Dracula: un nome che non è più solo un personaggio. Diventato prima sinonimo del termine “vampiro”, ha poi saputo valicare anche quel confine tramutandosi in simbolo e rappresentazione del “male”, quello vero e assoluto, quello che quasi non ha un vero volto e ci fa pensare di essere solo un feticcio atto a esternalizzare quell’oscurità che abbiamo dentro. Inutile quindi perdere tempo nel riassumere ciò che il romanzo di Stoker racconta (entrato così tanto nell’immaginario collettivo da essere noto a tutti) e meglio concentrarsi subito sulla sua ennesima versione. Versione che si presenta subito come di grosso calibro, visti i nomi coinvolti: alla regia infatti Sergio Rubini, anche sul palco nei panni del dottor Van Helsing. Al suo fianco Luigi Lo Cascio/Jonathan Harker, oltre a Lorenzo Salemi (dott. Seward), Alice Bertini (Mina Harker), Lorenzo Lavia (Renfield) e Geno Diana (Dracula).

Se volessimo riassumere al massimo quanto visto sul palco del Rossetti di Trieste potremmo arrivare a un solo, breve, stringato termine: cinematografico. Se poi ci fosse permesso estenderci un pò potremmo aggiungere “molto” cinematografico. E via, diciamolo pure: “troppo” cinematografico.

Non che le commistioni tra i generi siano per forza qualcosa di negativo, ovviamente. Sperimentare va bene, introdurre elementi di un linguaggio in un altro può portare ventate di novità anche notevoli. Inoltre, visti i nomi coinvolti era tutto sommato già prevedibile che il taglio scelto sarebbe stato molto cinematografico.

Il problema è quando quelle novità fanno scordare quale sia il linguaggio iniziale. Ed è purtroppo il caso di questo “Dracula”: tutta una serie di scelte nella messa in scena fanno quasi dimenticare di essere a teatro e fanno venire a mancare quel senso di coinvolgimento, di interazione tra palco e platea. Gli attori sono davvero lì davanti a noi, a recitare dal vivo? O abbiamo davanti uno schermo gigantesco e ultrarealistico, a simulare il palco?

Togliamoci subito il dente più doloroso, quello che più di tutti lascia perplessi e distorce l’esperienza: l’uso indiscriminato e indisciplinato dei microfoni. Sì, avete letto bene: microfoni. Tutti gli attori ne fanno uso per l’intera durata dello spettacolo, e per tutto il tempo ci si chiede “perché?”. Domanda puramente retorica, sia chiaro: chiusa subito la pista dell’acustica (è ben nota quella ottima del Politeama tergestino), appare palese come la scelta sia obbligata a causa dell’uso… diciamo “abbondante” degli effetti sonori. Come quelli cinematografici, appunto. Il microfonaggio diventa quindi quasi obbligatorio per garantire che le voci siano sempre ben udibili al di sopra degli effetti; ma al contempo appiattisce le prove recitative, togliendo la spazialità e la tridimensionalità date dall’acustica del teatro. Sembra quasi di assistere ad un film doppiato, a una canzone in playback; e infatti nei momenti in cui si passa da recitazione sul palco a brevi frasi con voce (preregistrata) fuoricampo è difficile notare la differenza.

La cosa è particolarmente criminale se si pensa alle prove degli attori (su cui torneremo meglio dopo), tutte maiuscole e a cui l’uso dei microfoni non rende per nulla giustizia. Complessivamente, un fattore che già da solo spezza quel legame palco-platea tipico di un teatro, minando l’approccio dello spettatore ad altri difetti (di minor entità) dello spettacolo.

Il ritmo, ad esempio. Anzi, visto che il linguaggio scelto è palesemente quello cinematografico, parliamo pure di “montaggio”. La frenesia regna sovrana, e questo nonostante siano stati fatti numerosi tagli al testo originale, in particolare in merito al soggiorno iniziale di Jonathan Harker nel castello del Conte (tagli comunque necessari per far rientrare lo spettacolo nelle due ore di durata). Tutto accade molto rapidamente, con continui cambi di scena e relative corse sul palco degli attori, per scene che a volta sono davvero brevi e didascaliche. Se questa cosa funziona più che bene al cinema (dove un rapido stacco di camera risolve ogni problema), più problematica è su un palco, dove l’azione dovrebbe per forza di cose essere più fluida, o perlomeno -dove ciò non fosse possibile- un po’ più lenta. Sempre nella categoria “montaggio” possiamo aggiungere le perplessità sulle pose imposte spesso agli attori, estremamente “fotografiche” nella loro banalità e senso di cliché/deja vu (giusto un esempio: la donna morsa dal vampiro che si accascia -seno al vento- sulle lenzuola, a braccia aperte come in una crocifissione e con la testa a pendere dal letto). Di nuovo: siamo al cinema, dove certe scelte consentono un’incredibile resa della fotografia di scena, o su un palco teatrale dove altre cose sarebbero più importanti?

