La seconda serata della rassegna jazzistica invernale udinese ha presentato due splendidi concerti, senza por tempo in mezzo, passiamo immediatamente alla loro recensione.

Angelo Comisso trio “Numen” Angelo Comisso. Pianoforte. Alessandro Turchet: Contrabbasso, Luca Colussi: Batteria.

Tra un brano e l’altro alcune Promenades, delicate improvvisazioni anche estemporanee che da sole basterebbero a definire l’incanto di un’esibizione davvero raffinata e godibile. Il sound complessivo è stato fin da subito lieto, liquido, luminoso e sereno. Comisso rifletteva sullo Stainway & sons, mentre Colussi si “allegrava”con il suo tocco delicato sui bordi del rullante e la sua battuta spesso legnosa e metallica. Ai canonici crescendo si susseguivano dei larghi andanti su radure sonore che disperdevano il fitto degli accordi. Turchet ha la rara virtù di saper trasformare il suo strumento da ritmico a melodico con bordoni morbidi e rotondi. Il drumming di Colussi sa essere scarno, essenziale e deciso, dritto al punto senza gli eccessi virtuosistici ed esibizionistici di tanti suoi colleghi di cui sono piene le fosse e le tasche.

Le improvvisazioni, di cui si diceva, sono pura avanguardia come si usava nei bei tempi andati. La musica si scompone, dissemina e ricompone, sparisce e riappare quando vuole in una sorta di alchimia strana e inafferrabile della quale nemmeno i musicisti sembrano essere perfettamente consapevoli. E’ una magia che si da solamente nel momento in cui si compie durante il concerto dal vivo e in presenza, come siamo costretti a dire oggi. Nella sala, con il pubblico attento si compie un rito che è del tutto irriproducibile; suoni e sensazioni non saranno mai gli stessi qualunque mezzo si utilizzi per diffonderli in altro modo. Nessuna forma di riproduzione potrà mai restituire le emozioni che si provano standosene seduti in platea nemmeno le cosiddette “esperienze immersive” che sono di certo valide ma che fanno parte di un’altra modalità di usufruire della magia della musica.

Anche all’archetto le capacità di Turchet risultano seducenti e a tratti perfino incantevoli.

Quelli del progetto “Numen” confluiti in un cd inciso da Artesuono di Stefano Amerio, sono tutti brani di grande tensione spirituale dal lirismo contenuto e dall’afflato perfino mistico. La splendida incisione è già stata recensita su questa stessa rivista da Luca A. d’Agostino.

Colussi spesso guida il proprio treno di piatti e tamburi evocando il tema del viaggio in una conversazione sostenuta dall’incanto tra la tastiera e le pelli. E sono dolci sussurri, fatti di quasi niente, alito di appena un attimo. Tutto sembra essere cinematografo e nuvole in una musica per immagini vibranti, scandite una dopo l’altra nella gioiosa esplosione e nella cascata di fiori che copre il pentagramma. Quello che il trio con decisione ci sussurra all’orecchio è felicità pura, d’erba e di sole, mentre fuori il proverbiale gelido inverno di Udine è già bel che arrivato.

Il brano di Piazzolla che ad un certo punto propongono, dedicato al centenario della nascita, appare subito lirico e sognante e si apre con il batterista con le bacchette felpate sulle pelli in un fare interrogativo e quasi marziale. Il pianoforte regala ricordi di lontani amori svaniti nel vento come Foulards, rotolati distanti come palle di vecchi giornali che ormai nessuno legge buoni solo per tirarci quattro pedate immaginando il Maracanà di Rio de Janeiro e il boato dei tifosi sugli spalti.

Alianti volano spericolati in un altro brano davvero intenso. I tre fin dalle prime note sfrecciano nei nervosi cieli della musica portati dalla brezza che li sostiene e li fa volare alti e irraggiungibili per poi picchiare giù dritti come falchi pellegrini, fatti d’aria e di vento, taglienti come il filo delle spade e veloci delle loro ali mentre sotto di loro scorre e rotea il mondo piccolo che le note ci aiutano a dimenticare.

