Può sembrare la solita frase fatta ma la diremo comunque: c’era molta attesa per il ritorno di Claudio Bisio a Trieste, ancora una volta sul palco del Politeama. Innanzitutto perché Bisio è uno degli artisti più poliedrici, empatici, amati in tutto il Paese; in secondo luogo perché lo spettacolo avrebbe dovuto essere in scena già prima della pandemia e (come l’intera scena teatrale) ha dovuto subire lunghi ritardi per poter finalmente debuttare; e infine perché vede Bisio allontanarsi dal fidato Michele Serra (con cui aveva lavorato ne “I bambini sono di sinistra” e “Father & son”) per destreggiarsi con i testi di Francesco Piccolo.

L’attesa è stata dunque ripagata? Per rispondere bisogna cercare di dividerci su due piani, quello del testo e quello della messa in scena.

Partiamo dal testo: come già anticipato, “La mia vita raccontata male” prende corpo dagli scritti di Francesco Piccolo, autore molto prolifico che dagli anni Novanta a oggi è stato apprezzato sia come scrittore per le sue raccolte di racconti che per il suo lavoro di sceneggiatore sia per il cinema che per la televisione. Non un testo unico quindi, ma un sapiente lavoro di selezione all’interno di quella grande mole di testi per modellare uno spettacolo che abbia comunque una “sua” personalità e veicoli un messaggio. Che -in estrema sintesi- vuole essere un’elegia di tutti i momenti di una vita: quelli belli e quelli brutti, quelli importanti e quelli apparentemente più trascurabili, perché tutti loro concorrono a fare di noi ciò che siamo nel presente. Con questo in mente, lo spettacolo parte in modo estremamente azzeccato: la prima parte, che esplora il rapporto padre/figlio, è probabilmente la migliore e riesce in modo efficace e delicato a trovare un bilanciamento perfetto tra diversi opposti: l’apparente leggerezza di una partita di calcio e la profondità del suo significato politico e umano; la semplicità di un singolo gesto e la complessità di tutte le ramificazione che questo può portare (per decenni) nel rapporto tra due persone. Sono 10-15 minuti magistrali, che centrano perfettamente l’obiettivo.

Peccato che per il resto dello spettacolo questo senso di equilibrio, di unicum delle cose belle e brutte a formare il senso ultimo di noi stessi, si perda un po’ a favore del mettere in scena una serie di sketch certamente divertenti, che fanno sorridere (alcune volte amaro) ma che non paiono avere il mordente di quella prima parte. Ogni scena vuole esplorare un aspetto della vita del protagonista, dagli amori giovanili agli studi impegnati alla famiglia, ma più che parte di un unico lungo filo sembrano -appunto- sketch messi uno di fila all’altro. Ciò non significa che non siano interessanti, ovviamente, né che non diano spunti di riflessione. Molto profonda, ad esempio, la parte sulla ragazza conosciuta a Roma, che mette il protagonista ad un crocevia tra paura dell’ignoto e comfort zone, oltre che tra il comportamento che la società ci si aspetta da un individuo e ciò che invece quell’individuo vorrebbe davvero. Interessante anche il ritorno al contrasto tra leggerezza e profondità nella scena della telefonata di Mara Venier, amplificato anche qui dal peso del parere della società (“cosa penserebbero di me se io che studio Brecht rispondessi in diretta alla Venier?”), anche se la scena sembra un po’ fine a sé stessa e mancante di quegli agganci che invece la parte sul calcio e il padre aveva, dove era palese l’influsso che quel momento avrebbe avuto su un’intera vita.

Simpatico e divertente tutto l’episodio sui figli, che parte da uno spunto estremamente interessante (il fastidio che provoca nella platea il confronto tra figlia naturale e figlio adottato, con la netta preferenza verso la prima) ma purtroppo lo annega in una serie di gag comiche sul “giapponese” che annacquano troppo quel fastidio mentre sarebbe forse stato più interessante tenerlo vivo, perché non è nient’altro che l’ennesimo ritorno di quel “ciò che pensa/crede la società” già nominato, stavolta però non raccontato sul palco ma fatto vivere agli spettatori.

Citiamo ancora la parte di racconto sulla “donna giusta”, una piccola perla di poesia e leggerezza (nel senso buono del termine), che col suo continuo ripetere del “che sarà mai” riesce a far provare un’incredibile tenerezza nei confronti di un personaggio che sul palco neppure c’è. E che abbiamo lasciato con fare sornione per ultima perché è quella che meglio di tutte da l’assist per passare a parlare della messa in scena. C’è una ragione particolare per cui questa scena funziona così bene e fa sorridere così teneramente: Claudio Bisio. Non che ci si stupisca di questo, ma al Rossetti Bisio ha dimostrato per l’ennesima volta di essere un mattatore fantastico, immenso nel suo saper comunicare -con la gestualità, con le parole, con la sua genuinità- qualsiasi tipo di messaggio o emozione. La mia vita raccontata male “È” Bisio, tanto che a un certo punto ci si convince che gli episodi raccontati siano presi direttamente dalla sua vita ed è necessario che -nello sketch sulla famiglia- Bisio puntualizzi che non si parla davvero di lui e che lui non ha un figlio giapponese.

Riesce francamente difficile pensare a uno spettacolo simile con un protagonista diverso, perché con un altro volto le già citate pecche nell’assemblaggio delle parti sarebbero apparse molto più prepotenti. Bisio è invece maestro nel modulare bene l’atmosfera di ogni sezione, nel mettere l’accento sui punti giusti e di conseguenza nel riuscire a mitigare quel senso di minor equilibrio che compare dopo il termine della sequenza iniziale su calcio e padre. Certo, il monologo finale (che tira le fila e riassume proprio quel concetto del “siamo tutto ciò che abbiamo vissuto, cose belle e cose brutte”) appare comunque un po’ forzato dopo che per più di un’ora le scene succedutesi non lo hanno esplicitato benissimo. Ma al Claudio nazionale si perdona tutto, soprattutto al termine di uno spettacolo di cui -e ci si perdoni la licenza poetico/critica- potremmo parafrasare il titolo in “La mia vita scritta forse non benissimo… ma raccontata splendidamente”.

Luca Valenta/©Instart

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