Jazz Visions, Mostra fotografica di Luca D’Agostino.

Lo spazio PS4 di Piazza Savorgnan si trova in una piccola palazzina del centro antico di Marano Lagunare. Restaurata in modo filologico e rispettoso del carattere e dell’origine di quei luoghi con quel tanto di ruvidità di modernariato industrial per gli interni che non guasta.

Le tre finestre sulla facciata ne ricordano il passato veneziano con due aperture con arco a tutto sesto e una bifora o quel che ne resta, a definirne l’attribuzione. L’interno diviso su tre piani è tutto vecchi travi, acciaio, tavole, cavi, pietre e antichi mattoni. Non ci poteva essere luogo migliore per ospitare le autentiche opere d’arte visive sul tema della musica jazz di Luca D’Agostino.

Immaginifici scatti fotografici che hanno il respiro della visione. Figurazioni che non sono concepite solamente per fermare istanti di musicali ma, al contrario per dilatarli, espandendone la persistenza e la forza; Ritratti cinetici e dinamici di musicisti in azione che, di un preciso spazio e tempo, regalano il ritmo e la precisa vibrazione psicologica ed emotiva.

Solo una manciata di foto, in realtà, ma straordinariamente evocative e ben scelte come gemme incastonate nella memoria di uno spartito di sogni sonori. Le didascalie, a cura del critico musicale Flavio Massarutto, impreziosiscono il percorso espositivo con la loro ironia e la loro classe.

Due scatti si fanno ricordare su tutti: il primo ha come soggetto il pianista friulano Claudio Cojaniz, punta di diamante da decenni della scena musicale più ricercata regionale e italiana. Lo scatto coglie il musicista, con un sorriso disarmante e innocente, in un momento di pausa seduto tra gli stracci e gli scatoloni di quello che appare come un ripostiglio dietro le quinte di un non ben identificato teatro.

Scrive Massarutto: Quando suona Claudio è felice come un bambino…ha le dita piccole per essere un pianista e ha il sorriso di un vecchio contadino serbo …di un Odisseo di terraferma che naviga mari sonori con una imbarcazione di rame ebano e avorio.

La seconda foto significativa è quella che ritrae l’ombra del trombettista Tom Harrel sul muro dietro al palcoscenico durante una sua esibizione. Gli appassionati ben sanno che il musicista soffre di gravi disturbi mentali, nei concerti suona le proprie parti con mirabolante perfezione, virtuosismo ed energia ma, appena stacca le labbra dal suo strumento, cade in una sorta di rigidità catatonica davvero inquietante. Se ne sta immobile, rigido con le braccia lungo il corpo, lo sguardo basso, il capo reclinato in avanti e incassato tra le spalle; non si muove fino a quando non tocca di nuovo a lui.

Il lucido occhio fotografico D’Agostino è stato in grado di cogliere e rappresentare perfettamente quel particolare istante nel quale la mente del musicista sembra quasi essersi distaccata dal corpo e perduta chissà dove. La foto è talmente inquietante che l’ombra sembra quasi quella iconica del Nosferatu di F.W.Murnau. Non serve aggiungere altro per comprendere l’energia positiva che scaturisce da quelle foto; il resto lo si lascia scoprire a tutti coloro che vogliono regalarsi la grande emozione di una visita alla mostra.

Ore 19,50 Marko Cepak 4tet feat. Jure Puki

Mirko Cepak: chitarra / Jure Puki: Sax tenore / Simone Serafini: contrabbasso / Howard Curtis: Batteria.

Con un certo ritardo sulla tabella di marcia dovuto alle contemporanee celebrazioni religiose della messa serale nella vicina pieve e anche ad un piccolo incidente automobilistico che ha bloccato la batteria sull’autostrada è iniziata l’esibizione del quartetto capitanato dal chitarrista sloveno.

La bellezza impagabile di questa edizione di Borghi Swing viene dal suo carattere informale, dalla sua genuinità e dalla sua immediatezza. Lo spettatore può godersi la musica e anche la preparazione dell’esibizione in tutta calma e senza alcuna barriera. Non viene spezzata in alcun modo la continuità tra montaggio del piccolo palco, la pulizia e l’accordatura degli strumenti, il soundcheck. Non vi è la consueta e consunta separazione tra palcoscenico e posti a sedere, con una perifrasi, non si distingue: tra palco e realtà.

È tutto già li, immediatamente, spontaneo e fruibile da chiunque, sia dall’appassionato, sia al semplice passante che può decidere di restare o continuare a passeggiare nella più completa libertà. In piena luce, senza alcuna soggezione, ritualità, liturgia, solo musica nuda. Così, non ci si trova più sotto le stelle del Jazz ma dentro una magia che si compie senza alcun apparente infingimento.

