Accelerata dallo sconcerto della pandemia, è tornata potente e impellente una gran voglia di ragionare sul nostro futuro immediato e remoto. Il clamoroso nuovo interesse per il ciclo fantascientifico di Dune di Frank Herbert, spinto anche dal film di Villeneuve, ne è un esempio lampante. È la necessaria illusione di pensare futuri alternativi, dopo che il forzato processo di isterilimento della nostra capacità immaginativa ha raggiunto il suo punto più basso durante i “beoti” (non beati) anni del castigo epidemico. Tra un tampone e l’altro ci è tornata voglia di futuro; nella situazione limite, abitati dalla catastrofe, abbiamo nuovamente avvertito in noi l’incontrollabile esigenza di ricominciare a progettare naufragi.

Lo spettacolo di Marta Cuscunà inizia nel punto esatto dove nel futuro si dirà che tutto è finito. Dell’antica, ubertosa biosfera rimangono solo mutanti organismi contaminati integrati ad un sistema di intelligenza artificiale che ha lo scopo di ricreare gli ambienti naturali in modo che la vita possa di nuovo germinare.
Non sono certo idee nuovissime, la fantascienza anche mainstream ci sta ragionando da decenni. In buona sostanza, una storia piuttosto simile era già stata pensata al cinema in 2002: la seconda odissea (Silent Running, 1972) di Douglas Trumbull e perfino in Wall-E di Andrew Stanton (Pixar 2008); in entrambi, macchine automatiche, di vario modello e fortuna, si occupavano di conservare la biodiversità sul pianeta devastato diventando “più umane degli stessi umani”.

