Da martedì 31 agosto a giovedì 2 settembre, Massimo Zamboni, in occasione di “Casa mia” – residenze artistiche in Carnia, ha tenuto un focus residenziale sul tema Montagna/Mondo: Mongolia. Il programma prevedeva vari incontri con il pubblico inseriti nel calendario di vicino/lontano mont, interessante e intelligente franchising della nota manifestazione udinese che da quest’anno risale verso il vicino nord, in un’esplorazione che muove dal vicino arco alpino per errare tra le catene montuose più lontane. A conclusione del suo soggiorno Zamboni aveva previsto un evento di “restituzione” della residenza artistica con proiezioni, interviste, reading, pittura digitale dal vivo e, naturalmente, musica.
L’ultima serata al teatro Candoni di Tolmezzo, ricca di straordinarie suggestioni, era incentrata sul volume scritto da Massimo Zamboni con la giovane figlia Caterina: “La macchia mongolica”(Baldini+Castoldi) un diario familiare di viaggio, scritto a più mani, che riassume circa vent’anni di vita del musicista emiliano e dei suoi cari. Niente di pietistico o troppo sentimentale e retorico (giusto un po’) ma un viaggio che, come sempre, è un ritorno in luoghi sognati e vissuti molti anni prima che hanno rappresentato un punto di svolta esistenziale.
Sul palcoscenico, davanti ad un folto e convinto pubblico, lo spoken poet Maurizio Mattiuzza ha intervistato a lungo e con un certo garbo l’autore che poi si è esibito in uno splendido reading musicale con lunghi brani dal suo libro e la proiezione di evocative immagini di Piergiorgio Casotti, autore del docufilm che documenta quest’ultima “spedizione” in Mongolia. A conclusione della densa serata non è mancata una performance musicale che ha visto Zamboni intonare alcuni classici tra CCCP e C.S.I e propri, accompagnato da Davide Sciacchitano, Carlotta Del Bianco e ancora Maurizio Mattiuzza mentre il video artista Cosimo Miorelli disegnava i suoi paesaggi di colori e luci sul grande schermo del teatro. Tra gli altri brani in scaletta: “Risplenderai, Del Mondo, Miccia prende fuoco, Annarella, Oh Battagliero”. Più di così non si poteva domandare.
Il suo primo viaggio in Mongolia Zamboni lo fece nel 1996 da membro dei C.S.I. il gruppo che aveva fondato insieme a Giovanni Lindo Ferretti suo compagno di viaggio dai tempi dei CCCP-Fedeli alla linea in quel di Berlino. Quella prima esperienza produsse l’album “Tabula Rasa Elettrificata” capolavoro assoluto del post-rock italiano, un libro (Mongolia in retromarcia) una serie di documentari per la trasmissione televisiva Geo & Geo (regia di Marco Preti) e un film per la regia di Davide Ferrario (Sul 45° parallelo) proiettato a Tualis di Comeglians secondo il calendario di vicino/lontano-mont 2021.
Per la famiglia Zamboni si concretizzò anche il desiderio di concepire una nuova vita che puntualmente si presentò qualche tempo dopo il ritorno in Italia con il nome di Caterina, figlia della steppa mongola e della pianura padana. E un po’ asiatica la piccola lo era davvero, tanto che alla nascita presentava una “melanocitosi dermica congenita in regione lombo-sacrale” caso piuttosto infrequente in Occidente ma tipica dei popoli della Mongolia.
Oltre il 90% della popolazione presenta una macchia azzurra a livello dell’osso sacro alla nascita che si riassorbe non oltre la pubertà ma che, in casi molto rari, ha forme persistenti o recidive. La causa è del tutto sconosciuta se la cavano così gli scienziati occidentali; per la tradizione mongola, invece, è un segno d’orgoglio e d’appartenenza. Al compimento dei 18 anni Caterina convinse i già ben disposti genitori a riportarla nei luoghi in cui fu concepita. Questo ritorno a se stessa della ragazza e dei suoi è documentato ancora una volta da un film, un disco e un libro di viaggi.
