“Save The Love” è il motto che il Teatro Verdi di Pordenone ha scelto per la riapertura delle sue stagioni dopo l’orrore dell’epidemia. Da anni, la direzione artistica è impegnata in uno straordinario lavoro di divulgazione e di autentica formazione del pubblico attraverso spettacoli esclusivi e di altissimo livello affiancati da momenti di approfondimento e di confronto. Il teatro così inteso non è solo un luogo chiuso di fruizione ludica passiva a scopo ricreativo come molti lo intendono ma uno spazio aperto di confronto e di crescita personale e culturale.
Il risultato lo si è visto proprio durante questi ultimi terribili mesi. Il Verdi non è mai stato chiuso, non ha interrotto quasi per nulla le proprie attività di produzione, messa in scena e concertistiche. Certo anche questo teatro ha dovuto adattarsi alle restrizioni del periodo, ma la caparbietà del direttore, degli artisti e delle maestranze gli hanno permesso di rimanere vivo e vitale. Facciamo pure nomi e cognomi:

Giovanni Lessio, presidente del Cda del Teatro e di Cinemazero racchiude in se le migliori virtù che l’amministratore di attività culturali deve possedere: abnegazione, forza, determinazione, coraggio e umiltà anche nel sapersi scegliere i collaboratori.
Maurizio Baglini, consulente artistico musicale è forse il gioiello più splendente della sua corona. Pianista di fama internazionale, possiede una straordinaria sensibilità per la divulgazione. Molti sedicenti esperti ritengono che la cultura più autentica sia riservata alle menti in grado di accoglierla, una élite intellettuale di classe sociale abbiente e privilegiata. Insomma, per loro, “I poveri sono così perché sono ignoranti e così sono destinati a restare”.

Da cosa si riconosce lo stato di salute di una comunità piccola o grande che sia? Nell’ultimo sciagurato periodo ci siamo abituati a parametri via via più raffinati, misteriosi e inquietanti (tasso di mortalità, infezione, indicatori …)
Che uniti a quelli d’inflazione, occupazione, scolarizzazione, produzione, natalità, anzianità urbanizzazione e quant’altro fotografano spesso una società mummificata nella stasi necrotica delle cifre, della mercificazione e del consumismo. Quelle algide cifre riempiono le fosse dei cimiteri tanto quanto il diabolico virus.
Esiste una prospettiva diversa da quella statistica funeraria da centro commerciale ed è quella della produzione, divulgazione e fruizione culturale. Pordenone, da questo punto di vista, gode di ottima salute dovuta non solo ad una sana e robusta costituzione ma anche al fatto che continua anche nelle situazioni più difficili e improbabili a dimostrare il suo stato di forma.

Prova ne sia la ripartenza in pompa magna della stagione concertistica in presenza che ha puntato tutte le sue carte sulla grande e festosa emozione di due serate di musica eccellente. Nella prima, dopo che il pubblico si era accomodato in sala riempiendo il teatro dalla platea fino alle vette alpine della terza galleria sempre nel rispetto delle più stringenti norme anticovid, ha fatto gli onori di casa dal palcoscenico il presidente Lessio, con la sua straordinaria eleganza anglosassone da principe consorte così rara oggi.

