Splendide giornate a Pordenone per la presenza dei giovani musicisti della Gustav Mahler Jugendorchester. Da cinque anni ormai il Teatro Verdi di Pordenone e la città tutta ospitano il residenziale e le masterclass dell’orchestra che ricambia con meravigliosi concerti a tema pieni di vigore, d’emozione e di vita.
Due diverse compagini orchestrali, formate da quaranta elementi ciascuna, si alternano in esecuzioni di altissimo livello che mettono alla prova le abilità acquisite durante il periodo di studi e la permanenza in orchestra.
>E’ davvero raro, soprattutto nel nostro paese, vedere un’orchestra formata esclusivamente da giovani (il limite d’età è ventisei anni) che vengono messi in grado di suonare e imparare al meglio delle loro possibilità.Senza voler far troppa retorica o la solita polemica, se qualcuno volesse ulteriori informazioni sullo stato disastroso della nostra musica ante e post Covid si legga qualcosa sul recente caso dell’ex sovraintendente del Teatro Regio di Parma William Graziosi che ha messo in luce l’endemica, virale epidemia di corruzione che ammorba i teatri dell’opera di tutta la penisola (La Repubblica, 28 maggio 2020) oppure, più semplicemente, si riveda uno dei capolavori più sottovalutati e dimenticati del cinema italiano: Prova d’orchestra di Federico Fellini.
A confronto con questa paralisi degenerativa che rende lo stato della musica italiana comatoso e di estrema prostrazione, il Verdi di Pordenone, sotto la direzione artistica di Maurizio Baglini, appare come un meraviglioso miraggio che non ci inganna ma è del tutto reale.
E’ davvero un’emozione impagabile ascoltare e vedere tanti giovani di talento impegnati in pagine sinfoniche di grande complessità e bellezza; il suono complessivo dell’orchestra o di alcuni elementi potrà anche apparire ai puristi più intransigenti ancora ruvido o acerbo, ma è di certo pieno di linfa e vivificante, fresco e pieno d’energia positiva.
Finiti i preamboli, andiamo al cuore delle due serate di concerti al Verdi e del loro contenuto e significati. Lo strano titolo di questa recensione è tratto da un breve passaggio del Dialogo tra un islandese e la Natura di Giacomo Leopardi contenuto nelle sue Operette morali, odiato da qualcuno nei beati anni del castigo scolastico ma di certo riscoperto con piacere nell’età adulta. Un islandese che non sopporta i propri simili cerca rifugio e conforto ai propri dispiaceri nella natura ma si accorge che anche questa lo respinge, anzi, peggio, che non si cura minimamente delle sue sofferenze e che si dimostra completamente indifferente. Cerca allora di fuggirla scappando nei luoghi più remoti e inospitali, finendo al contrario per incontrarla fatalmente vis à vis sotto forma di colossale figura femminile con la quale intesse un dialogo, non accorgendosi del sopraggiungere di due leoni, così rifiniti e maceri d’inedia che hanno appena la forza di divorarlo.
Il nostro rapporto con la natura e il senso d’abbandono e solitudine che attanaglia la nostra esistenza è uno dei temi fondanti della riflessione e dell’arte della modernità, da Montaigne agli impressionisti, dalle Avanguardie fino alla Land Art. In questa temperie è stata immersa, com’è logico, anche la musica del XX sec. che molto spesso ha cercato di dialogare con i reconditi inconsci dell’umano mettendoli in diretto rapporto con l’assolutamente altro dell’animalità e, più in generale, con il mondo cosiddetto della Natura.
