i tanti live di quella stagione con l’aggiunta del giovane sassofonista belga Erwin Vann.
Nessuna alternative take, tutto buono alla prima, un vero e proprio live studio album con tutta la sua carica d’improvvisazione e la sua magia. Dice scherzando, ma non troppo, il trombettista che, in quell’occasione, per chi sbagliava gli attacchi o faceva qualche errore era prevista una multa: doveva pagare la cena a tutti gli altri musicisti e, visto che sono tutti grandi mangiatori e bevitori di buon sorso, c’era davvero poco da ridere a steccare.
Così nacque Wanderlust pubblicato nel 1997 che consacrò la fama europea di Fresu e del suo quintetto che fino ad ora ha all’attivo una trentina di incisioni e una straordinaria ultra-trentennale carriera di concerti.
Il desiderio di riproporre e rivisitare quella lontana incisione, sottolinea la volontà della band di rinsaldare i legami con il proprio passato ma anche di rilanciare una nuova stagione di vagabondaggi musicali che nessuno può sapere, nemmeno loro, dove li condurrà.
Ma ritorniamocene per un attimo all’atmosfera dell’Isola d’oro.
Poco prima dell’imbrunire, in largo Pier Paolo Pasolini, sulla diga frangiflutti di Grado, guardando verso la marina, dava miracoloso spettacolo di se l’alta luna di queste afose serate d’estate. Alcuni neri cormorani, appollaiati su una briccola, sembravano perfino guardarla prima di tuffarsi a capofitto “In cerca di cibo” come in quel famoso disco di Gianni Coscia e Gianluigi Trovesi (1999) che, nonostante i tanti anni passati, regala sempre meravigliose emozioni.
Proprio in quegli anni, come dicevamo, furoreggiava un giovane trombettista sardo che, con i suoi valenti compagni di viaggio, contendeva la corona ad un altro fantastico italiano come Enrico Rava, tanto per restare in tema di grandi Maestri. In poche parole, Cavalieri che fecero l’Impresa segnando da allora capitoli fondamentali della storia del Jazz italiano ed europeo.
Fresu che ormai non è più solo, come allora, una promessa e una rivelazione, ma una solida certezza nel panorama jazzistico internazionale, ha deciso di riprendere le fila di quel progetto lontano che non si era per niente esaurito ma che forse era rimasto come sospeso.
Come ha detto lo speaker di Rai-Stereonotte, Max De Tomassi, presentando gli artisti, Grado Jazz, che in queste serate ha garantito proposte musicali di straordinario livello artistico, ha reso possibile, ancora una volta, il sogno di un viaggio nel patrimonio del jazz italiano che ha ancora tanti luoghi da scoprire ed esplorare prima che questo inseguire sempre, inseguire ancora ci porti fino ai laghi bianchi del silenzio come diceva il poeta.
Un qualche piccolo disturbo veniva dal minigolf a fianco della splendida arena Parco delle Rose nella quale stava per iniziare il concerto; alcuni bambini che strillavano e si divertivano da matti con mazze e palline, sembravano il preludio ad una musica che si è dimostrata fin da subito graffiante e veloce con il flicorno di Fresu a farla da padrone. La memoria dei più andava immediatamente alle sperimentazioni e alle dinamiche del Miles Davis Quintet, ma è solo la nostalgia di certi vecchi enobarbi della musica afroamericana come lo scrivente, che a volte gioca brutti scherzi.
A sparigliare le carte, anche se solo fino ad un certo punto, l’inserimento nel rodato ensemble, del giovane trombonista Filippo Vignato che ha regalato al sound una profondità e un colore scuro del tutto originale, al quale ha giovato parecchio, naturalmente, anche il gran lavoro d’ancia del sassofonista Tino Tracanna impegnato alternativamente al tenore e al soprano.
Il trombone tenore in cui soffia le sue note Vignato, è uno strumento particolarmente versatile che è stato fondamentale nell’evoluzione della musica d’origine afroamericana, da Kid Ory a J.J.Johnson fino ai radicali rivoluzionari come Albert Mangelsdorff, Paul Rutherford e Guenter Christmann ma la lista è ancora lunghissima e non si finirebbe mai di dimenticare qualcuno che ha dato nuova vita a questo labiofono che vede la sua remota origine nelle orchestre barocche e ancora prima negli affreschi medievali di basiliche e cattedrali e altro ancora.
Per l’Italia il decano e sperimentatore assoluto dello strumento è il romano Giancarlo Schiaffini che, tanto per capirsi, si è formato come allievo diretto di maestri come Karlheinz Stockausen, Georgy Ligeti, John Cage, Luigi Nono ecc. per poi impegnarsi nell’avanguardia più estrema e nel free jazz.
