Al teatro lirico Giuseppe Verdi di Trieste proseguiranno fino al 15 febbraio prossimo le repliche della monumentale opera in quattro atti e un prologo Boris Godunov di Modest Petrovič Musorgskij in un sontuoso allestimento a cura del Dnepropetrovsk Academic Opera and Ballet Theater di Dnipro (Ucraina) per la direzione del Maestro concertatore Alexander Anissimov che, basandosi sulla versione dell’opera del 1872 e riorganizzando gli atti originali, ne ha creata una propria, divisa in tre parti.

Era dal 2001 che l’opera non veniva rappresentata a Trieste che sembra essere il palcoscenico naturale per quel dramma. Quando si varca la soglia del teatro si ha la netta percezione di essere accolti in uno dei luoghi che hanno fatto la storia del bel canto non solo in Italia ma in tutta Europa. A pochi passi dalla meravigliosa piazza Unità d’Italia, scostate appena le pesanti cortine del sipario, il pubblico viene proiettato in un altro tempo e in un altro luogo dove i contorni del reale sono meno netti ed è ancora possibile sognare ad occhi spalancati.

Grazie alle straordinarie doti dell’Orchestra e del coro del Teatro, uniti ai Piccoli cantori della città di Trieste e ai fantastici interpreti dell’opera Ucraina, gli spettatori sono diventati partecipi del periodo dei Torbidi, il sanguinoso interregno russo che seguì la caduta della dinastia dei Rurikidi (1598) fino alla presa del potere di quella dei Romanov (1613) destinata a dominare l’impero ininterrottamente fino alla Rivoluzione d’ottobre (1917).

Musorgskij (1839-1881) trasse l’idea e il libretto dal dramma omonimo di Alexander S. Puškin a sua volta ispirato alla ciclopica Storia dello Stato Russo di N. M. Karamzin. Ne fece un’opera assolutamente innovativa, con il preciso intento di discostarsi dai modelli tradizionali imposti dalla cultura zarista dell’epoca che vedevano nell’opera italiana un punto di riferimento imprescindibile.

Musorgskij e gli intellettuali della sua cerchia volevano ben altro: un autentico dramma popolare in cui l’uomo fosse protagonista. Per questo aveva bisogno di nuova, potente e impetuosa musica per la quale attinse a piene mani dal folklore e dalla liturgia del suo paese.

Ne risultò un’opera inaudita di una potenza e coralità senza confronti tale da suscitare aspre polemiche e dividere nettamente in fazioni la critica e il pubblico. Tra i più feroci detrattori figurava Čajkovskij che, velenoso , dichiarò: “Io mando al diavolo con tutto il cuore la musica di Musorgskij; essa è la più volgare e la più bassa parodia della musica”. Mentre Rimskij Korsakov disse: “Adoro il Boris e nel medesimo tempo lo odio. Lo adoro per la sua originalità, l’arditezza, la bellezza; lo odio per la sua grossolanità, le durezze armoniche e le assurdità musicali”.

Al di là delle polarizzazioni, con quest’opera che ebbe un influenza decisiva e indiscutibile su tutta la musica del XX° sec. nasceva un nuovo genere autenticamente popolare e nazionale, le masse avevano fatto la loro comparsa sul palcoscenico del melodramma. Non se ne sarebbero più andate.

Uno dei temi narrativi individuabili nel cartellone di questa stagione lirica del teatro Verdi è di certo il dramma shakespeariano sugli intrighi e le follie del potere. Dopo Turandot di Puccini, Lucrezia Borgia di Donizzetti, a prepararci al Macbeth di Verdi cui viene spesso accostato questo Boris Goudunov ha ascendenze precise nell’Amleto e per l’appunto nel Macbeth del Bardo.

Il sangue degli innocenti che insozza le mani di chi non ha esitato a macchiarsi dei peccati più orrendi per dare sfogo alla propria brama di potere non può essere lavato in alcun modo.

