Mentre on line furoreggia l’edizione 2020 del Far East Film Festival, con migliaia di accreditati che ingozzandosi di sushi e tempura take away davanti agli schermi dei loro device, comodamente piazzati sul divano di casa, si godono le meraviglie del cinema asiatico contemporaneo, il Visionario di Udine e Cinemazero di Pordenone proiettano nelle proprie sale la nuova versione decolorata in bianco e nero e in lingua originale di Parasite di Bong Joon-Ho, di gran lunga il miglior film della passata stagione nella sua modalità full color. Il viraggio della pellicola rende ancora più intenso, se possibile, il dramma della vicenda avvicinandolo allo stile cinematografico neorealista della Nouvelle Vague giapponese d’annata (Nagisa Oshima, Shoei Imamura, Seijun Suzuki, ecc.) che ebbe vasta eco anche in Corea; i sottotitoli finalmente fanno piazza pulita del solito pessimo doppiaggio in italiano che rendeva colpevolmente alcuni momenti dell’intreccio farseschi e caricaturali. La nuova versione sottolinea maggiormente la forza di questa opera d’arte che è stata definita, a ragione, come Dramma barocco e vedremo in seguito perché.

Detto questo, ha ancora senso parlare di un film uscito in tutta Europa, quasi due anni fa, che diventerà presto una serie tv della potente Hbo, che ha vinto tutto quello che era possibile a partire dal festival di Cannes fino a far saltare il banco dell’Accademy di Hollywood?

È proprio il caso di ritornare ancora una volta su una pellicola con cui la Corea del Sud ha celebrato in pompa magna i cento anni della sua cinematografia con uno degli incassi al botteghino più alti di sempre?

È proprio necessario, dopo che si sono versati, letteralmente i proverbiali fiumi d’inchiostro, in lodi sperticate e apologie, ribadire ossessivamente che la Musa della VII arte adora la salsa Kimchi?

Naturalmente sono solo domande retoriche e pretestuose. Parasite è un’opera d’arte di tale rilevanza che non smetterà mai d’essere attuale almeno fino a quando la società consumistica, basata gerarchicamente sul censo, nella quale ci troviamo non verrà radicalmente trasformata o non subirà un imprevedibile tracollo. In sintesi, discuteremo a lungo di questa pellicola e ancora per un bel pezzo.

La nuova versione in bianco e nero ci fornisce così il pretesto per qualche ulteriore riflessione sull’opera, sul significato del suo intreccio e su alcuni particolari che non sono stati ancora compresi secondo la giusta prospettiva. A molti critici il film è sembrato solo una delle tante riuscite black commedies sociali come tante se ne vedono nel cosiddetto cinema d’autore. Certo Parasite è sostenuto anche da un’eccezionale verve comica, ha un ritmo serratissimo e una sceneggiatura clockwork nella quale gli ingranaggi narrativi funzionano alla perfezione, incastrandosi l’uno nell’altro in un crescendo parossistico fino a sfociare in un finale dietro l’altro, è proprio il caso di dirlo, lasciando lo spettatore sospeso e, allo stesso tempo, coinvolto in una situazione tutt’altro che risolta.

L’umorismo surreale e divertente del film non sfocia mai nel grottesco o nella più gretta comicità; come si dice spesso nel film in altro contesto, non si supera mai la linea che divide la grassa risata dall’autentica satira che è proprio quella che interessa al regista in questa e in altre sue opere come The Host (2006) Snowpiercer (2013) Okjia(2017), lavori che virano al fantastico ma che ragionano moltissimo sugli affetti familiari e sui diritti umani all’interno di società oppressive o sotto la minaccia di una particolare minaccia disgregante.