Tra il Lago Baikal e la capitale della Mongolia Ulan Bator insiste il massiccio montuoso del Khentei, è li che i popoli mongoli hanno la loro montagna sacra, il Burquan Qualdun sulla quale, secondo il mito, il lupo azzurro (Börte Cino) e la Cerva dorata (Qo’ai Maral) che simboleggiano rispettivamente il cielo e la madre terra, si congiunsero come Urano e Gea nelle cosmogonie occidentali, generando tutte le cose e, in quel caso, anche il popolo mongolo; la macchia azzurra è il ricordo genetico del mitico lupo; un segno nella carne del divino come nel Berit Milah, il patto della circoncisione nell’ebraismo solo che, in questo caso, il “danno” si aggiusta col crescere.
Fieri delle proprie tribù nomadi e dei propri clan costituiti anticamente di guerrieri invincibili con i loro micidiali archi compositi e le loro veloci cavalcature, nel XIII sec guidati da il fabbro Temüjin Borjigin, meglio noto come Gengis Khan (Grande oceano) e dai suoi successori, i mongoli conquistarono gran parte dell’Asia spingendosi a Ovest fino alle soglie dell’Occidente cristiano. Solo nel XVII sec la dinastia cinese dei Manciù riuscirà a spegnere definitivamente e annettere quello che restava di uno dei più formidabili e vasti imperi della storia.
Una leggenda vuole che le avanguardie mongole, dopo la conquista dei Balcani, arrivassero fino in Carnia, qualcuno dice fino all’attuale Casera Razzo per poi ritirarsi.
A metà del XIII sec, infatti, il feroce Gran Khan Ögödei morì per i suoi eccessi alcolici e l’Orda mongola rinunciò alla conquista dell’Europa ritornando verso Oriente. Alcuni climatologi dello Swiss Federal Research Institute, studiando gli anelli d’accrescimento degli alberi più antichi affermano che furono gli inverni molto ricchi di precipitazioni nell’Est Europeo a far desistere i Mongoli che faticavano ad avanzare con le loro cavalcature nel fango. Sinceramente suona meglio la tesi della cirrosi terminale del Gran Khan. Attualmente in Friuli Venezia Giulia risiedono in totale 12 cittadini mongoli di cui cinque in provincia di Udine.
Molte delle suggestive gesta di quel temerario popolo nomade sono racchiuse in un preziosissimo testo del XIII sec che raccoglie i racconti orali degli aedi mongoli: “La Storia segreta dei Mongoli” tradotta dal cinese antico per la prima volta dallo studioso russo Sergej Kozin nel 1941 e pubblicata nel nostro paese con tipica solerzia solo nel 1988 con una “succosa” introduzione di Fosco Maraini.
Questo è il sostrato dell’immaginario che ha costituito il punto di partenza dei viaggi di Zamboni, unito alle suggestioni del Milione di Marco Polo, dell’Historia Mongalorum di Giovanni da Pian del Carpine, forse dal resoconto dei viaggi del Beato Odorico da Pordenone e poi dalla “nostalgia del lontano” che pervade la sensibilità di artisti come lui. Questi, per scoprire e diventare se stessi, devono spingersi oltre le frontiere del possibile che si trovino lungo un canale navigabile del fiume Po (Anime galleggianti. Dalla pianura al mare tagliando per i campi, La Nave di Teseo 2016) o nelle immense steppe a nord delle vette Himalayane.
Nei film mainstream di Hollywood quando si deve rappresentare un viaggio nel misterioso Oriente si mostra sempre una cartina geografica con una linea che congiunge il luogo di partenza di solito l’Occidente pasciuto e consumista al più estremo e lontano Levante, ignoto e pericoloso; parafrasando un monito latino: “Hic sunt Dracones”.