Così, muore disperato il tiranno, consumato dai fantasmi dei sensi di colpa per gli orrori che ha commesso proprio mentre altri usurpatori hanno invaso e messo a ferro e fuoco il paese. La grande paura che lo schianta è che la pena per il male che ha fatto per conservare il potere sulla Russia venga scontato dal proprio figlio amatissimo. Lo zar Boris è un mostro che ha assassinato con le proprie mani, lo zarevich Grigorij di sette anni, legittimo erede al trono in quanto figlio di Ivan il Terribile. Allo zar Boris scoppia il cuore quando capisce che non può impedire che al proprio figlio tocchi la stessa sorte. Quando cala il sipario, tutto è perduto e la funesta profezia di uno dei protagonisti della pièce si è ormai avverata.

Sgorgate, sgorgate, lacrime amare,

piangi anima ortodossa!

Presto arriverà il nemico e scenderà l’oscurità,

tenebre profonde e impenetrabili.

Dolore, dolore sulla Russia.

Piangi popolo russo,

popolo affamato!”

Si esce dal teatro come storditi, con la netta sensazione di aver assistito a qualcosa di grandioso, solenne, maestoso eppure terribile. L’opera di Modest Petrovič Musorgskij è un viaggio nella storia e nell’anima di un grande paese, è un fiume di musica impetuoso che scorre portando con se le lacrime e il sangue del popolo che soffre. Nel primo quadro lo vediamo gemere e implorare in una scena di massa che riempie il palcoscenico, un’umanità oppressa e piagata che prega e implora con “lacrime ardenti”.

Nel primo atto, è il coro del popolo russo ad accoglierci per farci partecipe di tutto il dolore e la sofferenza fino al martirio che deve subire a causa del feroce tiranno. Sono le madri con le loro invocazioni, le babushke che non hanno di che sfamare i propri figli e che non hanno nessuno che le sostenga perché gli uomini sono partiti e già risucchiati nel vortice di sangue della guerra.

Per le guardie dello zar sono solo delle megere indolenti e cattive degne del morso delle fruste e del tallone di ferro dei loro stivali.

Ehi, voi vecchie streghe, basta chiacchiere!”

Ma le donne sporche e vestite di stracci, prostrate, tutt’altro che dome, invocano e pregano il loro grande padre, lo zar Boris, sperando ancora nella sua pietà.

Appare, annunciata dalla solennità, grave e marziale delle campane a martello e dalla protervia dei Variaghi armati di sferza e di poderose berdiche, la figura imponente del crudele zar in tutta la sua insolente arroganza.

Ghiaccia il sangue nelle vene la sua sola presenza e l’incedere maestoso fa piegare le ginocchia. Lo zar Boris con le sue promesse tranquillizza il popolo delle donne, mentendo sapendo di mentire, anche se un oscuro presentimento comincia a pungolare la sua anima gelandogli il cuore.

Oh Dio giusto, oh Padre mio sovrano! Osserva dal cielo le lacrime dei servi fedeli e concedi al mio potere la tua santa benedizione. Che io sia santo e giusto, come te che possa guidare il mio popolo verso la gloria!”

Nonostante la pena, il popolo gli crede e lo osanna: “Come al sole che splende in cielo gloria! Così in terra allo zar Boris gloria!” Ma la tenebra della carestia e della disgrazia già comincia ad intravvedersi all’orizzonte e il vento dell’odio comincia a spirare.

Per gli spettatori che riempiono platea, palchi e gallerie del Verdi è impossibile trattenere gli applausi a scena aperta che sembrano quasi un’espressione di solidarietà con il popolo russo sofferente, allegoria delle piaghe dell’umanità tutta.

In scena nessuno osa contraddire il tiranno, nè affrontarlo, per paura della sua ira; Boris è però, segretamente tormentato

Intorno è solo buio e fitta oscurità…il cuore è pieno di tormento, lo spirito stanco prova pena e angoscia…ho creduto di smorzare le sofferenze dell’anima; nella nobiltà, nello splendore di un potere senza confini. E invece…perfino il sonno mi manca e nella semioscurità della notte si leva il fanciullo coperto di sangue. Gli occhi gli ardono, ha le mani strette, implora pietà…ma pietà non c’è stata. Una spaventosa ferita si apre, si ode il suo urlo prima di morire…”

Tutto il teatro allora diventa un’arca russa che naviga sulle acque della catastrofe evocata da un monaco che, chiuso nella sua cella, ha dedicato l’intera vita a raccogliere le memorie della grande madre Russia, vergandole su preziosa pergamena in modo da eternarle salvandole dal mare dell’oblio.