Come da manuale, la satira è: un genere della letteratura, delle arti e più in generale della comunicazione, caratterizzata dall’attenzione critica alla politica e alla società, mostrandone le contraddizioni e promuovendone i cambiamenti. Questo sembra essere il principale interesse di Bong Joon Ho, mettere in risalto, attraverso l’occhio implacabile della sua macchina da presa, le storture e le malignità della società coreana in prima battuta ma, per estensione, di tutto l’Occidente capitalista.

A questo punto, anche se il film è noto, sarà il caso di spendere due parole sulla trama almeno per favorire la comprensione di queste righe, all’apparenza sconclusionate a partire dal titolo. Il titolo della pellicola, in italiano, Parassita allude esplicitamente sia alla biologia e all’entomologia in particolare, sia alle persone che vivono sfruttando le fatiche altrui nutrendosi di ciò che non guadagnano.

Nella trama del film ambientata in una Seoul moderna ma altrettanto immaginaria, i Kim, una famiglia di poveri arruffoni, che vive di espedienti nei bassifondi, riesce con l’inganno ad introdursi nella lussuosa villa dei ricchi Park, facendosi assumere tutti come domestici, millantando referenze e abilità e progettando, in qualche modo, di appropriarsi di quegli spazi anelando ad un’impossibile ascesa sociale spinti da un irrazionale desiderio d’agio e di ricchezze. Finisce molto male. I ricchi proprietari della villa si rivelano per quello che sono, cioè degli sfruttatori senza un briciolo di umanità e la famiglia povera ritorna allo squallore della propria miserabile esistenza da scarafaggi come viene detto esplicitamente: Noi siamo come gli scarafaggi che di notte si nutrono furtivamente di briciole e di scarti ma non appena s’accende la luce scappano a nascondersi. È’ inutile soffermarsi troppo sulla trama anche per non rovinare la suspense a chi eventualmente non l’avesse ancora visto ma almeno su due elementi principali è necessario soffermarsi.

Come abbiamo detto, il riferimento al mondo degli insetti è costante in tutto il film come potente metafora della condizione sociale dei protagonisti. Fin dall’antichità classica si è fatto riferimento alle gerarchie entomologiche per riferirsi in modo critico ai comportamenti umani. A riassumere un certo atteggiamento moralistico delle classi superiori rispetto alle inferiori basterà citare La cicala e la formica di La Fontaine che stigmatizza l’indolenza dei ceti ritenuti non produttivi e dissipatori rispetto a quelli in grado di accumulare e godere delle proprie ricchezze.

Bong Joon-Ho sembra fare un ragionamento molto più sottile individuando, a fior di metafora, quelli che sono i veri parassiti della nostra società.

Per cercare di comprendere la prospettiva del regista sarà il caso di fare riferimento ad alcuni dei casi più celebri di parassitismo dell’entomologia. Nel primo non si può non citare il caso della vespa australiana chiamata Xenomorfa (Dolichogeneidea Xenomorph) in onore del film Alien di Ridley Scott che proprio come quell’alieno e come fanno molte specie simili, depone le proprie uova all’interno di bruchi. Le voraci larve si nutriranno dall’interno dei malcapitati ospiti.

L’induzione del desiderio di ricchezza e di beni voluttuari e di tutto ciò che è superfluo è uno dei motori del consumismo nelle società capitalistiche. I maestri del marketing, i persuasori occulti, non fanno altro che inoculare dentro di noi desideri che nemmeno ci appartengono, facendoci sentire il più delle volte inadatti o in colpa così da predisporci al meglio a spendere per riequilibrare il nostro disagio; uno dei termini tecnici utilizzati per indicare questo triste fenomeno è Revenge shopping, spendere per vendetta: visto che mi sento angosciato e deluso spendo per gratificarmi. Abboccando all’esca più succulenta e letale del consumismo, restandone allamato.

