Cormons, 23-10-2019 – Circolo Culturale Controtempo – JAZZ&WINE OF PEACE 2019 – Teatro Comunale – BILL FRISELL HARMONY (USA) Bill Frisell: electric guitar Petra Haden: voice Hank Roberts: cello, vocals Luke Bergman: vocals, baritone guitar – Foto © 2019 Luca A. d’Agostino / Phocus Agency

L’origine mitica del vino è attribuita alle lacrime che Dioniso versò sul corpo del giovane amico Ampelo morto per raggiungere un succulento grappolo d’uva dopo essersi malamente arrampicato su un alta pianta di vite. Le stille cadute dagli occhi del dio si mescolarono al sangue e al frutto della vite facendo sgorgare il prezioso nettare. Dal nome del ragazzo deriva l’ampelografia, la disciplina che studia, identifica e classifica le varietà dei vitigni.</span>La benefica pianta è in grado di ridonare la vita nel sacrificio nelle sue varie accezioni di aqua vitae e albero della vita, o quanto meno di regalare l’oblio e lenire i dolori. Quella della vinificazione è una sapienza antica carica di valenze mitologiche e psicoanalitiche; lo sanno bene a Cormòns, così come sanno che è solo l’armonia tra la luce, il calore, la coltura e la cultura del vino a rendere possibile il miracolo che transustanzia le remote lacrime di dolore del dio in gioia per il palato e per il cuore.

Se pensiamo, con un po’ di fantasia, ai filari del Collio come al pentagramma di un enorme spartito e agli acini come ad una bizzarra notazione musicale, non potremmo immaginare nessun altro luogo più votato alla musica. Se poi facciamo volare ancora un po’ la nostra fantasia, magari aiutandoci con un altro calice dell’ambrosia delibata dagli dei, potremmo scambiare i filari con il loro intrico di pampini e di fili metallici che li sostengono, per la tastiera di uno strumento a corda, che so, un violoncello o una chitarra. Il logo stesso di Jazz & Wine of Peace che da 22 edizioni fiorisce e fruttifica tra queste vigne, è ispirato ad un pentagramma che assomiglia tantissimo ad un filare.

Tenuto conto di tutto questo abbiamo disegnato il paesaggio ideale per l’esibizione di Bill Frisell e dei suoi musicisti. Il chitarrista è giunto al teatro comunale di Cormons per una tappa del suo tour mondiale che lo vede protagonista in tutti i teatri più prestigiosi del mondo, e non è un modo di dire, per presentare il suo ultimo lavoro, Harmony prima sua incisione edita dalla celeberrima Blue Note.

Lo accompagnano tre musicisti di eccezionale valore. Prima fra tutti la cantante Petra Haden, geniale figlia di uno dei più grandi contrabbassisti che la storia del jazz ricordi, Charlie Haden. Al violoncello, ispirato e meditabondo, Hank Roberts in perfetto equilibrio tra le suggestioni della musica cameristica e il blues più ruvido e scabro. A tenere le fila del ritmo la chitarra baritono di Luke Bergman anche lui apparentemente distaccato e pensoso ma capace di una grande dolcezza.

Il trio appare serafico e concentrato ed è davvero un piacere fisico ascoltare l’accordo delle loro voci a commento della maestria con cui “toccano” i loro strumenti.

Sono loro tre a cantare le meravigliose canzoni dell’ultimo lavoro di Frisell; da lui composte ma ispirate al grande Songbook tradizionale americano. È un trionfo di melodie folk, bluegrass, western, country sussurrate, bisbigliate, suggerite, mormorate in modo mai sguaiato o troppo doloroso.

Non c’è nessuna ostentazione o eccesso nemmeno nei momenti più dolorosi, in questo lavoro che prosegue la lunga ricerca del chitarrista americano che, dopo aver accordato velocemente la propria fedele telecaster nera, fa scaturire dalle sue dita un’atmosfera rarefatta e sospesa, sostenuta da una musica intima, eterea, evanescente ma mai effimera, al contrario, equilibrata e sospesa, in una meditazione assorta di pensieri melanconici e autunnali di foglie dai colori ramati. Musica per la mente, lo spirito e per il cuore.

La vocazione del festival di Cormòns è quella di essere internazionale e diffuso sul territorio tra ville e cantine. Il livello dei musicisti che intervengono alla rassegna è altissimo, ma la loro caratura e il loro prestigio non va mai a discapito di un’aria di famiglia che si percepisce immediatamente già solo passeggiando per le vie della deliziosa cittadina. Così, durante il festival è facile entrare in una qualunque pizzeria per una capricciosa e un bicchiere di vino, prima del concerto, e trovar posto nel tavolo a fianco di uno dei più importanti chitarristi del nostro tempo e dei suoi fedeli pards, più tecnici e roadies, tra una caprese e il rosso rubino di un altro calice.

