Bertold Brecht scriveva nel suo Vita di Galileo: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Stando ai film del Feff 23, soprattutto ai Blockbuster della Repubblica Popolare Cinese, viviamo in un mondo particolarmente sfortunato nel quale ci vengono proposti modelli comportamentali e sociali tutto sacrificio, sangue, sudore e morte.

Sembrerebbe di vivere in tempi omerici nei quali l’unico vero ideale era sacrificare la propria gioventù sul campo di battaglia. Se ci soffermiamo sulle parole che sono state utilizzate, perfino le corsie degli ospedali durante questa epidemia sono state descritte in questo modo. I pazienti sono diventati guerrieri che combattono la loro battaglia contro il nemico-virus; gli infermieri sono eroi instancabili, i medici sono i comandanti delle loro truppe sul fronte dell’epidemia, il Coronavirus assedia le nostre città. Queste sono solo alcune particolari locuzioni e metafore tratte dai media, sappiamo bene che “chi parla male, pensa male”.

Ogni tanto ci illudiamo che il secolo breve delle Guerre Mondiali sia finito portando con se i propri orrori ma ci sbagliamo di grosso; quel groviglio di filo spinato e catastrofi geopolitiche e sociali a livello planetario è ancora presente e condizionerà ancora chissà per quanto tempo il nostro immaginario e la nostra esistenza quotidiana.

Non è necessario soffermarsi sulle polemiche e sugli attacchi strumentali e ideologici cui è stata sottoposta la Repubblica Popolare Cinese durante questi due anni di Covid 19 dalla ridicola questione delle zuppe di pipistrello fino ai fantasiosi esperimenti di guerra batteriologica nei laboratori di Wuan. La Cina, naturalmente, ha risposto agli attacchi non solo diplomatici, indurendo e incrudelendo le proprie politiche sui diritti civili e mostrando i muscoli del suo formidabile esercito. Gli avversari sono sempre gli stessi, da una parte il Giappone con la questione dei confini che passa da alcune isole contese, dall’altra gli Stati Uniti che spesso fanno la voce grossa da spacconi, mentre nascondono una grande fragilità da adolescenti piagnucolosi. Tutto ciò traspare nei film della rassegna.

800 eroi di Guan Hu (China 2020, 147’min) Un autentico Kolossal tutto maiuscolo della cinematografia cinese contemporanea e mondiale. C’è poco da discutere, questo film supera di gran lunga la magniloquenza di qualunque film sulla Seconda Guerra Mondiale realizzati in Occidente. Vengono staccati di almeno un’incollatura anche i più blasonati “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg, “Dunkirk” di Nolan, “Il nemico alle porte” di Jean Jacques Annaud. Quest’ultimo ha forse qualcosa in comune per quanto riguarda l’ambientazione e la scenografia ma comunque non tiene il confronto dal punto di vista della rappresentazione e della complessità dell’azione.

Naturalmente, per quanto pervasa da un afflato patriottico, anche questa pellicola è incappata nella censura che ha tagliato una dozzina di minuti; quello che resta ci racconta della Shangai assediata dai giapponesi nel 1937, spaccata in due dal fiume, da una parte le concessioni delle colonie occidentali, abitate sia da europei sia da cinesi che ne condividono gli agi, che continuano a vivere nella ricchezza e nello svago, dall’altra la città cinese completamente distrutta dai bombardamenti.

Unico baluardo di resistenza il magazzino Sihang, un lugubre enorme edificio che si affaccia sul fiume. Al suo interno 420 soldati pronti a tutto (800 per la propaganda) hanno ricevuto l’ordine di resistere ad ogni costo rallentando l’avanzata irrefrenabile dell’esercito giapponese. La trovata geniale del film che corrisponde a verità storica è l’iniziale indifferenza della gente della concessione che assiste ai combattimenti dall’altra parte del fiume continuando a gozzovigliare e a vivere come se nulla fosse. Com’è inevitabile, durante lo svolgimento del film, si assiste ad un radicale cambiamento d’atteggiamento e a una presa di coscienza; davanti agli eroi che si sacrificano per la patria, risorge nei cuori lo spirito nazionale e quello anti-giapponese.