Dopo i dovuti ringraziamenti di rito, ha annunciato Michele Dall’Ongaro come vincitore della sesta edizione del VI Premio Pordenone Musica – Educare alla Musica che distingue la città del Noncello nel panorama della musica che conta a livello nazionale ed europeo. Ideato e sostenuto dai benemeriti Giulia Tamai Zacchi Cossetti e Giampaolo Zucchi, ha già un prestigioso palmares che ha visto negli ultimi anni sacrosanti riconoscimenti a Piero Rattalino, Quirino Principe, Salvatore Sciarrino, Alfred Brendel, Edda Moser, personalità di levatura del tutto indiscutibile proprio come Michele Dall’Ongaro, la cui motivazione del premio recita:
“Uomo di grandi intuizioni e intelligenza critica, custode di memorie con lo sguardo rivolto alla contemporaneità e al futuro, attento alla formazione di un nuovo pubblico e alla circolazione di compositori e giovani interpreti. Per restituirci un mondo dove la musica fa parte della vita quotidiana.”
Non ci potrebbero essere parole migliori per un critico e un divulgatore che negli ultimi decenni ha avvicinato alla musica generazioni di persone con assoluto garbo e senza in alcun modo cedere alla superficialità e al pressapochismo imperante. Indimenticabile il suo programma di invito all’ascolto della musica classica “Petruska” in onda su Rai 5 dal 2011 al 2016.
Ricevendo il premio dalle mani del sindaco Ciriani, il rubicondo Dall’Ongaro, celando un’evidente emozione, ha commentato con la solita straordinaria verve anche l’originalità del trofeo che gli è stato consegnato. Il premio come oggetto è una originale “Sfera senza titolo” del giovane scultore dalle “mani in tasca” Ludovico Bomben. Per l’appunto, un’elegante sfera in frassino cava all’interno e levigata al naturale in modo che siano in bella evidenza le venature del legno. Il frassino è un legno tradizionalmente magico, legato alle antiche leggende pagane ma utilizzato anche per le casse armoniche degli strumenti musicali tanto da diventare, con i suoi cerchi, un potente simbolo di crescita, essenza stessa della musica che si espande in uno sconfinato universo di suoni.
Il sindaco, consegnando a Dall’Ongaro anche il sigillo della città, ha aggiunto che, anche in questi lunghi mesi di forzata prigionia, il Teatro Verdi si è dimostrato cuore pulsante, cardine e anima autentica della cultura pordenonese; un gioiello prezioso per l’amministrazione, da valorizzare e sostenere sempre, anche nei momenti più difficili; mentre lo dice sembra perfino vero, speriamolo.
Ma è Dell’Ongaro ad avere l’ultima parola ricordando le origini autoctone della sua famiglia (Nomen Omen): “Quando si vince un premio- dice- l’ultima cosa da fare è credere di meritarselo. Bisogna, al contrario, impegnarsi ancora di più e considerarlo un incentivo per i propri sforzi presenti e futuri” Il Maestro ha poi ricordato brevemente il celebre Testamento di Heilgenstadt che Beethoven scrisse per i fratelli Carl e Johann. Citiamolo alla lettera, di certo ci può aiutare a ripensare a cosa ci ha davvero salvato nella passata lunga notte epidemica:
“O voi uomini che mi stimate o mi definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto! Voi non conoscete le causa segreta che mi fa apparire a voi così […] Da sei anni mi ha colpito un grave malanno peggiorato per colpa di medici incompetenti […] Pur essendo dotato di un temperamento ardente, vivace, anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la mia vita in solitudine. E se talvolta ho deciso di non dare peso alla mia infermità, ahimè, con quanta crudeltà sono stato allora ricacciato indietro dalla triste, rinnovata esperienza della debolezza del mio udito […] Tali esperienze mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita – La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto” (6 ottobre 1802)

Solo la musica e l’arte hanno il potere di salvarci davvero, il resto sono solo panacee farmacologiche che sostengono il nostro corpo ma disseccano la nostra anima se non sappiamo nutrirla e non serve dire altro.
Espletate le doverose formalità di rito del premio a Dell’Ongaro, è stata la volta del pubblico ad essere premiato con una meravigliosa esibizione di un gigante della musica, il violoncellista Misha Maisky, lettone ma patrimonio dell’umanità intera.
Abbassatesi le luci, il Maestro si è accomodato con il suo strumento al centro esatto del palcoscenico, ha impugnato l’archetto ed è subito iniziata la magia di qualcosa che tutti conoscono o si ostinano a credere di conoscere.

Suite n.1 BWV 1007 in sol maggiore: Dopo i primi arpeggi del preludio, Bach ci accompagna nello sgomento e nella frenesia di un’emozione barbara e sottile del tutto incontrollabile fatta di respiri ed affanni e ancora di stordimento in un leggero stato paraipnotico. Il violoncello sembra venire e parlare da un altro tempo e da un altro luogo.
L’angoscia sembra placarsi nell’Allemanda che almeno all’apparenza è del tutto fastosa e dai ritmi danzanti con i suoi inchini, le giravolte, gli sberleffi. Ma è solo un attimo, nella Sarabanda ritornano le esitazioni e le immagini chiaroscurali, in un pervasivo turbamento. Di certo non esita l’archetto di Maisky che vola sicuro in un’interpretazione di una purezza cristallina e mai sopra le righe o sguaiata ma sempre composta e di geometrica precisione.
Non c’è quasi il tempo per riflettere e si passa immediatamente ai nuovi movimenti che sono in sequenza due Minuetti tutti saltelli e capriole ed è tutta una nostalgia d’infinito non del tutto spensierata perché ci graffia e ci ferisce con le sue acuminate suggestioni per poi prenderci per mano, conducendoci alla Giga finale.
Conclusa la prima Suite uno scroscio di applausi, trattenuti per un anno intero, si abbatte sul palcoscenico come lo sconsiderato, violentissimo fortunale che aveva imperversato sulla città nel pomeriggio.
Suite n.4 BWV 1010 in mi bemolle maggiore.
In questa Suite senza mezzi termini si ha fin dal Preludio l’impressione dell’irrompere di un discorso già cominciato; è il proseguire di una conversazione iniziata trecento anni fa e non ancora conclusa, negli ambienti della corte del principe Leopold di Anhalt tra il Kappellmeister Johann Sebastian Bach e il suo virtuoso violoncellista Christian Bernhard Linigke. Lo strumento di Maisky e le sue dita fanno rivivere quel fecondo dialogo che non si è per nulla esaurito ma che ancora si ripropone continuamente e sa raccontare e dire a chi si prenda il grande piacere di ascoltare. Nell’Allemande che segue lo scambio diventa perfino petulante, brontolone e a tratti querulo nei toni e nei modi.
Sembra di vedere un signore azzimato e panciuto che tiene il punto della questione, lisciandosi di tanto in tanto i favoriti, fin quasi ad alterarsi. Nella Courante però lo ritroviamo di nuovo sicuro e gioioso fino ad alzare il gomito per un ultimo bicchiere contento e andarsene canticchiando.
Il piacere e la libertà tanto sudata e finalmente conquistata da J.S. Bach con queste suites, sotto l’archetto di Maisky, zampillano come sorgente per sgorgare prima nella Sarabande e poi nelle Burée che, sebbene appaiano più solitarie e meditabonde, sono come di chi si abbandona ad un languido autocompiacimento e si lascia andare nella poltrona del ricordo con il gatto, del nostalgico rimembrare che fa le fusa sulle sue ginocchia.
Lo sguardo un po’ perso vaga fuori dalla finestra del pomeriggio tra la luce delle memorie del cielo e le tegole della discordia e dell’amarezza. Un volo d’uccello appare tra le note a sfioro dei tetti e poi sù, rapidissimo verso l’azzurro e di nuovo giù a capofitto felice e poi ancora fino a smarrirsi alla vista ed eccolo di nuovo: il rapido rondone del desiderio nello spazio terso della volontà. Volteggia e gira, e gira senza stancarsi mai.
Immediatamente il volo libero richiama ancora la danza e le giravolte nella Giga tra inchini ed occhiate “e ci è sembrata sempre grande questa nostra danza, mezza dolce e mezza amara …”
Suite n.5 BWV 1011 in do minore.
Maisky si prende una brevissima pausa, moltissimi meritati applausi e poi immediatamente si riparte.
Nel frattempo, alcuni sciagurati tra il pubblico non esitano a gettare uno sguardo allo smartphone con inevitabili bagliori nel buio della sala e qualche suoneria imbizzarrita “Signore perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