Sulla testa degli spettatori accomodati davanti al piccolo palco allestito tra due grandi piante d’alloro nell’incantevole, raccolta piazza Savorgnan, volteggiano velocissimi e striduli i rondoni che con la loro danza aerea sembrano quasi preludere al gioco di note che si sta preparando. Un cane al guinzaglio abbaiava stizzito, una ragazza dalla bellezza solare e fin troppo procace si faceva ammirare nelle prime file.

Il pubblico attendeva pazientemente sulle sue sedie da giardino in plastica che fanno molto sagra paesana mentre, a pochi metri dal piccolo palco, sul quale i musicisti scaldano i loro strumenti, sfrigolavano nell’olio bollente le sarde del chiosco del pesce e si stappano bottiglie di bollicine fresche e leggere delle quali più di qualcuno degli spettatori ha approfittato anche durante l’esecuzione.

Una situazione davvero splendida e ideale per ascoltare la musica del quartetto…finalmente si scivola nel jazz anche questo fresco, leggero e comodo come un abito di lino nella sottile brezza dei fraseggi del sax di Juri Puki, dal colore e dalla ritmica efficace e mai invadente di Howard Curtis, dalle stupende architetture sonore tessute tra le corde della chitarra del leader Marko Cepak, e dalla levigata e tenace caparbietà del contrabbasso di Simone Serafini.

I brani si sono susseguiti uno dopo l’altro sgusciando verso la sera, alcuni titoli sono stati: Memories, Ispirations e Delizia già da soli racchiudono il senso e la bellezza dell’esecuzione, non serve dire molto altro.

Ricapitolando: gli uccelli che stridono, le campane della vicina pieve din-don-dan, i bambini che strillano, i cani che abbaiano, il chiosco del pesce e quattro musicisti ispirati che non si fanno spaventare…è anche questa la magia del jazz.

La bellezza è una cosa rara e può capitare improvvisamente nel luogo più inconsueto, impensato e imprevedibile.

Ore 20,30 – Piazza Frangipane: Nostalgia progressiva

Maurizio Brunod: chitarra / Giorgio Li Calzi, tromba ed elettronica / Boris Savoldelli, voce-strumento ed elettronica.

A volte la parola nostalgia, quando si parla di musica, indispone e prepara ad un sapore di stantio come di scarpa vecchia o di straccio bagnato. Il vocabolario dice: Nostalgia – parola che deriva dal greco antico e significa “dolore del ritorno”. E’ definibile come uno stato psicologico o sentimento di tristezza e rimpianto per la lontananza da persone o luoghi cari o per un evento collocato nel passato che si vorrebbe rivivere.

Non c’è niente di tutto questo per fortuna nella musica di Brunod e dei suoi pards. Proprio da una sua idea e da una passione comune dei tre musicisti è nata l’esigenza di riandare con la memoria alla scena musicale inglese di

Cantherbury della seconda metà degli anni ‘60 per trarre, ancora una volta linfa vitale per nuove avventure sonore e nuovi viaggi nei cieli della psichedelia e del prog.

La volontà è stata quella di non proporre al pubblico alcuna cover e nemmeno nessun plagio come va tanto di moda nei nostri giorni miserabili. Quelle che i tre hanno suonato sono intelligenti interpretazioni e spesso radicali rivisitazioni di alcuni brani classici del periodo d’oro del rock progressivo inglese e della Kosmische musik tedesca.

Risuonano le note di Formentera Lady dei King Crimson e tutti immediatamente capiscono quale sarà il tono dell’esecuzione. La voce di Savoldelli disegna nel cielo della sera le forme e le movenze della dolce amante di Formentera e sembra già di aggirarsi dove la salvia odorosa e altre strane erbe crescono, come dice il testo. L’accompagnamento elettronico della ritmica di Li Calzi arricchisce di distorsioni, lampi di memoria tra le fragole, frequenze e sequenze. Allo stesso tempo la chitarra di Brunod scolpisce il tempo e lo cesella alla maniera di Fripp senza però essere pedissequa imitazione ma conservando una propria distinguibile originalità. Ad arabescare le linee melodiche ancora di più la tromba elettronica di Li Calzi, acida e opaca che ha, tra l’altro, il raro pregio di non scadere

mai nel facile plagio davisiano ormai diventato endemico flagello.

Shipbuilding è un brano che Elvis Costello scrisse per Robert Wyatt mente creativa e tra i più grandi interpreti della musica contemporanea. A partire dal Daevid Allen Trio che lo vedeva affiancare il leader e Hug Hopper nel 1963 e poi con i Soft Machine dal 1966, Wyatt ha cambiato per sempre il volto della musica d’Occidente.

Brunod e i suoi fedeli compagni sanno bene quanto questa musica sia ancora straordinariamente significativa e attuale, proprio nel momento in cui si torna a parlare di “Navi da Guerra” e stanno per tuonare i cannoni di un nuovo conflitto in MedioOriente. Il testo dice mestamente: E’ tutto quello che sappiamo fare bene. Costruiremo navi (da guerra) con tutta la volontà del mondo messa in atto per perdere vite amate mentre potremmo tuffarci per pescare perle.

