Meritato, enorme successo di pubblico per un altro degli eventi estivi dell’estate friulana di Azalea promotion tutta grandi numeri.

Non poteva essere diversamente visto che si esibivano due giganti della musica italiana, autentici poeti con la chitarra e il pianoforte.

De Gregori e Venditti sono una coppia di quelli che una volta si chiamavano legittimamente “cantautori” ma che, dopo le recenti, sconcertanti dichiarazioni di Ivano Fossati sui giovani rapper nel docufilm “La nuova scuola genovese” di Yuri della Casa, non sappiamo più come definire.

In realtà, le definizioni lasciano il tempo che trovano e non sono nemmeno una questione così decisiva; siamo invecchiati con loro e ormai non ce ne importa più niente.

Siamo tutti cresciuti con le loro parole di giustizia, di libertà e con il pulsare della nostra povera Italia al motto di “La storia siamo noi” e ci ritroviamo, tutti insieme, a cantare un nostalgico greatest hits in un’afosa sera d’estate sull’orlo del baratro politico e finanziario, in una deriva socio-culturale che il nostro paese non vedeva dal tempo dei Lanzichenecchi.

Ascoltando e cantando a squarciagola le celeberrime canzoni che hanno fatto l’adolescenza di tanti italiani del secondo Dopoguerra, viene da pensare se era proprio necessario trasformare tanta storia e tante e mozioni in un baraccone nostalgico e zuccheroso strapaesano, certo di altissimo valore artistico e tecnico, godevolissimo ma ormai purtroppo svuotato d’ogni significato etico e morale.

Il valore e il talento dei due anziani artisti è del tutto indiscutibile, soprattutto sul piano della storia del costume italiano e della sua musica popolare. Resta da considerare l’aspetto più proprio relativo all’autentico significato dei testi delle loro canzoni nella nostra contemporaneità fluida.

Il percorso sembra mancare di una certa coerenza e i loro sani, integerrimi principi di gioventù appaiono esser stati barattati con una più concreta e remunerativa cognizione del mercato dello spettacolo fine a se stesso. Sarà che “gli anni passano, le mamme invecchiano e i figli crescono” ma l’operazione brutalmente revival, soprattutto dal poeta De Gregori, “uno non se lo aspetta”.

Nel giorno della scomparsa Vittorio De Scalzi, fondatore dei New Trolls e a pochi momenti da quella del linguista Luca Serianni, il concerto palmarino della coppia di poeti della canzone è cominciato, nientemeno che con le note celeberrime dell’overture di “Also Sprach Zarathustra” di Strauss, tanto per non farsi mancare niente e partire in bomba, come si dice.

Bomba o non bomba” è stato, infatti, il primo brano della serata con tanto di “polizia a cavallo, intellettuali con la faccia giusta” e tutto quanto il resto. A Roma i due ci sono arrivati almeno cinquant’anni fa, anzi è proprio da li che sono partiti con l’album “Theorius Campus” risultato della loro esperienza al Folkstudio e inciso insieme principalmente per abbassare i costi di produzione.

Fa davvero effetto vederli insieme sullo stesso palco tanti anni dopo a scambiarsi le canzoni. “La leva calcistica della classe ‘68” come secondo brano in scaletta, è un colpo basso dato a freddo di chi vuole vincere subito senza troppi tatticismi o attese. L’immaginario emotivo del nostro paese si è agglutinato attorno a quei versi, così come le terzine dantesche hanno scavato a cannonate la breccia di Porta Pia. Poche chiacchiere, la cultura italiana contemporanea sbaglia da sempre i calci di rigore ma non è mica “da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio dall’altruismo e dalla fantasia” Chissà se ce n’è rimasto un pizzico?

L’accenno a De Scalzi e Serianni, fatto più sopra non è per nulla casuale. Il primo era un testimone e protagonista della gloriosa stagione della musica italiana dei primi anni ‘70 nei quali la musica popolare si univa in modo originale e fecondo a quella “alta” di tradizione classica e operistica, fondendo il folk con la musica d’avanguardia e gli influssi della musica anglosassone e americana. E’ proprio da quel crogiolo e dalla generazione di De Scalzi, cui appartengono anche De Gregori e Venditti, che si generò quel certo modo di intendere la musica “cantautorale” che ancora ci affascina.

Luca Serianni, grandissimo studioso della lingua italiana, eccellente didatta e indimenticabile pedagogo, fu tra i primi a comprendere e difendere la nuova poesia italiana in forma di canzone e a darle dignità letteraria in ambito accademico, individuando il filo rosso che lega la nostra più antica e celebrata tradizione culturale da Dante a Pasolini con la canzone popolare contemporanea da Roberto Murolo al Rap.

Dal palco, Venditti, rivolgendosi al compagno di tante avventure, dice: “A Francè viè qua a vedè sta Palmanova!” E poi attacca un brano che ironicamente sembra scritto proprio per quel concerto: “Con le nostre famose facce idiote, eccoci qui. Con i nostri sorrisi tristi, a parlarci ancora di noi e non c’è niente da scoprire, niente da salvare nelle nostre parole.” Certo il cantautore quando la scrisse nel 1979 non pensava alla città stellata ma a “Modena” ma va bene ugualmente, sempre le stesse facce, con le medesime cose da dire da cinquant’anni ma con qualche migliaio di persone in più davanti che hanno ancora tanta voglia di ascoltarli. Non è poco.

