Sold out al teatro Verdi di Gorizia per un altro straordinario evento del cartellone della 24 edizione di Jazz & Wine of Peace.

Sulle assi del palcoscenico, due giganti del Jazz contemporaneo come Dave Holland (contrabbasso) e John Scofield (chitarra), regali, eleganti e raffinatissimi in un gioco di accordi e di sguardi davvero unico per intensità emotiva e trascendente astrazione.

L’occasione era davvero ghiotta per il pubblico degli appassionati, molto variegato e trasversale, soprattutto nelle occasioni speciali come questa dove si va dai vecchi appassionati fanatici di jazz, ai musicisti più blasonati, ai semplici studenti, ai “giovinastri” che in un modo o nell’altro riconoscono l’autorità di due musicisti di tale caratura, come quel vecchio signore che, appena entrato nel foyer del teatro, ha fatto incetta di vinili pregiati e firmati al banchetto dei dischi o quel ragazzotto segaligno e biondo tra il pubblico che vestiva la maglietta dei Gorgoroth, gruppo black metal norvegese e ancora il rasta con un cesto di dreads che sedeva in platea.

Holland e Scofield non hanno bisogno di molte presentazioni, negli ultimi cinquant’anni la storia della musica parla di loro continuamente come di due titani. Chi voglia anche distrattamente dare un’occhiata alle loro imprese del passato non può che restare sbalordito. Il minimo sindacale che si può dire è che fanno parte di quella che i critici hanno chiamato la “Davis diaspora”, tutti quegli artisti che giovanissimi sono stati musicalmente allevati alla corte dello sciamano elettrico (Miles Davis) e che poi sono stati lanciati nell’iperspazio della musica colta mondiale.

Quello che propongono in duo, dopo tanti furori, è sobriamente essenziale e depurato di ogni fragile orpello o furbizia musicale e va dritto al cuore nella perfezione massima che è la semplicità. A colpire maggiormente è l’eleganza setosa del sound che i due sanno esprimere con estrema naturalezza, leggeri come un raggio di sole che non ha certo bisogno di reggersi su circensi esibizioni ipertecniche o sottolineature di vertiginosi virtuosismi. Questo non vuol dire che i due non facciano miracoli con i loro strumenti ma lo fanno con classe, senza calcare la mano, senza spettacolarizzazioni. Ormai non ne hanno più bisogno. I due si concentrano ieratici nella loro “beatitudo” di mistici sulla limpidezza dei suoni e sulle ritmiche preziose come delle astrazioni dalle linee morbidissime, tanto che ci si scorda immediatamente che il contrabbasso è un semplicemente un cordofono ad arco. L’intesa tra i due maestri è così assoluta che gli basta uno sguardo perché le loro dita s’intendano in sincronici automatismi.

I primi brani eseguiti sono di Scofield (Sitting, Memorette, Icons at the Fair) delicati e di grande effetto. Quando viene il momento di Holland la scelta cade su “Memories of Home”, scritta a Nashville, che ha tutta la fragranza del country più nostalgico, vellutato e lacrimevole che si esalta nei suoni della sei corde di Scofield. E’ un pensiero che vola gioioso tra l’erba e i fiori dei campi aperti, e’ una strada che si perde nella distanza, il canto per una donna che vive su al nord, è il profumo del pane appena sfornato, dolce dolcissima memoria.

Con “Not for nothing” sempre di Holland i due amici giocano con il blues come solo gli autentici funamboli delle blue notes sono in grado di fare; li si immagina facilmente volteggiare lassù in alto come trapezisti del pentagramma e si ha la netta impressione che il loro talento non appartenga al mondo della materia ma a quello aereo dei sentimenti più lievi e incorporei. E’ poi il momento di “Hangover” che Scofield ha composto ricordando colossali sbornie in buona compagnia e relativi postumi. Cosa chiedere di più ad un festival che è in grado di unire il prezioso nettare degli dei con l’improvvisazione in musica per definizione. La loro musica è sempre suadente e dai colori tenui e caldi, quasi evanescenti, la bellezza smeraldina e atmosferica che il duo sa evocare va decisamente al di là dei generi e delle definizioni, è pura estasi sonora.

I semplici giochi di pedaliera di Scofield, che appena distorcono gli accordi e le modulazioni nella tensione delle corde, regalano emozioni e vibrazioni del tutto indefinibili.

Un vero classico di Holland è “Homecoming” (tornando a casa) e riguarda il tema greco antichissimo e sempre nuovo del “Nostos”, il ritorno al luogo cui apparteniamo ed è una sensazione paragonabile a quella che si prova a rivedere i teatri pieni al 100% dopo lo stop e le restrizioni dovute al morbo. Ascoltare finalmente il silenzio attento di tanti spettatori che fa da contenitore all’esecuzione è un esperienza con pochi paragoni, mai nessuna alta definizione potrà sostituire e mai nemmeno lontanamente simulare. A volte pare proprio di percepire le onde sonore che si infrangono sui corpi degli intervenuti che le assorbono quasi nutrendosene. Sappiamo bene quanto l’acustica anche del più raffinato auditorium abbia bisogno del pubblico in sala per compiere la propria funzione e non serve nemmeno essere troppo educati all’ascolto per accorgersene, basta semplicemente assistere ad un concerto come quello di Holland e Scofield per non avere più dubbi.