In successione, ancora King Crimson con la splendida Matte Kudasai in una versione dolente e lirica che precede uno dei momenti più sperimentali e sorprendenti del concerto. Come è stato detto, le perverse deviazioni musicali di Li Calzi lo hanno portato a trasformare la fredda meccanica di Radioactivity dei Kraftwerk in qualcosa di più morbido e perfino acustico ricalcando, forse inconsapevolmente, il lavoro di Brian Eno, David Bowie e Robert Fripp nel fondamentale

periodo berlinese della fine degli anni settanta. La reinterpretazione non avrebbe sfigurato tra i materiali dell’album Low oppure “Heroes” e non ci può essere complimento migliore.

Anche in questo caso però non si è trattato di una semplice decalcomania. La musica dei Kraftwerk funziona anche così, non ne risulta snaturata l’algida meccanica e nemmeno la furia elettronica originale. Al contrario, quelle atmosfere asettiche risultano impreziosite dalla trasformazione e dall’intelligente rimaneggiamento.

Da un tappeto di effetti sonori stranianti e bizzarri scaturisce poi Starless, ancora una volta dei King Crimson che sfocia nel lago del cuore di accordi suggeriti dagli accordi della sei corde e dalle vibrazioni del labiofono.

Si passa ad una versione rara e complessa dell’oscura Taranaki del gruppo jazz rock inglese Nucleus per concludere l’esibizione con la struggente I Talk to the wind dal primo album (1969) alla Corte del Re Cremisi che è sembrato quasi gettare un ponte ideale verso la prossima esibizione di Robert Fripp e dei suoi Cavalieri il 06 luglio a Palmanova per Grado Jazz.

Sono fuori e guardo verso l’interno, cosa vedo solo illusione e confusione. Parlo con il vento e le mie parole vengono soffiate via. Anche in questo caso i tre ci mettono del loro funkeggiando appena dopo il prologo del brano eseguito in modo, inizialmente, pressochè canonico. L’incursione nei territori incogniti dell’acid jazz fino al noise e all’avanguardia del rumore sintetico è risultata davvero efficace e divertente con richiami alla coeva 21st century schizoid man fino a giungere al largo pacificato finale con applausi meritati e tutt’altro che nostalgici.

Ore 22,00. Piazza Aquileia: Dario Carnovale al pianoforte e percussioni e Francesco Bearzatti al Sax tenore e clarinetto.

S’inizia con il rumore scrosciante del bastone della pioggia e il ritmo incalzante delle tablas. Il clarinetto richiama melodie orientali che raccontano di tessuti preziosi e di spezie odorose. Immediatamente gli spettatori si sono sentiti proiettati lungo le rotte lontane che da Marano e dalla sua laguna partivano per l’Oriente più estremo com’è stato da tempo immemorabile. Se ce ne fosse bisogno, lo ricorda un Largo dei Turchi nel cuore del borgo marinaro, a pochi passi dal palco sul quale il duo si esibiva. Il pianoforte geometrico e razionale quasi per contrasto forniva le precise coordinate di un viaggio nel lontano però con l’opzione del ritorno. Con la mano destra, l’inesauribile Carnovale, colpiva le percussioni, con la sinistra batteva i tasti del piano e con un piede azionava il pedale della gran cassa della batteria in uno stile pianistico che è davvero appropriato definire percussivo.

In una lunga iniziale ininterrotta suite si è passati dal richiamo alle melodie orientaleggianti ad un immersione in suoni più urbani ed atlantici evocati dal sax tenore con il quale Bearzatti disegna e progetta architetture e decori di una città tutta immaginata tra l’imboccatura, la tastiera e la campana del suo strumento.

Stupendo il brano dedicato a Paul Hindemit compositore preferito di Dario Carnovale, elegante, delicato e gentile, perfettamente a tema con lo stile che questo inedito duo dimostra di avere. Sognanti, incantate e ai profumi d’Oriente sono state le esecuzioni che hanno costituito il cuore del concerto che si è spinto fino a toccare le sonorità pastose e romantiche della Milonga e del Tango contaminandole con note mediterranee e Magrebine. Non sono mancati nemmeno virtuosismi ad ancia doppia da parte di Bearzatti che sembravano quasi voler evocare lo spirito di Rahsaan Roland Kirk sulle acque della laguna.

Anche in questo caso il vociare etilico del vicino chiosco non ha infastidito per niente il numeroso pubblico e i musicisti, regalando un effetto sonoro straniante e di contrasto all’esecuzione arricchendola di un colore che, con le giuste proporzioni, poteva ricordare alcuni passaggi di Black Market dei Weather Report che sorge, quasi per incanto, dai suoni di un autentico mercato africano.

Bene, bravi, bis tra gli applausi e, infatti, i musicisti decidono di concedersi chiudendo con un toccante omaggio al giovane, sfortunato motociclista Marco Simoncelli, perché forse solo la musica è in grado di lenire il dolore di un ricordo.

© Flaviano Bosco per instArt