La recente carriera di Vignato, nato nel 1987, quando il quintetto di Fresu era già attivo da un paio d’anni, fa prevedere un luminoso futuro per lui e per noi che avremo il grande piacere di poterlo ascoltare ancora chissà quante altre volte.
Il trombone sembrava ultimamente distante dai gusti del grande pubblico, di certo è meno addomesticabile di tanti altri, i suoni che emette perdono quasi di senso se trattati in digitale, anche se giovani splendidi musicisti come Vignato dimostrano che è possibile; le note che escono dalla sua campana dorata, rimangono irrimediabilmente acustiche e fedeli a se stesse. E’ uno strumento che pretende molto amore ma che è in grado di restituirne altrettanto, con i suoi toni grevi e la sua voce brontolona ma in fondo rassicurante e soprattutto onesta.
Dopo alcuni brani tratti da Re-Wanderlust (Geremeas, Touch her soft lips) Fresu prende la parola per esprimere la grande felicità di tornare a suonare davanti al suo pubblico, la musica, afferma, è in grado di superare ogni distanziamento sociale ma guardarsi negli occhi è di certo meglio che suonare davanti alla fredda pupilla da rettile meccanico di una web cam.
Nell’introdurre il brano successivo (Trunca e peltunta) spiegandone l’origine, non ha resistito al racconto di uno dei suoi soliti aneddoti del tutto estemporanei che sembrano quasi i non-sense dei film dei fratelli Coen. Così ha raccontato del padre, allevatore di pecore in Sardegna, che per marchiare le proprie pecore ne incideva le orecchie con un affilato coltello e con la pinza che si utilizza per fare i fori nelle cinture di pelle; Fresu ha insistito volutamente sui particolari più cruenti tanto che alcuni tra il pubblico ne erano rimasti visivamente turbati.
La musica che è seguita però ha spazzato via in un attimo ogni perplessità, anche questa volta i fiati del ricostituito sestetto sono stati in primo piano con il loro intercalare d’assolo e d’insieme.
La ritmica discreta e puntuale del contrabbasso di Attilio Zanchi, ha però garantito quell’atmosfera sorniona e felina che fa di quello strumento panciuto con la voce di temporale, un elemento insostituibile di un jazz che voglia ancora dirsi classico e mainstream come quello proposto da Fresu e compagnia che, in modo disinvolto e mai accademico, ricapitola una storia lunga quarant’anni.
Altro brano altra corsa, Simplicity dell’ombroso e lunare Tino Tracanna. Infatti, anche qui predominano le tonalità scure e le saracinesche abbassate. Stupende emozioni vengono dalle tastiere analogiche Fender Rhodes di Roberto Cipelli, ottimo anche al piano, che non rifugge da uno dei maggiori trend della musica colta di oggi interessata da una nuova ventata di organ madness che ha riportato di nuovo alla ribalta gli avvolgenti suoni delle valvole e dei nastri. Naturalmente, oggi è tutto elettronico e tutto risulta più gestibile da un punto di vista tecnico-esecutivo, ma il fascino di quei suoni rimane intatto: umido, avvolgente, saturo e salmastro proprio come una serata in riva al mare.
I bambini del Minigolf continuavano a farsi sentire, di tanto in tanto, con i loro strilli gioiosi e giocosi che sono risultati piacevolissimi come sottofondo al brano Favole di Ettore Fioravanti, batterista del gruppo.
In fondo, è vero che le favole sono state tutte per loro; dolci, morbide, leggere e vaporose come nuvole che consolano e cullano. Anche se non abbiamo il coraggio di ammetterlo perché siamo adulti incanagliti e imbolsiti, abbiamo tutti bisogno, di tanto in tanto, di una carezza e di qualcosa che rassicuri il fanciullino dentro di noi.
In questo senso, certo jazz ha la funzione di rassicurarci, raccontandoci in musica fantasiose storie sul filo delle note che ci aiutano ad assopirci e a farci una ragione di tutto quello che non ci riesce o che ci sfugge. Così possiamo in tranquillità appoggiare la testa al cuscino, chiudere gli occhi e lasciare correre la ruota.
Come diceva Lennon: “I’m just sitting here watching the wheels go round and round/ I really love to watch them roll/No longer riding on the merry-go-round/I just had to let it go”.
Alla fine del brano Fresu, emettendo una singola lunghissima nota con la respirazione circolare, ha sbalordito e lasciato senza fiato il pubblico, come è solito fare ad ogni concerto, con 3-4 minuti di suono ininterrotto, una cosa sempre impressionante, da Guinnes dei primati. Non favole ma solite realtà…inarrivabile.