Nell’immancabile e graditissimo bis splende “Mood Indigo” nella sua classica e sorniona brillantezza, sembra di vedere una luna dagli occhi di gatto che ci guarda e sorride con le fruste sul rullante e sui piatti, dall’alto dei suoi accordi al contrabbasso e dei suoi tasti felpati al piano. Ma è solo un breve attimo e poi la lama delle nuvole taglia la pupilla del tempo rimasto e allora non resta che salutare e applaudire

Foto di © Angelo Salvin

Art Trio. Andrea Centazzo: Percussioni. Roberto Ottaviano: Sax soprano. Franco Feruglio: Contrabbasso.

Il Komandante Giancarlo Velliscig presentando il trio di “giovanotti” che stava per esibirsi ha tenuto ad affermare che il succo dell’arte dal vivo è la condivisione comunitaria e non il segnale digitale ed è proprio il concetto che abbiamo ribadito più sopra.

Udin&Jazz Winter ha voluto però introdurre una coda ai concerti di quest’ultima edizione con il progetto Muudpodcast che diffonde, attraverso i social, un modo di fare intrattenimento e approfondimento musicale del tutto nuovo.

In sostanza, finiti i concerti sul main stage della sala Pasolini ci si spostava nella cripta del Palamostre, l’accogliente e raccolta sala Carmelo Bene, dove chi non ne aveva avuto abbastanza e non era ancora sazio di musica poteva satollarsi con esibizioni live di giovani musicisti della scena udinese e regionale e godere anche della presenza degli artisti attraverso conversazioni e interviste. Una formula davvero godibile anche a distanza ma che in presenza ha davvero tutto un altro sapore.

L’Art trio per anagrafe e talento conserva la memoria della gloria del jazz in regione da almeno 50 anni. Centazzo è uno dei decani della musica friulana del jazz italiano in generale; il trono se lo merita non solo per l’età, lo sperimentalismo e l’avanguardia sono da sempre la cifra della sua creatività che non si sta per niente esauriente. Feruglio e Ottaviano sono straordinari musicisti che da decenni continuano, lontani dai grandi clamori, a fare un magnifico e intenso lavoro di musicisti inseriti in molte prestigiose collaborazioni.

Centazzo è ormai da anni residente a Los Angeles ma conserva un profondo legame con la sua terra.

Con sagace ironico puntiglio, prima dell’esibizione, ha voluto fare un elenco dei concerti che ha tenuto dagli anni settanta proprio sul palco del Palamostre che lo vide esordire nel giorno del suo compleanno, il 23 marzo 1972, proprio a fianco di Feruglio con un programma dedicato al Jazz Rock.

Ritornò parecchi anni dopo con “Cetacea” il suo progetto New Age e poi ancora nel 1995 con il primo dei suoi due concerti dedicati a Pier Paolo Pasolini, e di nuovo con la sua opera dedicata a Tina Modotti con Ottavia Piccolo come protagonista, per finire nel 2019 con un suo lavoro dedicato al centenario di Leonardo “sabotato da due istituzioni udinesi” come ha tenuto a sottolineare. E questi sono solo alcuni frammenti della sua grande attività di performer e compositore.

In questo suo progetto dedicato al grande sassofonista americano Steve Lacy, il suo percussionismo è del tutto astratto e slegato da ogni convenzione ritmica e sembra ispirato a poliritmie che potremmo definire dadaiste ed estemporanee. Il suo punto di riferimento non è il tempo propriamente detto e tradizionalmente inteso dalla battuta precisamente segnata dall’orologio del metronomo. Anche quest’ultimo c’entra ma solo come punto di partenza per estrose escursioni in territori che hanno poco a che fare con le radici blues e in generale con la musica afroamericana più main stream.

Per celebrare degnamente l’ingegno di Steve Lacy niente poteva esserci di più adatto che l’approccio non convenzionale e aperto del percussionista friulano. A segnare il profilo delle geometrie del trio ci ha pensato Feruglio con le sue meditazioni sulle quattro corde, sempre, affidabile e preciso nell’esecuzione.