Chi ha tanto denaro non sarà mai contento di quello che ha, chi non possiede niente sarà stimolato a procacciarselo, in una lotta per la sopravvivenza che si risolve sempre allo stesso modo: i miserabili, sempre in lotta feroce tra di loro per un tozzo di pane o per il favore dei ricchi, finiscono sempre per soccombere agli ignobili vezzi di questi ultimi che non hanno altro dio che i loro vizi spregevoli e Mammona, l’idolatria amorale della ricchezza terrena, principio della dannazione spirituale, sterco del demonio. Può essere inteso in questo modo il mistero della pietra dei sapienti che viene regalata alla famiglia dei poveri come segno di ben augurio e di fortuna finanziaria che invece è simbolicamente la causa e lo strumento di tante loro terribili disgrazie.

Un altro comportamento parassitario degli entomi può servirci a titolo di esempio, riguarda i piccoli con i quali lo strepsittero, Xenos Vesparum, infetta la vespa cartonaria, Polistes Dominulus, introducendosi e nutrendosi del suo corpo. Le cartonarie parassitate dal piccolo insetto, dimenticando la propria funzione sociale di operaie, cominciano a comportarsi da “regine” occupando fisicamente nell’alveare gli ambienti delle consorelle e madri di casta più elevata, mentre le altre operaie non infette continuano nel loro infaticabile sforzo di nutrire tutto l’alveare. Quando l’insetto parassita ha tratto ogni succo vitale dalla povera vespa ospite sfruttandola anche a fini riproduttivi, il suo corpo inerte ma vivo servirà da cibo per le sue larve, così se ne sbarazza, sostituendola immediatamente con un’altra.

Nel film non è la povera famiglia Kim a sfruttare i Park ma esattamente il contrario. I ricchi con la falsa promessa di lasciar godere ai poveri una parte infinitesimale del loro benessere senza mai superare un certo limite, sfruttano la vitalità dei miserabili sbarazzandosene per ogni minimo capriccio, ricacciandoli nelle loro puzzolenti tane tugurio. Non ritorneremo sulla questione della “puzza dei poveri” che è un snodo narrativo cruciale del film che è stato riconosciuto e trattato in ogni modo. Nel film la vera differenza tra ricchi e poveri che viene evidenziata è quella dell’incancellabile afrore di bassifondi, di metropolitana e di straccio sporco bollito che i miserabili portano con se e che tanto molesta le raffinate narici degli alto locati abituati a ben altre essenze. Non è un argomento nuovo quello così magistralmente utilizzato dal regista.

Sull’odore dei poveri avevano già scritto pagine memorabili Charles Dickens e poi Jack London ne Il popolo degli Abissi o ancora George Orwell in Senza un soldo a Parigi e a Londra. Bong Joon-Ho recupera anche le côté psicoanalitico ed erotico dell’afrore, i ricchi si eccitano sessualmente alla puzza dei poveri in un perverso desiderio di degradazione vageggiato nei più squallidi e istintuali momenti intimi. La questione delle mutandine a poco prezzo usate e annusate sembra alla coppia dei ricchi Park il massimo della trasgressione. Almeno per associazione di idee vengono in mente Teorema (libro e film) e Porcile di Pasolini.

Chi crede che tali questioni siano lontane dalla sensibilità occidentale e relative solamente all’Impero dei sensi orientale dovrebbe porre attenzione ad una dichiarazione di qualche anno fa di uno dei più potenti spin doctors della politica italiana , Rocco Casalino già concorrente della prima edizione del Grande Fratello e già qui è tutto dire.

Durante un’intervista il noto influencer disse testualmente: “Il povero ha un odore molto più forte. Hai mai provato a portarti a letto un romeno o uno di questi dei paesi dell’est? Anche se si lava o si fa dieci docce continua ad avere un odore agro dolce, non so che cavolo di odore è. Però lo senti”.