Nel finale è chiaro che tutti si uniranno per respingere il nemico invasore. Durante tutta la pellicola sono chiare ed evidenti le allusioni al mondo contemporaneo con gli americani che tramano e scommettono sulla caduta degli eroi. La rappresentazione degli ambienti è sontuosa con una ricostruzione storica accuratissima; notevoli, anche i costumi e l’azione. Spontaneo e adeguato sembra l’accostamento ad un altro capolavoro del cinema occidentale: “L’impero del sole” di Steven Spielberg tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di James Ballard che racconta i fatti successivi ai combattimenti del magazzino Sihang quando, vinta la resistenza “di quei pochi, felici pochi” e dopo l’inizio della Seconda Guerra mondiale, i giapponesi nel 1941 invasero anche la parte di città abitata dagli occidentali. Visti in sequenza i due film forniscono la visione degli eventi dall’una e dall’altra parte del fiume della storia.

Le guerre vennero presto a Shangai, succedendosi l’una l’altra al modo delle maree che rimontavano rapide lo Yangtze e restituivano alla sfarzosa città tutte le bare affidate alle acque dei moli funerari del Bund cinese. Jim aveva cominciato a sognare di guerre” così inizia il romanzo di Ballard e così terminiamo la recensione del film.

Limbo di Soi Cheang (Hong Kong 2021, 118’ min) Visivamente meraviglioso e disturbante, in un bianco e nero livido, è un thriller barocco, scuro, claustrofobico, sporco e cattivo, senza dubbio ispirato al cinema di Sin’ya Tsukamoto e segnatamente a Tetsuo (1989) e Snake of June (2002).

Adattato da un romanzo cinese omonimo di Lei Mi, è per stessa dichiarazione del regista una cruda rappresentazione del mondo contemporaneo che tanto somiglia all’anticamera dell’inferno per quanto siamo tutti contaminati, degradati e corrotti, fisicamente ma soprattutto moralmente.

Le nostre città verticali nascondono orrendi bassifondi ed altrettanto squallide periferie nei quali sopravvivono esseri umani che sono solo l’ombra di se stessi; emarginati dalla società dei consumi, vivono di espedienti, droga, prostituzione, ruberie di vario tipo; le città orientali non sono diverse da quelle europee o nord americane. Soi Cheang però ha voluto esagerare fotografando la suburra di una città che assomiglia molto a Hong Kong ma che potrebbe essere una delle nostre, con un gusto macabro ed estetizzante quasi fuori registro che trasforma ogni inquadratura in una performance da videoartista Trash Art.

Il plot in realtà è molto semplice con tutti gli stereotipi del poliziottesco all’americana: uno sfuggente, crudele serial killer fa ritrovare mani sinistre di donna mozzate. Una serratissima indagine da parte dal solito poliziotto coriaceo e scafato e dal suo collega giovane e perfettino porta alla cattura e alla morte dell’omicida in pieno stile Buddy Movie con l’aggiunta dell’estremo sacrificio di uno dei due. Assolutamente niente di nuovo.

L’assassino è un barbone giapponese ossessionato dalla mano sinistra e con il labbro leporino; il poliziotto esperto è impulsivo, tarchiato e con il pizzetto vestito alla bell’e meglio; il novellino ha gli occhialini tondi, la camicia sempre stirata e lo sguardo da ragazzino, molto stereotipati anche i personaggi delle prostitute drogate e degli alti “papaveri” della polizia.

Il film, purtroppo, è del tutto privo di evidenti approfondimenti psicologici e tanto meno psicoanalitici. I personaggi sono tutti, davvero tutti, tagliati con il coltello. Il cattivo è proprio brutto e lercio tanto che un poliziotto lo riconosce dal fetore, il suo feticismo “di mano sinistra” deriva dal fatto che la mamma gli carezzava i capelli con quella mano. L’agente esperto è tormentato perché la moglie muore dopo essere stata investita da una ladra d’auto che, in seguito, diventa vittima dell’assassino barbone.