De Gregori intona una storia di quando l’America era giovane e costruiva la sua frontiera ammazzando per rubare, per amore, per giocare o per essere la migliore, esattamente come fa ancora adesso. Nella canzone, a raccontare la solita fola è uno degli antichi eroi di quel paese, figlio di un guardiano di mucche e di una contadina; dice che, ad un certo punto, “Mi presentarono i miei cinquant’anni e un contratto per un circo Pace e Bene a girare l’Europa e firmai, col mio nome firmai, e il mio nome era Bufalo Bill.”

Quell’assassino di indiani e di bufali, il colonnello William Cody, venne anche in Italia con il suo enorme “carrozzone” che in realtà si spostava su 50 vagoni ferroviari con 800 figuranti e 500 cavalli. L’11 maggio 1906 si esibì anche a Udine in due spettacoli per un totale di 14000 spettatori, molti dei quali, in seguito, sarebbero stati costretti davvero “tra la vita e la morte a scegliere l’America” sulla strada dell’emigrazione.

E proprio per questo, spentesi le ultime note ci stava benissimo: “La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, siamo noi, Bella Ciao, che partiamo”. Sono parole chiare, illuminanti di chi ricorda ancora cos’erano gli italiani fino a pochi decenni fa, gli stessi che oggi sembrano aver perso la memoria o che girano la testa per far finta di essere da un altra parte quando si ammazza a mani nude per la strada un loro fratello con la pelle scura costretto a venire da lontano per un “piatto di grano”.

Chissà se uno di quelli si chiamava anche “Peppino” come quello della canzone di Venditti, pieno “di coraggio e di fantasia… con i cani randagi nella notte scura, la vita no, non fa paura”.

Non fa più paura nemmeno la guerra quando è finita e si torna a casa, quei pochi rimasti, pensando al sugo, alle infermiere e a tutto quello che si è perduto, cantandogliele al “Generale” senza trovare un senso se non nelle lacrime.

A questo punto sorge un dubbio, a sentire cantare i due e guardando le relazioni entusiaste del pubblico ad ogni singolo verso, anche durante il lungo tour, sembrerebbe che il nostro paese sia fatto per la grande maggioranza da autentici democratici antifascisti, progressisti e libertari; non si capisce proprio come facciamo a essere sempre tra le grinfie di banchieri senza cuore, piazzisti di pentolame e venditori di gelati in camicia nera. Forse perché siamo solo “Figli di una vecchia canzone e viviamo solo di parole” ma di sicuro “Ci meritiamo un’altra vita più giusta e libera se vuoi”.

Tra le tante meravigliose canzoni in scaletta, ben 32, che hanno visto i due cantautori alternarsi e scambiarsi le parti e anche cantare insieme, regalando fantastiche emozioni tra gioia e lacrime, una in particolare, molto rara e ricercata, ha trafitto l’immaginario di tutti. De Gregori ha detto testualmente che “Dolce signora che bruci” è una canzone “giurassica” che non hanno solamente riscoperto ma letteralmente esumato dalle spiagge del tempo.

Dall’antico comune sodalizio che nel 1972 portò alla realizzazione di “Theorious Campus”, pietra miliare della storia della canzone italiana, nel concerto-evento di Palmanova, sono state eseguite solo “Roma capoccia” e per l’appunto “Dolce signora che bruci” che, in buona sostanza, parla dei turbamenti erotico-sentimentali di una signora di mezza età, non più fanciulla in fiore da un pezzo, ma ancora alle prese con certi ardori.

Il brano sembrava scritto apposta per una ex giovane, miracolata da più di un chirurgo estetico, sbirciata tra il pubblico che, sbracciandosi, cantava a memoria tutte le canzoni con al proprio fianco un giovanissimo “toy boy” molto dandy e parecchio tatuato.

Lui, evidentemente annoiato ma compiacente nei confronti della sua fonte di reddito primaria che avrebbe potuto essere sua madre, ha fatto la spola, durante tutto lo spettacolo, tra il proprio posto e il chiosco delle birre, scolandosi tutto quanto era possibile, forse per darsi coraggio per il dopo-concerto.

La “Vecchia Signora” e le sue smanie sono proprio un simbolo dell’Europa (Dürrenmatt) e anche del nostro sfortunato paese che sempre, patetico e tronfio, crede di essere ancora il più bello e il più buono del mondo mentre è ben oltre la senescenza. E’ vero che, in senso figurato, “Roma è capoccia” però “del mondo infame!”

Venditti e De Gregori ricordandoci di tutte le Alice e Sara che abbiamo conosciuto e che se avessimo potuto…così come di tutte le Dolci veneri di rimmel o donne cannone che non abbiamo avuto mai, ci regalano rimpianti e nostalgie tenerissime bagnate di lacrime sulla pelle e asciugate tra i sorrisi e il cielo.

In conclusione, per capire quanto profonda sia la connessione tra i due poeti della canzone e la nostra tradizione letteraria più blasonata, sarà il caso di citare un breve brano dal saggio “L’umorismo” di Luigi Pirandello:

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima…”

Dolce signora che bruci buonanotte! Buonanotte fiorellino!

Scaletta completa: Also sprach Zarathustra (intro) Bomba o non bomba, La leva calcistica del ‘68, Modena, Bufalo Bill, La storia, Peppino, Generale, Sotto il segno dei pesci, Che fantastica storia è la vita, Dolce signora che bruci, Alice, Sangue su Sangue, Santa Lucia, Canzone, Ci vorrebbe un amico, Sara, Notte prima degli esami, La donna cannone, Pablo, Unica, Rimmel, Titanic, Giulio Cesare, Alta marea, In questo mondo di ladri, Sempre e per sempre, Roma capoccia, Il vestito del violinista, Ricordati di me, Buonanotte fiorellino, Viva l’Italia, Grazie Roma.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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