Sono affermazioni disgustose che si commentano da sole ma non sono così estemporanee come sembrerebbe, basti pensare a quante volte nei nostri condomini abbiamo assistito o peggio, partecipato, a squallide beghe xenofobe contro la puzza e gli odori di cucina provenienti dagli appartamenti delle persone di altri paesi o agli afrori che a parere di alcuni impesterebbero le vie dei nostri centri a causa del Kebab o del riso alla cantonese tutto a detrimento del meraviglioso bouquet della cucina italiana ben nota nel mondo per la sua delicatezza di profumi e sapori tra gorgonzola, aglio, broccoli e caciotte.

Ancora un altro argomento ci porta a considerare attentamente la splendida colonna sonora del film scritta, diretta e anche interpretata dal compositore Jung Jae-il. Allo score originale si sono voluti aggiungere anche brani, a proprio modo, classici che sottolineassero ulteriormente alcune sequenze molto significative. La critica cinefila italiana è andata in estasi al sentire risuonare ad un certo punto la vecchia In ginocchio da te di Gianni Morandi, accecati dal solito tronfio campanilismo, senza quasi nemmeno considerare il contesto nel quale aleggiano quelle note. Il regista ha dichiarato pubblicamente che non conosceva minimamente quel brano che ha inserito per far vedere che le per le classi agiate coreane ciò che suona italiano è ritenuto aristocratico. Quello che si vede nella sequenza è soprattutto una coppia di poveracci che, in assenza dei loro padroni, ascoltano, nel lussuoso salotto pieno di sole e di quella luce di cui i bassifondi sono privati, un vinile italiano da un moderno impianto stereo analogico. In un paese ipertecnologico e digitalizzato come la Corea del sud è proprio il massimo dello snobismo.

Ma è a tutta un altra musica cui si dovrebbe prestare ascolto. Solo pochissimi critici dall’orecchio fine si sono accorti che la struttura principale del racconto cinematografico rispecchia la vicenda di un dramma barocco in musica di Georg Friedrich Händel : Rodelinda, regina dei Longobardi, prima rappresentazione a Londra il 13 febbraio del 1725. Il libretto dell’opera in lingua italiana fu tratto da un’opera francese di Corneille a sua volta ispirata al libro IV dell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono nel quale si racconta di Rodelinda sposa del re Bertardio (Petarito), il cui trono viene usurpato da Grimoaldo, duca di Benevento.

I legittimi sovrani sono costretti avventurosamente a lasciare le loro dimore. Una serie di sanguinose vicende tra coltellate e buie carceri segrete fa riconquistare il trono ai legittimi sovrani. Allo stesso modo gli accattoni Kim cercano di spodestare i nobili Park e poi a furia di colpi di scena e coltellate si ristabilisce l’ordine costituito: i poveri condannati nuovamente a sopravvivere tra stenti e sogni di riscatto nei loro tuguri sottoterra e i ricchi vivono beati le alte cime delle colline nello splendore delle loro magioni.

Si ascolta l’aria di Rodelinda quando i Kim stanno prima progettando e poi mettendo in opera il piano per disfarsi e sostituire la vecchia governante della villa Park:

Spietati io vi giurai, se al mio figlio il cor donai/ di serbarvi e duolo e affanno/ non potrebbe la mia mano/ stringer mai quell’inumano/ ch’è cagion d’ogni mio danno (Atto II, sc. III).

In questo caso il regista, giocando con il melodramma, riconosce nei poveracci Kim gli inumani spietati cagion d’ogni danno che non temono di ordire un atroce inganno ai danni della vecchia governante, anche lei meno innocente di quello che sembra ma che finirà per pagarne un altissimo prezzo venendo sepolta in giardino.

L’aria finale di Rodelinda risuona brevemente anche nel momento più drammatico del film, intonata da una cantante durante una festa di compleanno nel giardino della villa. Siamo a pochi fotogrammi dal compiersi sanguinoso del dramma che, paradossalmente, ristabilirà la situazione di quiete e di discriminazione sociale iniziale. Come dicevamo più sopra, saranno i poveri a pagarne le conseguenze mentre i ricchi a parte un po’ di spavento e di puzza torneranno placidi a godere del loro superfluo.