Il programma dei concerti del consueto periodo residenziale della Gustav Mahler Jugendorchester al Teatro Verdi di Pordenone quest’anno verteva proprio su queste tematiche. Ben sappiamo quanto la cultura musicale europea e tedesca in particolare si sia interrogata su questo tema da prospettive spesso del tutto diverse e perfino in netto contrasto tra loro. Da una parte troviamo il sentimento del Sublime nelle sue varie accezioni (Burke, Kant, Schopenhauer), fondamentale per l’estetica del Romanticismo che è, in sostanza, il senso di smarrimento, timore, frustrazione che prova l’uomo di fronte alla magnificenza della Natura impastato con un senso di attrazione, fascino e desiderio. Dall’altra si evoca la negazione di ogni possibilità di conforto e confronto con gli elementi naturali data la nostra reciproca, sostanziale indifferenza. Per di più, è necessario comprendere il tema evoluzionistico e quello di conquista, controllo e sfruttamento delle risorse. E’ un argomento vastissimo che, per limitarsi all’universo della musica, ha prodotto un numero di composizioni incalcolabili. Tobias Wögerer, il giovane direttore dell’orchestra fondata da Claudio Abbado per formare i futuri maestri d’orchestra di tutta Europa, ha voluto un programma che permettesse un breve, squisito, raffinato e ricercato escursus che permettesse una sorta di percorso in musica sui sentieri della Natura alla scoperta delle segrete paure e illuminazioni del nostro inconscio e del nostro tempo.

Idillio della natura (prima serata)
– Anton Webern Fuga (2 Ricercata) a sei voci da Johann Sebastian Bach. L’offerta musicale. Entra l’orchestra sul palco e si vede che sono davvero tutti giovanissimi: il timpanista sembra un bambino pettinato con la riga in mezzo e con le orecchie a sventola, perfino il direttore Tobias Wögerer, classe 1991, fa venire in mente un Harry Potter in frac. Non può essere una cosa seria. Poi cominciano a suonare e i pregiudizi di alcuni vengono spazzati immediatamente via da un sol colpo di bacchetta. Il lungo cammino tra gli abeti di risonanza della Natura europea in musica e dei sentimenti di letizia e di pace ma anche di frustrazione e di rivalsa che genera il nostro rapporto con essa comincia sulle note di uno dei brani più famosi di Bach nella riscrittura di Webern. Delicatissimo, dall’incedere leggero e aereo tanto da far visualizzare un uccello dalle larghe ali che salein una corrente ascensionale lontana, in alto nel cielo. Sembra di vederlo girare come parte degli stessi elementi di cui è composto, come un angelo che solo ritorni alla splendente beatitudine cui appartiene. Il timpanista bambino appare ora come un gigante armato di ogni tuono del cielo e il direttore un giovane Achab che guida la sua nave nei mari del mistero.
Gustav Mahler Lieder eines fahrenden Gesellen (Canti di un viandante) arr. Arnold Schemberg. Nel 1910 nella vecchia città universitaria di Leiden in Olanda, Gustav Mahler incontrò Sigmun Freud per una serie di conversazioni a sfondo psicoanalitico. In quell’occasione, il compositore, profondamente afflitto per le traversie del rapporto con la moglie Alma, fece riemergere i profondi traumi della sua infanzia e giovinezza che non solo furono determinanti per la sua esistenza ma che di certo condizionarono anche la sua arte. E’ del tutto evidente che da questi, che Quirino Principe ha definito “Canti di uno in cammino” composti molti anni prima, prende le mosse una necessità di compensare ed esprimere un profondo malessere che non è, banalmente, solo quello di un uomo dalla biografia compromessa dal violento, crudele autoritarismo del padre e dalla dolorosa remissività della madre ma che incarna drammaticamente la frustrazione di un intero secolo senza più punti di riferimento che si balocca ancora di nostalgie fiorite ma che si sta avviando a grandi passi verso un inaudito bagno di sangue. Uno strano figuro che è stato un tempo felice, si aggira disperato per i boschi, ha visto la sua amata congiungersi con un altro e il mondo gli è crollato addosso. Di colpo ha compreso che non c’è più posto per lui nella società degli uomini.