La suite è tutta in aria di dramma dall’incedere lento e tragico in un dolore sordo e inconsolabile, anche se subito come nel più cupo dei drammi a qualcuno finisce per scappare un’isterica risata, prima a denti stretti poi in un’incontenibile risata a bocca larga.
Se la musica liturgica di J.S.Bach è assoluta, profetica e rigorosa fino all’astrazione mistica e sapienziale, nelle suites per violoncello si rivela del tutto laica e tutta distesa nell’orizzonte dell’umano, personale, umorale e passionale. Almeno è così nell’interpretazione del violoncellista Lettone, carne, ossa, nervi nella contemplazione dell’unica religione delle cose e dei corpi.
Il secondo movimento porta con se un pensiero, un piacevole messaggio da tanto atteso; forse una lettera da un amico lontano ancora da aprire e con tutte le parole scritte sopra ancora sigillate nella busta, leccata e affrancata. La missiva, lo sappiamo bene, ha attraversato fisicamente lo spazio e la distanza di un oceano di silenzio scrivendo un percorso tra noi e l’altra parte del mondo.
Si rincorrono i minuti nei secondi e le ore nel tocco degli istanti ed è anche questa una danza. Intanto con la musica sembra calata la sera e le ultime luci di un tramonto si sono trasformate in un’oscurità tutta interiore che ci fa temere il sopraggiungere di fitte tenebre che sembrano non lasciare alcuna speranza. Naturalmente, non è così e già crepitano le luci del focolare e le fiammelle delle candele brillano a rischiarare il nostro timore.
Così forse se le immaginava Bach nel ‘700, noi possiamo pensare anche alle nostre lampade a led dall’ineffabile design, la sostanza non cambia, la sera a volte fa paura. Quel vecchio signore luterano che non vide mai il Mondo Nuovo della Rivoluzione francese e che era già vecchio quando Voltaire era solo un giovinastro perdigiorno, ci esorta a fare chiarezza nei nostri pensieri e nelle nostre omissioni. Lo fa a volte nella severità del suo credo, altre laicamente a forza d’archetto, in realtà senza rimbrottarci troppo ma con la bonarietà di un vecchio zio che ne ha viste talmente tante e che sa che è inutile farsi il sangue amaro.
Maisky conclude dopo aver estasiato il pubblico che quasi non se le ricordava più certe emozioni quasi spente tra tachipirina e igienizzanti per le mani.
Il primo bis è un’aria nota, gaia e spensierata, leggera, gioiosa, piena di meraviglia; deliziosi sorrisi tra i sussurri e gli sguardi. Perfino al violoncellista scappa di battere il tempo con il piede un paio di volte affrontando certi passaggi particolarmente garruli nello splendore di una chiusura tutta cinguettante.
Generosissimo il Maestro concede un secondo bis, questo del tutto pensieroso e meditabondo come una buona notte.

Se i protocolli e il vaccino hanno sconfitto il virus, le suites bachiane di Maisky hanno curato le ferite dell’anima di tutti i presenti consentendo di tornare a sperare perdonando l’insipienza e l’indifendibile disinganno.
Nella seconda serata le Suites n.3, 2, 6 che qualcun altro recensirà. Per noi “Buona la prima!”

© Flaviano Bosco per instArt

Foto Alice BL Durigatto / Phocus Agency