Ottaviano al sax contralto non è mai virtuosistico ed è quasi sempre dolente nei modi, ricorda molto da vicino le timbriche del Lacy più introspettivo anche in alcune sporadiche vocalizzazioni di grande effetto. Spesso la musica dei tre si fa cupa, drammatica, solenne mentre in altri momenti appare scanzonata, radiosa e gaia. I cembali che Centazzo percuote regalano una profondità al suono del tutto assente nelle percussioni più canoniche che lavorano sull’amplificazione delle loro casse armoniche. Anche se il suono della battuta è meno secco e preciso, quello che restituiscono quelle pelli in cornice è l’intensità tellurica delle cose, è il rombo di un temporale lontano che si avvicina o che se ne va, è il tuono di una batteria di cannoni, è lo schiocco di un ramo che cede sotto il peso della neve il latrato dell’artiglieria, i tamburi della guerra, Drums along the Mohawk. Tante sono le sensazioni che il musicista sa trasmettere con le sue percussioni che la mente ne è quasi disorientata, sono suoni che si “affollano”.

Tanto estroso e bizzarro Centazzo, quanto sono concreti e con i piedi musicalmente ben piantati a terra, i suoi compagni di merende. Il discorso del sax di Ottaviani è sempre assolutamente compatto e cristallino. E’ come una pietra fatta di sogni e di nuvole. Centazzo si concentra saltuariamente anche sul vibrafono in un gioco delle perle di vetro cristallografico.

Nell’esibizione dei tre c’è anche tempo per la free form con effetti “cartooneschi” alle percussioni di certo molto divertenti e insoliti. La rumoristica e il jazz estroso e apparentemente anarchico sembrano un retaggio di un paesaggio sonoro anacronistico che, invece, ogni volta che si esegue o si ascolta, dimostra d’avere ancora un sacco di cose da dirci e mantiene un’ottima espressività.

A volte sembra che Centazzo “sbatta” le sue bacchette contro una ringhiera tanto sono metallici, freddi, impersonali e urbani i suoni che produce aiutato anche dall’esiziale elettronica; non a caso si è conquistato nella sua pluridecennale carriera un posto di riguardo tra i grandi maestri delle percussioni a livello internazionale.

La musica dell’Art trio sa essere comunque anche notturna, chiusa, angosciosa, alternando momenti di siderale freddezza ad altri del tutto ballabili che sono quasi trappole per catturare i sentimenti più diversi, “acchiappasogni” appesi in alto a intercettare tutta la gamma dei nostri desideri.

A conclusione dell’intensa esibizione non è mancato un delizioso, significativo aneddoto raccontato da parte di Feruglio che ha dato il tono a tutta la meravigliosa serata. Il contrabbassista ha ricordato un vecchio concerto di Steve Lacy al glorioso auditorium Zanon di Udine. Nel bel mezzo dell’esibizione, nella gremitissima sala, si alzò un ubriaco con tanto di bottiglione tenuto per il “collo”, che blaterò qualcosa sui “glissando” rivolto al musicista sul palcoscenico per poi stramazzare a terra. Lacy, probabilmente divertito, imperterrito eseguì, per tutto il resto del concerto, una lunga serie di “glissando” che con uno strumento ad ancia sono di una difficoltà prodigiosa.

Momenti come quello valgono una vita e sono poesia pura, sono quasi la rappresentazione del jazz nella sua essenza più pura, non quella ieratica di tanti sacerdoti della musica cosiddetta colta che nelle esibizioni vedono e pretendono solo liturgia e perfezione esecutiva da esoteristi, ma una materia viva, paradossale, autoironica, fuori dalle righe anzi fuori da certe rigidezze del rigo musicale e dal modo di fruire la musica in modo compassato, bigotto e, come si diceva una volta, “piccolo borghese”.

Dell’Art Trio, oltre alla straordinaria e affascinante musica, che sanno creare insieme si fa apprezzare anche la grande autoironia che è propria solo dei grandi musicisti che sanno ridere di se stessi e di tutto con grande naturalezza e perfino piacere.

Una bella frase attribuita ad uno dei più grandi musicisti d’ogni tempo, Fryderyk Chopin, riassume perfettamente questo atteggiamento: “Chi non ride mai non è una persona seria!”

Flaviano Bosco © instArt

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