Nel rocambolesco finale, in un crescendo angosciante di ultraviolenza, tensione e combattimenti a badilate, la ladruncola finisce per sparare involontariamente al detective scambiandolo per il suo aguzzino che muore tra le braccia del collega più giovane. Condanna, Espiazione, Redenzione, Resurrezione potrebbero essere i termini per interpretare la trama del film, ma non è questo il punto. Il vero interesse del film non è di certo nei personaggi ma nell’ambiente nel quale sono inseriti. I bassifondi della città sono una discarica a cielo aperto e i nostri eroi sguazzano letteralmente tra i rifiuti, i liquami e le deiezioni della città alta; il regista sembra volerci dire che siamo solo rifiuti tra i rifiuti e che il mondo in cui viviamo è un enorme letamaio. Non ha tutti i torti.

Seobok di Lee Yong Zoo (Corea del Sud 2021, 114’ min). Un fumettone prolisso e adolescenziale con trovate che erano già fruste ai tempi della fantascienza della Golden Age degli anni ‘50. Funziona per chi non ne sappia niente della letteratura e del cinema di genere degli ultimi cento anni, per tutti gli altri è un pappone insipido e indigesto.

Veniamo ai fatti: i coreani, in un loro laboratorio segreto, hanno clonato il primo essere umano geneticamente modificato. L’esemplare, come viene spregiativamente chiamato, è immortale, il suo midollo spinale produce cellule staminali in grado di curare qualunque malattia. E’ stato progettato per essere una cavia da laboratorio come si dice nel film: “E’ come estrarre insulina da un maiale. Seobok non è umano” ma, inaspettatamente, il “suino” in forma di ragazzo sviluppa una coscienza del tutto umana. Vuole sapere cosa c’è fuori dalle mura del laboratorio nel quale è stato creato, che cos’è la morte e il dolore, proprio come ognuno di noi. I soliti terroristi se ne vogliono impossessare, e il solito doppio gioco viene smascherato dalla spalla del protagonista. Seobok è anche dotato di enormi poteri telecinetici con i quali si toglierà dagli impicci fermando proiettili a mezz’aria e distruggendo un esercito intero di mercenari con annessi blindati, prima del finale tragico e lacrimevole nel quale capisce che l’unica possibilità per lui di essere come tutti gli altri è quella di morire e tanti saluti. La catastrofe cinematografica era annunciata fin dalle prime sequenze del film e si è puntualmente verificata. Almeno in questo la pellicola non tradisce quello che promette.

In ogni caso, qualcosa da salvare c’è. Prima di tutto il livello tecnico delle riprese, della fotografia e degli effetti speciali che ormai anche nei B movie come questo non sono trascurabili e poi i riferimenti, fin dal titolo, alle antiche leggende asiatiche in quel delicato equilibrio tra la ricerca dell’immortalità e l’accettazione del nostro destino di effimeri transeunti. Sono, infatti, evidenti i rimandi all’antichissima storia di Xu Fu (Seobok per i coreani) mago di corte di un imperatore che viaggiò, in lungo e in largo, alla ricerca dell’elisir di lunga vita. Più nascosti sono invece i rimandi al canone buddista e alla vita di Siddhartha Gautama, il Buddha Sakyamuni.

Siddharta fino a ventinove anni visse “recluso” tra agi e ricchezze nella gabbia dorata del palazzo di suo padre che voleva preservarlo dalle brutture del mondo. In lui nacque il desiderio irrefrenabile di conoscere il mondo esterno. Varcate le porte del palazzo incontrò le brutture della realtà (vecchiaia, malattia, dolore, morte) che lo colpirono profondamente e lo costrinsero a cambiare il proprio stile di vita. Non sembri tirato per i capelli questo riferimento, nel film alcuni episodi sono correlati direttamente a quella tradizione tra filosofia e religione.

Ad un certo punto si scopre che sono i servizi segreti americani a volere morto il prodigioso essere clonato, un agente spiega anche perché: l’idea dell’immortalità e della possibilità di sconfiggere tutte le malattie destabilizzerebbe l’umanità che senza il vincolo della morte comincerebbe a desiderare cose insensate, senza un termine ogni cosa perderebbe significato e gli uomini non avrebbero più qualcosa in cui confidare e sperare. Salvare gli uomini in questo senso, significherebbe condannarli all’entropia. Come diceva quel tale: Non ci resta che piangere!

© Flaviano Bosco per instArt

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