L’infinito “Never ending” tour, che Cristiano De Andrè ha intrapreso più di venti anni fa per portare ovunque le canzoni del padre, ha toccato un’altra volta la nostra regione la scorsa estate in una torrida serata come quelle che ci aspettano in un immediato futuro.
Nel fitto programma estivo dell’Arena Alpe Adria di Lignano c’era anche l’esibizione del raffinato musicista, figlio di un temporale e di tanto padre.
Naturalmente, con il favore del pubblico, si ripete ciclicamente l’adorazione, forse un po’ nostalgica, di quel grande poeta che non volle vedere l’alba del nuovo millennio, avendone già abbastanza di quello vecchio con il suo orrendo secolo breve.
Fabrizio De Andrè ha lasciato un profondo solco nelle anime di tutti, è stato uno dei grandi intellettuali italiani del secolo XX e non c’è molto da discutere. Il suo valore artistico, culturale e sociale gli è stato riconosciuto già in vita e continua nella memoria di quei tanti che se lo sono potuti godere allora e di tutti gli altri che hanno continuato a scoprirlo e riscoprirlo nei quasi trent’anni da quando se n’è voluto andare. La sua eredità musicale e culturale è enorme e ben di là dall’essere stata ancora analiticamente esaurita.

Le sue canzoni sono assolutamente trans generazionali e sono conosciute sia da persone che hanno l’età dei “patriarchi”, sia da bambini che frequentano la scuola elementare. Paradossalmente, la sua fama trasversale, soprattutto postuma, riguarda anche coloro che non ne condividono affatto gli alti ideali progressisti, libertari e tanto meno anarchici.
La società italiana, lo sappiamo bene, è ipocrita e corrotta fino alle midolla e anche il gradimento generalizzato delle canzoni di Faber ne è un aspetto deteriore. A canticchiarle sono sia le signore ingioiellate della buona società radical chic che si truccano da sfegatate attiviste, sia le bagasce attorno ad un fuoco di copertoni su un raccordo autostradale. Lo contano nella propria playlist sia i leader dei partiti xenofobi fascisti, sia i giovinastri con la Kefiah. Il sospetto è che l’analfabetismo funzionale di cui tanto si parla sia una realtà molto più pervasiva di quello che crediamo.
A Cristiano De Andrè va dato il merito d’aver in tutti questi anni fatto il possibile non solo per riproporre in modo musicalmente corretto e rispettoso il repertorio del genitore, ma anche per essersi battuto in modo coraggioso affinché i messaggi e gli alti valori che ispirarono le sue opere continuassero a rimanere in primo piano. Il brutale consumismo culturale del nostro paese è stato perfettamente capace di svuotare di ogni significato e contenuto anche la poesia più eccelsa, fagocitando, digerendo e neutralizzando nel defecarli tutti quegli elementi potenzialmente pericolosi, per la consustanziale ignoranza e grettezza del Capitale.
Anche in occasione del concerto di Lignano, le esortazioni all’impegno e alla militanza nella rivendicazione dei diritti civili dei più deboli, sempre nello spirito della Pace non sono mancate.
La tragedia del genocidio del popolo palestinese è stata denunciata in più di un’occasione dal palco. Associando, per esempio, quelle immani sofferenze al significato di alcune canzoni. In particolare “Fiume Sand Creek” è sembrata evocare direttamente le inaudite stragi dei piccoli palestinesi nelle tendopoli degli improvvisati campi profughi o negli ospedali.
Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek
Quando il sole alzò la testa tra le spalle della notte
C’erano solo cani e fumo e tende capovolte
Tirai una freccia in cielo
Per farlo respirare
Tirai una freccia al vento
Per farlo sanguinare
La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent’anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent’anni
Figlio d’un temporale
Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek
Lo sforzo e la sfida di Cristiano sono stati anche quelli di svincolarsi dai pur splendidi arrangiamenti ormai canonici della PFM dalla verve prog rock.
Se è vero che quelle vere e proprie orchestrazioni hanno fatto la storia della musica da quel celebre tour con Faber nel 1979, è altrettanto vero che ormai hanno fatto anche il loro tempo, tanto da risultare fruste e fin troppo sfruttate dall’essere diventati anacronistiche, stereotipate e inefficaci.
Cristiano, a schiena dritta, ha cantato anche “Sidun” dall’album “Creuza de Mä”, capolavoro assoluto della musica italiana contemporanea. La canzone racconta del bombardamento della città di Sidone da parte dell’esercito di Israele sotto il comando del criminale di guerra Ariel Sharon. Fabrizio De Andrè in una famosa intervista citata dal figlio ne parlava così:
“Sidone, la città libanese che ci ha regalato, oltre all’uso delle lettere dell’alfabeto anche l’invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l’attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza. La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicemente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: Il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea”.
Con i ventimila bambini palestinesi assassinati a Gaza, fino ad ora, dai macellai di Netanyahu è morta la nostra umanità intera, ognuno di noi è condannato da quell’abominio ancora in corso.