Nel primo movimento, il meraviglioso triangolo trasforma i versi e i suoni in una rugiada scintillante che ci fa proprio immaginare la piccola radura nel fitto del bosco che vediamo attraverso gli occhi del viandante e lo sentiamo proprio quel piccolo ruscello dove guizzano le trote d’argento. E’ quasi un’estasi in mezzo alla vertigine dei fiori. Così come trasaliamo per uno scroscio minaccioso proprio come quello che davvero aveva minacciato il teatro Verdi solo poco prima del concerto. Arrivano cupi anche i pensieri neri, le ubbie, il vagare sconsolato e afflitto e quel rimuginare in mezzo ai mugugni della disperazione che si trasforma in passi pensosi e meditabondi in una stupenda esecuzione orchestrale. Alla fine, grandi acclamazioni per la soprano Angela Denoke, allieva diretta di Claudio Abbado, che ha accompagnato il pubblico con il proprio canto nel fitto della foresta. Brava! Brava! Gridano dalla platea, mentre scrosciano gli applausi che davvero si merita.
– Franz Schubert, Rosamunde D797. Ampia pagine orchestrale di grande respiro, romantica e solare nel cristallino suono dei flauti e degli altri legni, in particolare del clarinetto e poi degli ottoni splendenti. Una musica che è pacificata e pacifica. E’ poi facile dire dei violini e dei violoncelli, ma che dire delle due corniste, laggiù in fondo a sinistra e della giovanissima trombonista dalla parte opposta della sezione fiati. La musica, variamente rielaborata, sono quelle di scena per un dramma teatrale (Rosamunda, principessa di Cipro) opera di una strana figura di scrittrice ottocentesca dal carattere molto estroverso e cocotte: “Helmina (cioè Wilhelmine) Christiane von Chézy (“nata baronessa Klenck”, come amava sottolineare, nel 1783, morta nel 1856) era una specie di virago delle lettere, tanto salottiera quanto invadente, che si dava delle arie e sapeva far fruttare le proprie conoscenze di cui godeva, insomma, una femmina testarda, spregiudicata e temibile, abilissima nell’intrufolarsi nell’ambiente artistico”. Schubert ne rimase affascinato e scrisse per lei una musica allegra e divertente adatta al palcoscenico e al balletto. L’Ouverture eseguita introduceva la rocambolesca, implausibile vicenda della piccola principessa non ben voluta a corte e abbandonata neonata, salvata dal solito pastore, cresciuta in campagna in mezzo alla natura. Dopo alterne vicende, tutto si risolve nell’inevitabile lieto fine. Giusto per capire il clima e l’idea della natura che Schubert in gran parte condivideva, basta dare un occhiata ai versi della parte vocale del coro dei pastori dell’opera: “Qui sui campi con guance rosee, Pastorelle, correte a danzare, lasciate che il piacere della primavera vi avvolga, l’amore e la gioia siano un eterno maggio. Qui ai tuoi piedi, o amata noi ti salutiamo, Signora dell’Arcadia; flauti e pifferi risuonano, si rallegrano i campi fioriti, Di giubilo risuonano le dimore verdeggianti, Quelle aree delle vette e quelle profumate dei campi, Risplendono e brillano d’amore e di desiderio. Nelle ombrose valli finiscono le sofferenze del cuore innamorato”. Insomma, Pace, Natura, Amore per flauti, oboi fagotti e archi. Fin troppo bello per essere vero, una specie d’idillio.
– Richard Wagner, Idillio di Sigfrido. Perfetta conclusione dunque con questa particolarissima composizione cameristica suonata la prima volta la mattina del 25 dicembre 1870 nella villa di Wagner a Lucerna da una piccola compagine orchestrale. Wagner l’aveva concepita come regalo di compleanno per l’amata moglie Cosima che nel proprio diario scrisse: “Quando mi sono svegliata ho sentito un suono che cresceva d’intensità, e non mi sembrava più di sognare, la musica mi avvolgeva, e che musica! Al termine Richard mi raggiunse insieme ai nostri cinque figli e mise fra le mie mani la partitura del suo “regalo sinfonico di compleanno”. Ero in lacrime, ma lo era anche il capofamiglia: Richard aveva disposto l’orchestra nelle scale e così aveva consacrato la nostra casa di famiglia di Tribschen per sempre! L’Idillio di Tribschen, così era intitolata la composizione”.