Mio caro bene!/ Non ho più affanni e pene al cor /vedendoti contento / nel seno mio già sento/ che sol vi alberga amor (Atto III, sc. VII).

Rimane molto altro da dire sul film anche se non saremo noi in queste poche righe che stanno esaurendo il loro spazio a disposizione. Solo qualche cenno a modi esempio. Pochi si sono occupati dell’esterofilia e dell’americanismo che connota la spocchia dei ricchi Park che utilizzano come intercalare parole americane, della loro avidità e dello scenario politico di contrapposizione tra le due coree che fa da sfondo al film. Così come tutto ciò che è italiano (cibo, musica, arte, moda) viene ritenuto d’alto livello culturale e appannaggio esclusivo delle classi dirigenti.

Altro elemento determinante che fa da sotto-testo alla sceneggiatura è quello che vede il contrapporsi dal 1954 delle due Coree al 38° parallelo vero dramma nazionale che influenza tutta la psicologia e l’immaginario di quel paese si veda, per esempio, lo straordinario, Il prigioniero coreano di Kim Ki-duk (2016).

Queste interessanti questioni possono essere riassunte nei tanti riferimenti e i richiami allo scoutismo di matrice americana che fornisce il pretesto a molte scene del film, fino a diventare il vero simbolo dell’incomunicabilità tra classi sociali. E’ l’alfabeto morse degli scout a venire utilizzato in questo modo dai poveri per farsi capire dai ricchi signori che, naturalmente, rimangono ciechi e sordi ai loro appelli. Anche in questo caso si apre uno scenario d’analisi di grande rilevanza che riguarda il linguaggio correlato alle classi sociali che lo utilizzano, un discorso che non è immune dalle implicazioni dell’imperialismo culturale anglo americano sul resto del mondo.

Bong Joon Ho in ogni suo film fa degli espliciti sarcastici riferimenti a modelli educativi occidentali che snaturano il vero scopo dell’educazione che è quello del progresso sociale e dell’emancipazione dei diritti civili al servizio di un vuoto potere capitalistico. A questo sono da ascrivere i tanti riferimenti in Parasite all’arte terapia, allo studio della lingua inglese, alle università occidentali; un’apparente sudditanza culturale coreana, che dovrebbe fare riflettere molto seriamente anche noi italiani che a questo proposito, siamo ancora fermi al Nando Moriconi di Un americano a Roma. A proposito di Alberto Sordi, del quale si sono celebrati la scorsa settimana i cento anni dalla nascita, viene spontaneo accostare per dinamiche narrative e contesto, il film di Bong Jon Ho a Lo scopone scientifico di Luigi Comentini (1972) con l’Albertone nazionale e Silvana Mangano come protagonisti, nel quale una famiglia di disgraziati borgatari romani cerca di vincere al gioco le ricchezze di una spietata e crudele anziana signora inglese (Bette Davis) in un’interminabile partita a carte in una lussuosa villa. Naturalmente i borgatari dopo essersi illusi ritornano più spiantati di prima ma anche la vecchia avrà forse modo di pentirsi.

Per concludere, ritornando alla questione del linguaggio e del parassitismo in biologia, un altro particolare, insolito comportamento di una formica africana stimolò una bizzarra teoria sull’origine del linguaggio allo scrittore psiconauta William S. Burroughs. La spora microscopica del fungo parassita Tomentella si insinua nel minuscolo cervello della formica stridulante delle foreste pluviali del Camerun e la induce a comportamenti bizzarri e all’emissione di suoni che non appartengono al mondo degli imenotteri, così secondo Burroughs sembra fare il linguaggio con l’uomo. È un parassita emerso dai territori oscuri dell’immaginario, che induce comportamenti e nevrosi che, forse, non ci appartengono: Language is a virus from outer space.

© Flaviano Bosco per instArt

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