Fanno il loro dovere le scenografie, che sono in grado di portare alcune idee interessanti e regalare dei momenti di sano stupore. Basti pensare ai pannelli coperti da teli, che all’occorrenza diventano pareti di un ospedale, porte di un manicomio, finestre di un castello o (ottima trovata) finestrini di un treno in corsa. A costo di doverci ripetere ancora, anche le luci risultano molto… cinematografiche. Certamente d’impatto, molto utili nell’orientare lo spettatore nei veloci cambi di scena, anche se alcuni occhi di bue (principalmente su Dracula in alcuni monologhi) si sarebbero potuti evitare.

Per quanto riguarda l’adattamento della trama, tutto sommato lo spettacolo funziona. Come già detto sono state necessarie alcune semplificazioni e dei tagli ma complessivamente il racconto regge e scivola via in maniera solida. Potremmo fare solo due note. La prima riguarda Jonathan Harker al castello: quella parte risulta piuttosto confusionaria. Col senno di poi possiamo capire come sia una scelta voluta, dal momento che Harker VUOLE dimenticare ciò che ha vissuto lì e quindi ciò che vediamo sono solo i brandelli di ricordi rimasti nella sua mente. Il problema è che a inizio spettacolo noi non siamo ancora consci di ciò e quindi si vive un certo smarrimento nel non capire bene cosa stia accadendo.

La seconda nota riguarda un potenziale inespresso: il romanzo di Stoker, infatti, è anche una riflessione sul significato del “male” e su dove esso si annidi. E’ davvero lì fuori, sotto le spoglie di un vampiro, o è dentro di noi? La stessa struttura epistolare del romanzo aiuta questa riflessione: Dracula non viene mai descritto in maniera “oggettiva”, da un occhio esterno a tutta la vicenda, ma di volta in volta raccontato dai vari protagonisti, che quindi ne danno la “loro” versione, la “loro” interpretazione. Per forza di cose non equilibrata, super partes, ma filtrata e viziata dal “loro” male, da quella parte oscura che si portano dentro.

Lo spettacolo avrebbe potuto esplorare questa interpretazione e si vedono qui e lì gli spunti per farlo. Mina stessa è un simbolo vivente di ciò, con la sua possessione da parte del Conte: ma in quanta parte è davvero posseduta, e in quanta è invece l’oscurità dentro l’anima di Mina a uscire allo scoperto durante le crisi in cui da timida moglie si trasforma in donna sensuale e sboccata? Lo stesso vale per Jonathan: il suo continuo rifiuto a ricordare è un rifiuto degli orrori esterni, o di quello dentro di sé? Peccato che questi spunti muoiano sul nascere e che si preferisca usare la trama come mezzo per portare a lidi “semplici” come il classico “mostro da sconfiggere per ritrovare la pace e la serenità” piuttosto che a una più complessa indagine dell’animo umano.

Si era detto delle prove degli attori. Beh, qui si potrebbe riassumere molto brevemente con “strepitose”. Di Cascio -incredibile mattatore con un Jonathan Harker che ruba la scena ogni volta in cui è sul palco- dovrebbe essere considerato tesoro nazionale; non meno interessante il Van Helsing di Rubini, meno appariscente solo per la scelta di tratteggiare un professore calmo, meditativo, contraltare dell’irruenza giovanile di Harker. Molto brava anche Alice Bertini nel non facile ruolo di Mina Harker: la sua continua trasformazione da moglie tranquilla e timida, a donna sensuale, a ragazza spaventata convince appieno. Roberto Salemi è purtroppo quello che brilla di meno nei panni del Dottor Seward, non per suo demerito ma piuttosto per la scrittura del personaggio, troppo piatto e dimenticabile se confrontato con gli altri. Ci si permetta infine una particolare nota di merito per Lorenzo Lavia, il migliore dul palco dopo Lo Cascio e semplicemente fantastico nel ruolo (purtroppo secondario) di Renfield: personaggio dichiaratamente fuori di testa ma che Lavia riesce a rendere comunque in maniera convincente, risultando sì “folle” ma senza cadere nel rischio dell’overacting che spesso si vede nella recitazione di questa condizione psichica.

Le uniche perplessità riguardano -ahimé- proprio Dracula. E anche qui non per causa di Geno Diana ma per scelte imposte al personaggio. Il Conte, infatti, non parla inglese e si rivolgerà agli altri sempre e solo in una sorta di romeno/lingua dell’est. Se a questo si aggiunge l’uso forse un po’ esagerato della mimica e gestualità, oltre al già citato utilizzo di luci “drammatiche” (occhi di bue) su di lui, il risultato è un Conte che a tratti sembra più una caricatura macchiettistica che l’impersonificazione del male.

Se mi avete seguito in questa lunga cavalcata di pensieri e opinioni, di certo vi starete chiedendo: ma davvero così tante cose non funzionano? Si salva qualcosa? E la risposta è: dipende da cosa cercate in uno spettacolo teatrale. Complessivamente la messinscena è roboante, lussureggiante, evocativa. In una parola: d’effetto. Ma non è teatrale. E’ cinema su un palcoscenico e sta ad ognuno di voi capire se è ciò che vi piace o meno. Ma siate coscienti di una cosa prima di sedervi in platea: non ci sono vie di mezzo con questo “Dracula”: o lo amerete, o lo odierete.

Luca Valenta /©Instart

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