Li si scorge mentre si rincorrono in una struggente, luminosa ballata blues che ha il sapore del paradiso, fantastici girovaghi della tastiera, spensierati zingari felici delle note pizzicate. Giocano, si divertono strappando sorrisi e applausi come fosse un temporale.

Al di là di ogni giudizio possibile è una vera delizia ascoltare la musica dei due che hanno raggiunto la massima perfezione nella semplicità e nella scoperta dell’armonia naturale di spazi e di corpi. Lo scopo è sempre stato quello di rendere i paesaggi, interiori ed esteriori, attraverso la bellezza delle note. Come è stato detto dalle autorità nella presentazione della serata, Gorizia e Nova Gorica nel 2025 saranno unite nelle celebrazioni di loro stesse come capitali della cultura e il jazz ne sarà di certo uno degli ambasciatori più importanti. Il concerto di Holland e Scofield è stata forse la prima grande lectio magistralis di quel percorso di due eleganti maestri senza tempo.

Lakecia Benjamin, Pursuance: The Coltranes: Lakecia Benjamin (sax alto) Zaccai Curtis (piano) Lennie Plaxico (contrabbasso) Ej Strickland (Batteria)

Sul palco del teatro Verdi, supportata (sopportata) da un trio di eccezionali musicisti che l’hanno surclassata, l’esibizione della giovane altosax americana è stata una vera spiacevole delusione, forse anche perché le aspettative erano molto alte e lei si è rivelata del tutto inadeguata alle grandi sfide che si pone.

Lakecia, che lo showbusiness indica come l’astro nascente del pop-jazz con milioni di visualizzazioni sui social e collaborazioni illustri, dopo un paio di lavori funkeggianti molto commerciali e mainstream, ha deciso di affrontare il santo graal di ogni sassofonista: l’opera dell’immenso John Coltrane aggiungendo le fantastiche intuizioni della moglie Alice. Un bel coraggio a venticinque anni, bisogna ammetterlo anche perché ha rischiato tantissimo e il fallimento è stato clamoroso.

Ha chiamato il proprio progetto nientemeno che “Pursuance: The Coltranes” (Perseguimento: I Coltrane), un concetto fondamentale, spirituale e mistico alla base della ricerca religiosa in musica del grande sassofonista americano. E’ bene ricordarlo per i meno esperti o per chi si fosse distratto un attimo: la musica di Coltrane, soprattutto quella dopo “A love supreme”, è prima di tutto frutto di un’inesausta ricerca interiore perseguita dal musicista con tutta la sua forza e l’abnegazione di cui era capace. Le sue note facevano parte di un percorso di ascesi che mirava ad un rinnovamento spirituale che ci mettesse davvero in contatto con le belle energie che ci circondano. Tutto può essere dissacrato e reinterpretato, non ci sono idoli che non possano essere infranti ma Coltrane è Coltrane ed è assolutamente fuori categoria, il rispetto che gli si deve è massimo.

Lakecia ha avuto una buona dose di sfrontatezza e perfino di arroganza, qualità che non le mancano davvero, per mettere insieme una formazione del genere sulla falsariga del quartetto storico di Coltrane (Garrison, Jones, McCoy Tyner). Certo lei possiede del talento ma il suo approccio allo strumento appare molto meno brillante di quello richiesto e che ci si dovrebbe aspettare. La ragazza o chi la produce di certo sa scegliere musicisti assolutamente fenomenali che però fanno apparire i suoi fraseggi al sax alto poco più che un lavoretto scolastico, di certo piacevole e ben fatto ma niente di più. Il vibrato sulle chiavi, per esempio, è talmente insistito da risultare fastidioso, stucchevole e poco creativo.

Si presenta come una rockstar altezzosa e superfashion, grida al pubblico: ”Siamo qui dove la festa comincia!” Si pavoneggia ostentando e sostenendo che “la musica di Coltrane è pace ed è quello che ci serve in questo mondo che sta impazzendo”. Ma in realtà fa venire in mente Lisa, la ragazzina con il sax dei cartoni animati dei Simpson, altro che The Coltranes. La differenza è che la sorella di Bart è molto più simpatica e dotata di una verve unica.

Lakecia sa tenere la scena ma i suoi suoni sono poco originali e sembra del tutto incapace di evocare quella tensione meditativa e l’afflato spirituale così tipici della musica di Coltrane che è un itinerario mistico in una coscienza inquieta e non un divertissement poppeggiante, un compitino ben fatto, a tratti perfino piacevole ma davvero sopravvalutato. Troppo piena di se, più impegnata a curare la propria immagine con mille mossettine e pose per pensare ad affinare il proprio stile nell’inesausta ricerca di un unico suono del tutto personale. Probabilmente fra dieci anni, se tutto va bene, vedremo la sua musica in forma più completa e meditata, l’aspettiamo nel futuro.

Flaviano Bosco © instArt