Con il pubblico ancora esterrefatto, si è ripartiti subito, come niente fosse, con un brano in cui Fresu è stato libero di esprimere tutto il virtuosismo verticalizzante di cui è capace. Piegato sul suo flicorno, ha spinto e pestato sull’acceleratore delle sue labbra, trascinando con se il sax tenore di Tracanna, di per se pensoso e meditativo, al quale a propria volta, ha risposto il contrabbasso di cui già si è detto, per un giro, molto applaudito, sull’otto-volante delle sue quattro sole, grosse corde.
E’ seguita Ballade di Filippo Vignato che Fresu ha costretto ad ammettere d’aver scritto proprio per quella serie di esibizioni, anche se mentiva sapendo di mentire. Da buon trombonista ha trasformato l’atmosfera generale in qualcosa di più fitto ed intricato e allo stesso tempo quasi indefinito e pericoloso, dentro al quale ci si è trovati tutti un po’ persi e un po’ bene e a proprio disagio, in un’oscurità casalinga e ovattata, come in una jungla tra salotto e tinello, come una giornata intera passata in casa, in pigiama e ciabatte a guardare dalla finestra senza vedere niente e capendoci ancora meno, come tante ce ne sono state durante questa quarantena ( Io sto bene, io sto male, io non so cosa fare)
Intanto, il solito magnifico Fresu continuava a stupire il pubblico con alcuni brevi effetti elettronici applicati al suo flicorno, aumentando ancora d’intensità la sensazione di piacevole straniamento e abbandono.
E’ stato un rapido, quasi brusco risveglio multistrumentale, nella parte finale del brano piacevolmente sghembo e distorto come un momentaneo scatto d’ira che si trasforma in un brontolio, a lasciare tutti muti e un po’ sbigottiti.
Qualche colpo sul rullante, una risata e si è ripartiti di nuovo e ancora sull’autostrada dei ricordi di quello che sembrava ed era quasi hard-bop.
E’ stato splendido, a questo punto, il dialogo tra Fresu e il batterista, emotivo e spontaneo, tanto da perdere la presa, per un attimo, su una bacchetta che gli è volata via come spesso succede ai veri professionisti.
E’ stata proprio questa, lievissima imperfezione, recuperata per altro con un gesto ginnico senza perdere nemmeno una battuta, a dimostrare il cuore e l’emozione di quel percussionista tutt’altro che arido e meccanico come tanti suoi colleghi che credono sia davvero necessario essere sempre in competizione con le drum machines, che certo sono efficacissime e piacevoli, ma che non hanno cuore e mai l’avranno.
Dopo un ultimo brano di Zanchi che ha lavorato su cinque temi in mashup del passato del gruppo, è arrivato anche il meritato bis dedicato, almeno nelle intenzioni, a Miles Davis. Il grande trombettista per tutta la sera ci ha guardato dall’alto da dove continua ad aspettarci da un po’, dall’altra parte della luna, quella sempre scura che nemmeno i cormorani, di cui parlavamo più sopra, riescono a scorgere o intuire.
Certo tutte iperboli, metafore, discorsi apparentemente insensati, farneticazioni, sussurri, grida, scriteriate provocazioni, ma, in fondo, la musica che cos’è se non bellezza, follia e il suono di una mano sola che, applaudendo, diventa fragore e folla.
Bravo Fresu, Bravi tutti, un’altra medaglia d’oro al valor musicale da appuntare sul glorioso stendardo di Grado Jazz.
Ancora qualche riga doverosa sul disco originario e la sua rivisitazione. Sulla copertina dell’album Wanderlust di tanti anni fa, campeggiavano oltre il volto di un giovanissimo Fresu anche una serie di pensieri del trombettista scritti in lingua sarda che, per semplicità e amor di patria, riportiamo in italiano come giusta conclusione di queste righe:
“Non so cosa mi succede quando arrivo in questi luoghi di sera. Così stanco, qualche volta, che non so neanche dove sono e dove ero…quando sono ancora in alto e si intravvedono le prime luci della costa…Possiamo essere ovunque…mi dico, e meditando i pensieri seguono la loro corsa verso l’alto dei luoghi che non appartengono a nessuno ma sono del cuore e della notte profonda. Quando poi i miei passi accarezzano la terra, il profumo dell’aria e dei fiori mi sveglia e mi sussurra: Benvenuto! Sei arrivato a casa…”
Mi ergo allora come nuovo per incanto e mi riconosco dentro ai ricordi che mi portano lontano, alla mia campagna e ai miei cari, con suoni che conosco più di ogni altra cosa, meglio della Musica che faccio e che mi porta lontano. Allora sono contento, perché parlo con questa terra e solo io conosco, come per un mistero o per un patto segnato in tempo antico. “…Ritornerò a morire qui…spero…” mi dico, e stò già pensando a quando potrò ripartire un’altra volta”.
Wanderlust!
© Flaviano Bosco per instArt