La maggior parte delle persone, compreso lo scrivente, sentendo parlare della Mongolia non può fare a meno di ricorrere allo smartphone e alle mappe di Google per almeno farsi un’idea dei confini e delle dimensioni.
Non avevano le idee chiarissime nemmeno Ferretti e Zamboni la prima volta, per stessa ammissione di quest’ultimo e vent’anni di riflessioni non sono bastati per venirne a capo. Paradossalmente un mistero rimane tale anche quando lo si svela perché altrimenti non sarebbe autentico. Non è una farneticazione, nessuno può realisticamente nemmeno pensare di farsi un’idea di cosa significa l’immensa vastità della steppa mongola che, così come il deserto del Sahara, non può essere considerata solamente come un luogo fisico ma soprattutto psicologico e perfino spirituale.
Zamboni l’ha definito “un viaggio verso l’infanzia dell’uomo” dove gli abitanti vivono in simbiosi con il territorio allo stesso modo da millenni. Certo sono cambiati alcuni strumenti tecnologici ma i ritmi sono i medesimi. Un ambiente estremo come quello non permette grandi innovazioni ma richiede di essere assecondato, rispettato e non aggredito dall’uomo che può diventare, se indulge nella propria protervia, un ospite indesiderato.
Non è per niente facile attraversare quella Tabula rasa d’erba e sassi soprattutto per noi occidentali che abbiamo la mente ingombra dei sedimenti che vi ha lasciato la nostra storia e tradizione fatta di rovine e mausolei. Si viaggia per essere “viaggiati” lasciandosi trasportare, esattamente come fanno i nomadi che non violentano la terra con vomeri, fondamenta o picconi che feriscono una terra che mal li sopporta, ma sempre in movimento, tolgono il disturbo al primo segno di insofferenza della Grande Madre terra. Come nomadi erranti, dobbiamo continuamente imparare a pascolare il nostro gregge di pensieri sottraendolo ai famelici lupi della notte della nostra cupidigia. Ci viene richiesto di lacerare in nostro se e di essere contemporaneamente presenti a noi stessi e disseminati nella distanza, non è facile proprio per niente.
Con cento ore di treno da Mosca si arriva piuttosto storditi a Ulan Bator capitale della Mongolia. In un paese grande cinque volte l’Italia vivono poco più di tre milioni di persone, la metà delle quali affollano la capitale che non ha nulla da invidiare alle orrende metropoli occidentali con i palazzoni di vetro e acciaio.
La grande differenza tra i due viaggi successivi a distanza di vent’anni Zamboni l’ha notata soprattutto nello spopolamento dei piccoli centri in favore della seduzioni della città che con le sue esche luccicanti induce l’insoddisfazione nel cuore di ogni pastore o contadino per condannarlo a diventare un’unità di produzione-consumo. Proprio come cantavano i CCCP: “Produci, consuma, crepa”.
Il capitalismo però non è onnipotente e la possibilità di creare un mondo nuovo, diverso e migliore rimane intatta nella “Mongolia interna” dei nostri cuori, enorme oceano di sentimenti ed emozioni che dobbiamo imparare ad attraversare e comprendere.
In conclusione di serata Zamboni ha confessato al pubblico che guardando sua figlia crescere e confermarsi nella propria identità durante il viaggio“nel sorriso e nel pianto” gli è tornato in mente il proposito dei propri diciotto anni cui ha sempre tenuto fede di un’esperienza al giorno. Arrivato alla soglia dei 60 anni, splendidamente portati, però sente l’esigenza di tornare innocente e di liberarsi da tutte le catene del desiderio che offuscano la nostra mente per poter così restituire quello che l’esperienza ci ha donato. Il pubblico del Candoni ha capito perfettamente il dono meraviglioso che ha ricevuto dall’artista, non solo durante la serata ma da almeno quarant’anni, ringraziandolo con calorosi applausi.
Flaviano Bosco © instArt