Il palcoscenico è come un ponte di un vascello sul quale resistono al rollio causato dalle onde del destino, personaggi che nulla possono contro il fato che finirà per travolgerli.

La grande campana segna il tempo dell’inesorabile disfacimento del potere assoluto del monarca. Emergono i torbidi orrori di un’anima morta. Lo zar nel suo delirio si vede incalzato dal fantasma del fanciullo che lui stesso ha assassinato, il senso di colpa finirà per stroncarlo. E’ certamente una visione del potere molto romantica e pienamente russa.

Il cinema ne ha attinto a piene mani, basti pensare al fondamentale Ivan il terribile (1944) e La congiura dei Boiardi (1958) di Sergej M. Ejzenstejn fino alla trilogia dedicata ai tiranni del XX° sec. di Aleksandr N. Sokurov. Senza dimenticare, naturalmente, il capolavoro dedicato al pittore medievale d’icone Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij (1966). Il grande regista russo, infatti, non a caso fu scelto da Claudio Abbado nel 1983 per un memorabile allestimento del Boris Godunov al Coven Garden di Londra.

A complicare l’intrigo vi è la vicenda parallela del falso Dimitrij, un subdolo monaco che dice di essere lo Zarevich assassinato redivivo. Questi alleandosi con gli arcinemici polacchi invade il regno di Boris affrettandone la fine.

Uno dei quadri più intriganti e sconcertanti allo stesso tempo dell’intera opera è il dialogo “amoroso” tra il falso Dimitrij e Marina Minišek, figlia del governatore della Polonia. Marina esprime al proprio spasimante, con un canto sinistramente mellifluo, tutta la propria brama di potere e sete di ricchezza, in un incredibile contrasto tra bellezza e cupidigia, amore e lussuria che ha pochi paragoni. La mezzo-soprano Kateryna Tsimbaliuk ha reso la glaciale perfidia di Marina in modo davvero efficace, facendo percepire ad ognuno degli spettatori la malvagia ambiguità del personaggio fino a farsi quasi odiare, tanto è stata intensa la sua immedesimazione.

Altrettanto magistrale l’interpretazione del basso Taras Shtonda che regala un Boris Godunov imponente, enorme e dolente come una statua di bronzo con un piede d’argilla che finisce per compromettere il suo equilibrio facendolo schiantare sotto il peso del peccato e della colpa.

Di grandissimo effetto le scene e costumi storici ideati alla metà degli anni ‘70 dal grande scenografo ucraino Anatoly Arfev (1918-1989) che il teatro di Dnipro continua giustamente ad utilizzare. Semplici teloni, dipinti ispirati all’arte medievale russa delle iconostasi ed un sapiente utilizzo delle luci e dei chiaroscuri donano alla scena un’atmosfera del tutto pittorica, amplificata dallo sfarzo dei costumi e dalla presenza sul palcoscenico in contemporanea di un’autentica massa di persone, tanto da rendere ogni scena un tableau vivant in cui la dinamicità dei movimenti scenici è stata completamente sacrificata in favore della frontale monumentalità dei quadri di straordinario impatto visivo.

Rimane negli occhi, negli orecchi e soprattutto nel cuore una delle scene più struggenti di tutta l’opera, l’incontro tra lo sfolgorante zar Boris quando ancora è al massimo del suo vigore e il miserabile folle in Cristo che, rifiutandosi di omaggiarlo, gli predice l’imminente declino.

I cosiddetti pazzi di Dio sono una figura tipica della cultura e del folklore russo. Il loro ascetismo li spinge ancora oggi ad intraprendere una vita religiosa di strettissima osservanza e assoluta povertà. Vagano per le strade della Grande Madre Russia laceri e salmodianti annunciando l’imminente fine dei tempi e il giudizio dei peccati. La loro è una santa stoltezza che li rende intoccabili e sacri, perché ritenuti posseduti dal divino. Si crede che nella loro pazzia siano gli unici a dire la verità. Come dice San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato per ridurre al nulla le cose che sono”. (1,27-28)

Flaviano Bosco © instArt

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