Tutto questo ben prima delle meravigliose ebbrezze musicali delle esibizioni.

Petra Haden, figlia di tanto padre, è una vocalist dalle straordinarie doti con un senso di nostalgia nella voce in grado di ammorbidire le scorze più dure degli scettici.

Nel canto a cappella con gli altri della band, escluso Frisell che si riserva di arpeggiare, è di straordinaria efficacia e suggestione.

Durante l’esecuzione di Deep Dead Blue dall’omonimo raffinatissimo album di Frisell con Elvis Costello, era del tutto evidente la loro felicità e la gioia per le emozioni che stavano intessendo nell’atmosfera rarefatta e attenta del teatro. Lo scambio di occhiate complici e di sorrisi, durante alcuni passaggi particolarmente brillanti e complicati, bastava a trasmettere quella sensazione di gioiosa armonia che è il senso stesso delle composizioni di questo ultimo lavoro di Frisell.

Far from the cruel colored day

Leave me in my monochrome

Till a find a finer hue

Beyond the deep dead blue

Sia detto senza alcuna irriverenza e con solo un pizzico di ironia, il concerto è una cantata in famiglia attorno al focolare, in un giorno di festa, durante il quale lo zio chitarrista e la zia canterina nel loro salotto con l’aggiunta di qualche ispirato amico, ci deliziano e satollano con primizie e delizie musicali di stagione che finiamo per sentire così nostre da non volercene più andare. Sentimenti autentici di un intimità familiare che sono un impiastro curativo per le anime affrante, un balsamo lenitivo, un elisir di lunga vita oppure un vino da meditazione da sorseggiare in tutta calma alla luce della luna.

Bil Frisell non dice una parola durante l’esibizione ma, pacioso e sereno, ringrazia più volte il pubblico guardando da dietro le spesse lenti con occhi timidi e trasognati visivamente contento della musica che sta portando in giro per il mondo. Sofisticato ed elegante ma, allo stesso tempo, tanto informale dall’apparire quasi dimesso con l’effetto di mettere a proprio agio chiunque.

Si susseguono una lunga teoria di composizioni eterogenee ma accomunante dal medesimo trasporto che genera il ricordo lontano degli affetti più cari.

Memorabile, eseguita a cappella senza alcun accompagnamento musicale la struggente Red River Valley, una nostalgica canzone della frontiera americana che racconta di una bella dagli occhi splendenti e dal dolce sorriso che, per cause di forza maggiore, deve lasciare la valle del fiume rosso. L’affranto cow boy che si era illuso di averle rubato il cuore la scongiura che, una volta ritornata alla sua casa sull’oceano, si ricordi delle dolci ore passate insieme nella valle del fiume rosso.

But remember the Red River valley

and the cow boy who loves you so true

Una vera sorpresa sono state le prime note di Space Oddity di Bowie, intonate dall’ensemble nel finale del concerto, in una versione acustica del brano di inaudita bellezza. Non è stata per nulla una scelta azzardata della scaletta anzi, è vero il contrario. D’altronde il Maggiore Tom, di cui si parla nella canzone, non è nient’altro se non uno sfortunato cow boy spaziale perso nella siderale oscurità dell’ultima frontiera.

For here am I sitting in a tin can

Far above the world

Planet Earth is blue

and there’s nothing I can do

C’è ancora tempo per un bis l’incredibile Wagon Wheels una canzone western risalente al tempo dei primi pionieri con il violoncellista a fare da basso con impensabili tonalità gravi che pregavano le ruote della carovana di riportarli tutti a casa.

Ma le sorprese non erano finite, prima di darsi per vinto, arrendendosi alle meravigliose emozioni che aveva saputo evocare, il quartetto ha fatto vibrare i cuori di tutti i presenti in sala, spingendoli a cantare a squarciagola We Shall overcome, il grande inno alla resistenza e alla pace derivato da un canto tradizionale religioso che Pete Seeger e poi Joan Baez consegnarono alla storia della rivendicazione dei diritti civili e degli afroamericani ma che appartiene a tutti le donne e agli uomini di buona volontà del mondo. Non poteva esserci niente di meglio, infine che brindare tutti insieme sul palco con il vino della pace appositamente selezionato per la kermesse.

We shall live in peace

we shall live in peace

we shall live in peace some day

…Oh, deep in my heart, i do believe

We shall overcome some day!

© Flaviano Bosco per instArt

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