Quello che è sempre sbalorditivo negli spettacoli della Cuscunà è vedere come l’attrice sappia dare vita, voce e corpo alle proprie sofisticate marionette. I suoi sono sempre “One Woman Show” e anche in quest’ultimo, a tenere la scena, sono bizzarre creature animatroniche (Earthbound) progettate da Paola Villani e ispirate alle opere dell’artista australiana Patricia Piccinini. La Cuscunà le muove abilmente tutte insieme grazie a qualche diabolico congegno, cambiando contemporaneamente registro vocale passando da una all’altra con una scioltezza e un’inventiva fuori dal comune. È un’istrionica performer in grado di tenere la scena con una selva di personaggi che scaturiscono dalla sua fantasia. Non si smetterebbe mai di guardarla.
Le tesi che l’attrice mette in scena con il suo spettacolo, sono quelle della filosofa Donna Haraway, che da anni lavora su un nuovo paradigma interpretativo della realtà biopolitica, nientemeno. Nella sua utopia i corpi sono ibridati e non è più possibile costruire gerarchie organiche e pseudoscientifiche con le quali da sempre l’umanità classifica quello che chiamiamo il “mondo di natura”, che è semplicemente un effetto del pensiero paternalistico e morale che ci abita.
Il principio di non contraddizione, d’opposizione, la logica e certa filosofia sono stati acuminati strumenti nelle mani di un sistema di potere patriarcale che ci sta portando dritti verso la catastrofe ecologica. Prima che sia troppo tardi dobbiamo capire che è necessario superare le categorie oppositive della conoscenza: naturale/artificiale, maschio/femmina, uomo/macchina, vivente/minerale.
Haraway ha condensato il proprio rivoluzionario pensiero “tentacolare” a partire almeno da “Manifesto Cyborg: Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo” (Feltrinelli, 1995), contribuendo a costruire un’estetica post-umana nella quale il tema dell’identità supera i generi e le barriere fisiche, sociali e psicologiche, rivendicando la possibilità di stratificarsi e mutare a seconda delle proprie rinnovate esigenze.
Al tema del “corpo” si sostituisce quello dei “corpi” che non sono più un contenitore, una prigione dell’anima, non più soma/sema (corpo/tomba) com’era nel Cratilo di Platone, nel quale il corpo è la tomba dell’anima che in esso sconta la propria pena.
Su questo atavico senso di colpa, che in altro contesto coincide con il concetto religioso di “peccato originale”, si è fondata la pseudo-conoscenza umana e il conseguente devastante Antropocene, età dei “figli di Caino” alla quale la Haraway contrappone il multispecismo e la transumanità del suo Chthulucene, che “si riferisce all’arte di vivere in un tempo profondamente disturbato, di sopravvivere nel disagio, coesistere con la devastazione. Dagli organismi cellulari endosimbiotici all’origine della vita, abbiamo bisogno gli uni degli altri in una simbiosi obbligata”.
In sostanza il binomio corpo-natura è un’invenzione culturale che vizia alle fondamenta il nostro modo di rapportarci al mondo; se vogliamo sopravvivere alla catastrofe ecologica, della quale vediamo i primi effetti,  dobbiamo rinunciare alla nostra sicumera umana, troppo umana. Marta Cuscunà ha costruito con grande coraggio uno spettacolo che mette in scena questa necessaria rivoluzione culturale a partire dal saggio/romanzo Staying with the Trouble della Haraway
Il sipario si apre su un gigantesco modulo spaziale (Capsula) preso direttamente da “2001: A Space Odissey” di Kubrik, atterrato vicino ad un esile alberello; un’unità umanoide semovente, che si sposta su un avveniristico monoruota, si prende cura della pianta entrando in diretto contatto con lei e facendola parte di una sorta di rete organica/digitale (rizomatica) che unisce tutto il bios residuo del pianeta ad un web informatico, in un super-organismo cosciente in cui si ibridano tecnologia e vita biologica in modo quasi indistinguibile, con il preciso scopo di preservare il pianeta. Le macchine hanno esautorato l’uomo nella conservazione della vita nel senso più largo e omni-comprensivo, visto il fallimento esistenziale dell’umanità che ne ha causato la quasi totale estinzione.
Nell’intelligente gioco scenico-teatrale, tra gli ultimi umani rimasti ci sono proprio gli spettatori in sala che vengono guardati e giudicati con sospetto dalle creature animatroniche alle quali l’incredibile talento della Cuscunà dà vita sul palcoscenico. Nel testo messo in scena non manca nemmeno l’ironia. Alcune situazioni risultano perfino comiche; quando l’umanoide fa il rapporto delle sue attività alla unità centrale la mente dello spettatore più agée corre subito all’alieno più famoso della televisione di qualche decennio fa, interpretato dal compianto Robin Williams: “Mork chiama Orson, rispondi Orson, Mork chiama…” Molto divertenti anche le voci sintetiche che la Cuscunà modula e che la trasformano in un risponditore automatico
Il fantastico lavoro dell’attrice, autrice e performer di teatro visuale di Monfalcone è perfettamente inserito nella nuova stagione del Teatro Contatto: Blossoms/Fioriture che, a partire da una metafora appartenente al mondo vegetale, vuole esprimere attraverso le arti performative la necessità di una nuove visioni fiorite e germinative della nostra realtà.
Il tutto è riassumibile a partire dal termine Rizoma (Rizhome), presente nel programma della stagione teatrale, con il quale i francesi Deleuze e Guattari intendevano un particolare modello semantico da opporre a tutti i modelli basati sulla concezione di albero (imperanti in tutte le discipline, dalla linguistica alla biologia). Il “modello ad albero” prevede una gerarchia, un centro e un ordine di significazione. Nell’albero i significati sono disposti in ordine lineare secondo gli autori: “A differenza degli alberi o delle loro radici il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni molto differenti e anche strati ed anche stati di non-segni. Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema a-centrico, non gerarchico e non significante… (Gilles Deleuze e Félix Guattari, “Mille piani. Capitalismo e schizofrenia”, Castelvecchi 1997 pag 33).
Alla Cuscunà infine sono stati tributati grandi e meritati applausi per uno spettacolo molto ambizioso e non sempre facile che dimostra tutto il suo straordinario talento e carisma. Brava!
E come dice la canzone che chiude lo spettacolo:
You’re just too good to be true
Can’t take my eyes off of you
…Pardon the way that I stare
There’s nothin’else to compare
The sight of you leaves me weak
There are no words left to speak.

instArt 2021 © / Flaviano Bosco

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