L’amore sincero per la propria moglie purtroppo era, in certi ambienti, cosa piuttosto rara. Il rapporto tra Mahler e la sua Alma, di cui parlavamo più sopra, ne è un triste esempio. Quello che Wagner coltivava per la sua Cosima era, al contrario, immenso e l’idillio che compose per la sua felicità ne è forse una delle prove definitive. Ad un pigro risveglio, in un mattino luminoso, con i primi impertinenti raggi del sole che penetrano tra le tende appena accostate, mentre si vorrebbero ancora cinque minuti, solo cinque minuti di languore, prima di essere strappati dal tepore delle colti ed essere baciati in fronte da quella luce. Sono proprio le corniste di cui parlavamo più sopra a darci la nozione del lontano con i loro suoni che sono come un onirico vagheggiamento.
Il pubblico del Verdi è trascinato nel sogno di quel mattino d’inverno ed è un vero piacere farne parte e il silenzio assoluto nel quale si attende per lunghi istanti il gesto del Maestro per spellarsi le mani ad applaudire è di un’intensità vibrante che si direbbe quasi sonora se non fosse quasi un paradosso affermarlo.

Attesa e Rinascita (seconda serata)
Quelle ninfe, le voglio perpetuare, chiare così le loro carni lievi, che nell’aria volteggiano assopite di folli sonni
– Claude Debussy Prélude à l’après-midi d’un faune arr. Benno Sachs. E’ un poema sinfonico che inaugura il cosiddetto “impressionismo musicale”. E’ stato pensato inizialmente come sottofondo musicale alla lettura del poema di Mallarmé che doveva andare in scena nel 1891, ma del quale non se ne fece niente. Debussy però teneva molto al lavoro che aveva fatto tanto che lo rielaborò negli anni successivi fino ad arrivare ad una versione definitiva due anni dopo. La prima esecuzione pubblica ebbe un fragoroso successo. Rimane memorabile anche la rappresentazione ad opera dei Balletti russi con Nijinskij come protagonista.
Per molti l’impressione è di una pagina di musica fluttuante e forse perfino inconcludente, con suoni sospesi che non sembrano poggiare da nessuna parte e nemmeno avere una direzione precisa o un senso.
Non sono considerazioni anodine, tutt’altro e l’impressione è che sia proprio questa una delle principali emozioni che l’autore voleva trasmettere e non solo Debussy ma lo stesso Mallarmé. Il desiderio, la passione dei sensi non sempre hanno una direzione precisa e nemmeno un preciso oggetto. Sono vento, fantasma, particella, onda, insetto che solo la musica e la poesia sono in grado a volte di evocare.
Sarebbe un pomeriggio afoso come tanti quello descritto in musica da Debussy, se non fosse per quell’essere di natura che si sveglia tra le fronde del sottobosco carico di desiderio e di languore. Al suono del flauto traverso, con lui aprono gli occhi la contemporaneità e il senso della natura che ancora ci portiamo dentro con tutte le sue morbidezze, gli erotismi e gli esotismi forse in parte fasulli, ma così carichi di tensione emotiva e di aspettative da nutrire profondamente il nostro immaginario di suoni che sono come sogni pieni di tenerezze e stupore infantile.
Nel cemento delle nostre città, la natura diventa uno scenario lontano, laggiù nel tramonto dorato, un’opportunità insperata, un paradiso perduto irraggiungibile e misterioso. Preziosa l’interpretazione della flautista e del clarinetto.
Nello stanco ed immobile deliquio/ fresco il mattino soffoca al calore/ se lotta, nessun murmure d’acqua/ che il mio flauto non versi alla boscaglia/ irrorata d’accordi; e il solo vento / fuor dalle canne pronto ad esalarsi/ prima che sperda il suono in una pioggia/ arida è, all’orizzonte, senza ruga,/ senza molto, il visibile sereno, /artificiale soffio: ispirazione che torna al cielo.
