Considerato il capolavoro teatrale di Pirandello -assieme ai “Sei personaggi in cerca d’autore”- “Enrico IV” è un testo magistrale che studia a fondo i temi più cari al grande drammaturgo: la pazzia, le maschere che l’uomo porta, la finzione e la verità.

La storia raccontata è notissima ma cercheremo comunque di tratteggiarla in breve: un uomo (il cui vero nome non viene mai svelato) cade da cavallo durante una cavalcata in costume in cui stava impersonando l’imperatore Enrico IV. Come conseguenza della botta ricevuta si convince di essere realmente il personaggio storico e da quel momento vive la propria vita chiuso nella sua villa e nella sua convinzione (pazzia, agli occhi degli altri), accudito da due finti servitori.

Questo finché Matilde (la donna di cui era innamorato prima della pazzia), Belcredi (l’attuale amante di Matilde), il nipote Di Nolli e la sua fidanzata Frida -figlia di Matilde e Belcredi- portano alla villa di Enrico IV uno psichiatra per cercare di fare rinsavire il paziente. Nel tentativo di risvegliare la sua coscienza tramite uno shock viene rimesso in scena il giorno della parata, con Frida a interpretare la madre. Lo shock avviene ma diversamente da come immaginato dallo psichiatra: Enrico IV svela infatti di essere già guarito da tempo, che la sua pazzia è durata 12 anni ma che al suo “risveglio” il mondo pareva non appartenergli più. Per tutti la vita era andata avanti ma quella che avevano vissuto non gli apparteneva: lui era ancora quell’uomo innamorato di Matilde, mentre ora lei era sposata con Belcredi, che -solo ora- Enrico IV ha compreso essere il sabotatore dietro alla sua caduta da cavallo, ordita per metterlo fuori gioco. In bilico tra la scomoda verità della sua guarigione e la fuga della finzione, Enrico IV preso da un attimo d’ira trafigge con una spada Belcredi e a quel punto decide che la sua finta pazzia continuerà e dovrà durare tutta la vita, ormai unico modo per sfuggire alla responsabilità dell’azione compiuta.

 

Dopo l’evocativa data al Teatro Manzoni di Milano (avvenuta il 22 febbraio 2022, esattamente cent’anni dopo la “prima” nello stesso teatro), il nuovo adattamento del dramma -per la regia di Luca De Fusco e con Eros Pagni nei panni di Enrivo IV- è finalmente approdata  al Politeama Rossetti. Occasione davvero molto attesa, sia per l’importanza del testo che per l’affetto che la città prova nei confronti di un attore magistrale come Pagni, già più volte ammirato e applaudito sul palco dello Stabile (basti pensare alla sua fantastica performance come Erode nella Salomé dello stesso De Fusco).

L’attesa era anche per le novità annunciate nell’adattamento, prima su tutte l’aver deciso di portare il testo a un atto unico (l’originale è in tre atti). Quindi chiediamocelo subito: il nuovo “format” funziona? Assolutamente sì. La minor durata rende maggiormente fruibile al pubblico un testo innegabilmente sfaccettato, complesso, complicato, ma senza togliere nulla alla drammaticità delle vicende, che rimangono chiare e non perdono nulla del loro senso nonostante l’inevitabile taglio di molte scene.

È scontato e inevitabile , in un’analisi più approfondita, partire da Eros Pagni. Per vari motivi: perché mai come nell’”Enrico IV” il ruolo principale è profondamente legato all’attore (Pirandello scrisse l’opera appositamente per uno degli attori più famosi della sua epoca, Ruggero Ruggeri); Perché Pagni è uno dei più straordinari mattatori che il teatro contemporaneo può annoverare; perché come lui stesso ha dichiarato “Enrico IV non lo interpreto, lo vivo”.

E si vede. Pagni è semplicemente magistrale per tutta la durata del dramma, con quella sua capacità di dare mille sfumature a un personaggio senza dover per forza calcare la mano e esagerare le emozioni: buon esempio è la scena finale in cui Enrico IV perde il controllo e sguaina la spada, in cui Pagni riesce a mostrare tutta la rabbia repressa dell’uomo pur rimanendo moderato nei gesti e solo modulando maggiormente le inflessioni vocali.