Cristiano De Andrè, accompagnato da un gruppo di straordinari musicisti Osvaldo Di Dio (chitarre), Davide Pezzin (basso), Ivano Zanotti (batteria), Luciano Luisi (tastiere), è stato accolto all’Arena di Lignano da un folto pubblico, giovane nel cuore, con grande calore e partecipazione.
Non c’è dubbio che è lui il vero erede di Faber e non solo per la genetica. In una maleodorante palude di improvvisate cover band e sedicenti cantautori, rimane l’unica voce davvero in grado di valorizzare l’eredità del grande poeta genovese.
Come si dice in questi casi: “Il sangue non è acqua”. Negli ultimi anni Fabrizio De Andrè è stato al centro di una vera e propria girandola di riproposizioni, riletture e omaggi. Chiunque ha cercato di sfruttare “pro domo sua” l’immenso amore che il pubblico italiano tributa senza tregua al proprio canta-storie. A volte anche la gestione dei suoi diritti è sembrata di manica larga e poco scrupolosa in questo senso, permettendo operazioni nostalgiche e discutibili riproposizioni di dubbio valore.
La differenza con tutti gli altri sta nel fatto che Cristiano non è un pedissequo esecutore dei grandi successi di Fabrizio, e, pur avendone riproposto negli anni quasi tutto il catalogo, ha saputo vestirli, da grande musicista qual è, di nuovi arrangiamenti e interpretazioni che, pur non stravolgendoli, li ha arricchiti, ridonandogli vigore.
Lo si capiva immediatamente a Lignano fin dal primo attacco di “Mégu mégun”, un brano di meravigliosa intensità, incanto e mistero a cui il Bouzouki di Cristiano regala spezia e preziosa seta con i suoi straordinari musicisti e un’enorme nuvola d’insetti sul palco.
Infatti, l’unica nota stonata di tutto il concerto sono stati i milioni di esapodi volanti che, attirati dalle luci, hanno invaso letteralmente il palcoscenico rendendo davvero difficile la vita ai musicisti.
Un altro straordinario brano “Â çìmma” ha trasmesso tutta la nostalgia del Lontano che contiene nei rituali di una ricetta di uno dei piatti più ricercati della cucina genovese; arrangiamenti semplici e lineari mai invadenti sono stati serviti come perfetto contorno. Chi malignamente s’incaponisce a ritenere che Cristiano imiti suo padre, si sbaglia di grosso.
In realtà, canta e suona i brani del padre così come devono essere, senza quell’enfasi o quella smania celebrativa che di solito li ammorba soprattutto negli ultimi tempi.
Dopo due brani assolutamente perfetti, Cristiano si rivolge al pubblico: “Ben trovati, sono passati molti anni dall’ultima volta che suonai qui”, talmente tanti che nessuno sembra ricordarsene più. Continua, mentre si spruzza ovunque di Autan: “Il concerto sarà un viaggio nella musica e nella poesia di mio padre a 25 anni dalla morte. Ho dato un nuovo vestito e nuova vitalità a una quarantina di opere dopo aver pubblicato ben 4 raccolte… Un filo rosso lega le canzoni di Faber ed è la coerenza di chi si è sempre schierato con i più deboli, solo la libertà e la giustizia, non esistono poteri buoni”.
Si sono potuti così ascoltare in un lungo concerto di quasi tre ore, mentre l’Orsa Maggiore dritta e visibile sopra il cielo del palcoscenico compiva una parte del suo giro, opere d’arte assolute come: Ho visto Nina volare, Don Raffaè, Bocca di Rosa, La canzone di Marinella, Andrea, Il testamento di Tito, Il Pescatore e tante altre che il pubblico ha cantato a squarciagola con i lucciconi agli occhi.
In realtà, sono tutte canzoni molto pericolose vestite di stelle, ma che se eseguite con sufficienza e senza senso del dramma ci mettono un attimo a diventare grottesche e strapaesane. Basta sbagliare un’intonazione che ci si ritrova dalle storie tragiche di un malfamato carruggio di Genova, ai baracconi ubriachi della sagra delle patate. Cristiano De Andrè non sbaglia un colpo, “chiama i ricordi col loro nome, volta la carta e finisce in gloria”.
Resta nel cuore l’interpretazione di Cristiano al pianoforte verticale della struggente: “La canzone dell’amore perduto” con cui ha voluto salutare il pubblico e l’acida versione di “La canzone del padre” che è sembrata quasi un eterno, trascinato congedo nei confronti dell’ingombrante figura di un genitore assassinato in un sogno precedente.
Adesso le fiamme mi avvolgono il letto
Questi i sogni che non fanno svegliare
Vostro Onore, sei un figlio di troia
Mi sveglio ancora e mi sveglio sudato
Ora aspettami fuori dal sogno
Ci vedremo davvero
Io ricomincio da capo.
Flaviano Bosco / instArt 2025 ©