– Arnold Schöemberg Erwartung (Attesa) op.17 arr. Fradisch Karaew. Maiuscola, drammatica interpretazione della soprano Angela Denoke che ha dato prova di una duttilità e di una forza interpretativa non comuni.
Dalle prime battute si entra immediatamente in un’altra dimensione sonora rispetto a Debussy e il contrasto è quasi violento. In questa Attesa tutto ha i toni più scuri e persino violenti e sembra, purtroppo, più vicino alla realtà tutt’altro che idilliaca e tanto meno pacificata che sopportiamo.
Il sogno morbido del fauno tra felci e corolle stillanti rugiada nel seducente bosco delle ninfe si è trasformato in un incubo, è stato sostituito da una specie di bosco Atro dove non si aggirano più le flessuose e snelle creature ma ombre di anime dolenti e sole in un ambiente tragico e ostile, gelido, sinistro.
I rari interventi dell’arpa restituiscono proprio questo senso di inquietudine già evocato dai toni gravi del corno di bassetto e dagli altri fiati e poi dai sordi colpi del timpano e dalla grancassa.
Intensa e raggelante in alcuni passaggi l’interpretazione della soprano tedesca impegnata in una performance vocale di difficoltà elevatissima tra canto recitato e onomatopee. Un basso tuba, in organico, faceva avvertire la sua presenza come una minaccia incombente, un lontano, sconosciuto mistero tragico che non tarderà molto ad inghiottirci.
– Dimitrij Šostakovič Concerto per pianoforte tromba e orchestra n. 3 in Do minore op.35.
Il fauno si è addormentato in un secolo e si è svegliato in un altro. I tasti d’ebano e d’avorio di un Pianoforte Fazioli grancoda sotto le dita del Maestro Baglini che tanto ha saputo regalare negli anni al Verdi di Pordenone e al suo pubblico appassionato e riconoscente. Il concerto è divertente e frizzante con alcuni momenti di puro trasporto e spensierata gaiezza ma a momenti anche pensoso e meditabondo con la tromba smeraldina di Martin Baeza Rubio che garantiva quell’elemento popolaresco e gioioso, quasi folklorico e pieno di colori saturi e sapidi con riverberi militareschi e sguaiatezza tutta circense. In un’atmosfera in definitiva chapliniana nella migliore accezione possibile del termine.
Un bis tutto speciale e davvero imprevisto e non protocollare. Il direttore artistico e pianista, rivolgendosi al pubblico, ha tenuto a sottolineare come, mentre in tutta Italia e nel resto d’Europa, i palcoscenici dei teatri restino sigillati, il Verdi di Pordenone si sia impegnato nel mantenere il livello altissimo delle proprie proposte. La famiglia del Verdi e quella dei giovani discepoli di Claudio Abbado della Mahler Jugendorchester sono riusciti ancora a stringersi in un abbraccio fraterno nonostante la normativa anti covid e il maledetto morbo. E’ una specie di miracolo dovuto alla follia visionaria di alcuni pazzi che credono fermamente che la musica sia la vera ancora di salvezza della nostra società, è un bene ed un bisogno primario irrinunciabile.
Sostakovic, alla corte di Spagna, in occasione della commissione di alcuni concerti, regalò alla regina Sofia un breve brano per tromba e pianoforte ad uso privato e quindi non destinato alla pubblicazione, escluso dal catalogo delle opere e quindi rimasto del tutto inedito. Il maestro Martin Baeza Rubio, che frequenta gli archivi reali, è riuscito a farsene una copia e con Baglini l’ha regalata come prezioso bis al pubblico del teatro.
Il suono della tromba ha degli evidenti richiami alla musica tradizionale spagnola, ad una certa passione per il dramma e per le passioni intense al crepuscolo quando la mosca cede alla zanzara e le figure delle cose cominciano a confondersi con le loro ombre. Il ruolo del pianoforte è limitato all’accompagnamento sui toni gravi.
La giornata del fauno si conclude a tarda sera con qualche timore ma anche con tanta speranza e con il cuore straripante della bellezza ascoltata ed evocata.

© Flaviano Bosco per instArt

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