Mille sfumature, si diceva. E mai come nell’”Enrico IV” questo è fondamentale: in un gioco a molti livelli tra realtà e finzione può essere facile perdersi, eppure grazie a Pagni questo non accade. Un uomo che è guarito ma che recita la pazzia, e che in questa sua recita lancia qui e lì strali (principalmente alla sua amata di un tempo) per far intendere che forse forse nel suo essere matto c’è qualche crepa. E che -una volta svelata la sua guarigione- continua a recitare il proprio orgoglio di fronte a quella che ritiene la vera pazzia, quella del mondo. Innumerevoli livelli che Pagni fa intendere con grande maestria, passando da una recitazione più greve ad altre più surreali, a tratti quasi sopra le righe (quando Enrico IV vuole far capire che forse sta recitando); eppure senza mai perdere quel senso di sconfitta mista all’orgoglio di averla accettata, che fa da substrato a tutti i modi che Enrico IV ha di rapportarsi alla distanza che ormai sente tra sé e il mondo.

Ottima anche la prova di tutti gli altri attori sul palco, la cui unica pecca è quella di trovarsi al fianco di un Pagni che giganteggia dal primo all’ultimo minuto. Bravissima Anita Bartolucci nei panni di una Matilde altera che però mostra pian piano sempre più commozione e sempre più senso di colpa nei confronti del malato; così come è efficace Paolo Serra nel tratteggiare un Belcredi antipatico da subito ma che più si va avanti più risulta innervosito e stizzito, prodromo alla rivelazione del suo essere un po’ il “villain” e la causa delle sofferenza patite da Enrico IV. Un po’ più in ombra Alessando Balletta e Alessandra Pacifico Griffini (Di Nolli e Frida) ma semplicemente perché il testo riserva loro meno spazio: la Pacifico Griffini riesce comunque a trasmettere un senso da “bambina viziata” e insofferente che la associa molto più al padre Belcredi che alla colpa/pietà della madre. Molto divertente (in senso buono) la venatura data da Valerio Santoro al dottore che, partendo apparentemente da una sana voglia di aiutare il paziente, si incastra sempre più nell’interesse causatogli da quello che certamente ritiene un “case study” profondamente interessante.

Ottimi anche Gennaro Di Biase e Matteo Micheli nei panni dei due consiglieri, che appaiono subito come gli unici due veri “amici” di Enrico IV e verso cui si prova una certa irritazione nel momento in cui -primi a cui viene svelata la guarigione del paziente- non perdono un attimo per riportare la notizia a tutti gli altri.

Dal punto di vista registico non c’è davvero nulla da obiettare. Come già detto l’adattamento “svecchiante” funziona perfettamente e anche tutte le scelte di scena risultano moto azzeccate: dalle scenografia “minimal” (molto apprezzabile la decisione di mantenere i due quadri di Enrico IV e Matilde, importanti anche nel testo originale) ai movimenti degli attori anche quando non recitanti: particolarmente efficace l’introduzione con Enrico IV che “accende” con un lumino i volti degli altri, inizialmente immobili al buio come manichini, a intendere che la loro stessa esistenza ha senso quasi solo in rapporto al malato e al loro interessarsi a lui.

Più in generale, le luci sono in grado di sottolineare al meglio ogni momento dello spettacolo, sia nella loro presenza (ottima l’idea della Luna a cui Enrico IV si rivolge) che nella loro assenza per tutti i cambi scenografici che avvengono a scena aperta.

Si potrebbero dire ancora molte cose di questo Enrico IV ma cercheremo di riassumerle in un unico concetto: l’adattamento di De Fusco è la prova lampante che la prosa gode ancora di un’ottima vita, che può essere ancora attuale pur se resa più fruibile per i tempi e i modi della comunicazione dei nostri tempi. E che per fortuna esistono ancora maestri come Eros Pagni, capaci di prove d’attore maiuscole che sanno ancora emozionare, convincere, colpire nel profondo gli spettatori.

Luca Valenta /©Instart

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