Replica del 18/06/2022. Con l’ultima rappresentazione della meravigliosa opera Pagliacci di Ruggero Leoncavallo si è chiusa in modo trionfale la bella stagione lirica del teatro Verdi di Trieste che, dopo le sofferenze delle stagioni annullate a causa del maledetto covid, ha ridato luce, bellezza e speranza al proprio pubblico. Del ricco cartellone finale faceva parte anche la prima rappresentazione mondiale dell’opera “Al Mulino” di Otorino Respighi, completata per l’occasione nelle sue parti mutile dal compositore Paolo Rosato.

Con l’approssimarsi del solstizio e dell’estate imminente, frequentare l’opera cambia significato soprattutto in una città di mare baciata dal sole come Trieste. Il Verdi rimane il più incantevole dei luoghi d’arte e non solo della città ma, in quel contesto stagionale, il ventre caldo dei suoi palchi di velluto e la platea gremita entrano in squisito contrasto con la riviera di Barcola; nel giro di pochi minuti si passa dal costume da bagno all’abito da gran sera, dalle magie della baia a quelle del golfo mistico, nell’incanto di una città unica con il gran teatro che è audace come il molo sul quale si affaccia.

Il vero fondale del palcoscenico, oltre le quinte e la torre scenica, in realtà, è direttamente il mare con le navi all’orizzonte; un teatro dell’opera tra le onde, sembra un sogno paragonabile a quello del “Fitzcarraldo” di Werner Herzog che voleva costruire uno sfavillante nel pieno della foresta amazzonica per farci cantare Enrico Caruso (nei dialoghi del film: “Continuo a vivere un sogno: l’Opera. Un grande teatro nella giungla”) Nella colonna sonora del film, da un grammofono si sente il grande tenore cantare una delle romanze che lo consacrarono alla fama universale:

“Recitar! Mentre preso dal delirio. Non so più quel che dico e quel che faccio! Eppur è d’uopo, sforzati! Bah! Sei tu forse un uom? Ahahahah! Tu sei Pagliaccio.

Vesti la giubba e la faccia infarina. La gente paga, e rider vuole qua e se Arlecchin t’invola Colombina, ridi Pagliaccio, e ognun applaudirà! Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto in una smorfia il singhiozzo e il dolor, ah! Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto ridi del duol che t’avvelena il cor.” Le arie del capolavoro di Leoncavallo hanno incantato anche Trieste.

La scena del Verdi si è aperta con una proiezione cinematografica su una giostra con i cavallini nella breve overture orchestrale che già fa intuire il tema: “Ridi Pagliaccio!”. Si introduceva così una messa in scena davvero convincente del capolavoro assoluto del compositore napoletano con il cuore sul Reno.

Nota è infatti l’autentica venerazione verso Richard Wagner da parte di Ruggero Leoncavallo che per tutta la vita cercò di portare in scena un “Gotterdammerung” tutto nostrano che doveva chiamarsi “Crepusculum” ma che diventò celebre con la storia di un pagliaccio triste e omicida che racchiude, forse involontariamente, il vero spirito della cultura e dell’identità italiana.

La parola “Pagliaccio” deriva dalla tela grezza e poverissima, tanto da sembrare di “paglia”, con la quale si vestivano guitti e saltimbanchi che facevano ridere non solo i piccoli negli spettacoli itineranti. Letteralmente quel tipo di comico popolare era un “Uomo di paglia”, uno che vale poco, un miserabile di cui si può solo ridere per disprezzo e compassione. Tipica del carattere italiano è proprio l’autocommiserazione, l’approssimazione, la teatralità, il sentimentalismo e, molto spesso, la pusillanimità. Proprio per questo il melodramma, come genere musicale e categoria dello spirito, è nato ed ha trionfato così magistralmente nel nostro paese rappresentandoci, tutti compresi, così bene. Proprio come nell’opera Pagliacci non sappiamo bene se riderci su o piangerci addosso.

Nel frattempo ancor prima che il dramma avesse il suo pieno svolgimento, due ballerini, con regolare mascherina ffp2, sono entrati in scena per danzare sulle tristi note del prologo dell’opera. Il presidio chirurgico che deturpava l’espressione dei loro visi e quella di tutti noi, risulta ormai davvero fastidioso e anacronistico, ma è anche un’ulteriore maschera che segnala la nostra condizione di commedianti e la labilità del confine tra palcoscenico e realtà.

Subito dopo, si presenta in prima persona il Prologo, incarnato da Taddeo, la maschera da pagliaccio che veste Tonio, il lubrico gobbo della tragedia, che ha la voce da baritono. Il dramma stesso, attraverso uno dei suoi personaggi, sfonda così la quarta parete del palcoscenico e si rivolge direttamente al pubblico. Respighi faceva evidentemente del meta-teatro, percorrendo e a volte anticipando, tutto il travaglio della letteratura d’analisi dell’identità e della crisi dell’io, Pirandello docet.

Taddeo, maschera del saltimbanco Tonio che la indossa, a sua volta interpretato da un cantante d’opera, sbucando dal sipario, dice: “Si può?…Signore! Signori!…Scusatemi se da sol mi presento…Io sono il prologo. Poiché in scena ancor le antiche maschere mette l’autore, in parte ei vuol riprendere le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami. Ma non per dirvi come pria: “Le lagrime che noi versiam son false! Degli spasimi e dei nostri martir non allarmatevi!” No. L’autore ha cercato invece pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l’artista è un uom e che per gli uomini scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi.”

Leoncavallo sapientemente giocava con i piani narrativi e perfino con quelli psicoanalitici, Freud allora era solo un giovanotto intraprendente ma certe cose erano già nell’aria. Il paragone vale ancora di più se pensiamo che l’autore si sia ispirato ad alcuni “modi” della tragedia antica greca e latina, esattamente come stava facendo lo psicologo viennese per i suoi complessi e per molto altro.

Componendo quest’opera l’autore, dichiaratamente, sublimò un terribile trauma infantile che evidentemente l’aveva segnato. Da bambino Leoncavallo visse per un certo periodo in Calabria dove il padre, magistrato del Regno, prestava il proprio servizio. La notte del 4 marzo 1865 assistette all’accoltellamento del suo domestico per motivi di gelosia; all’uscita di un convento dove si erano recati per una rappresentazione teatrale.

Prima di morire la vittima riuscì a fare i nomi degli assassini che furono poi processati e condannati proprio dal padre del piccolo Ruggero. Questi evidentemente scosso, raccontò d’aver visto uno degli assassini, vestito da pagliaccio, che si allontanava dal luogo del delitto, brandendo ancora il pugnale grondante sangue. Già così ci sarebbero tutti gli estremi per uno dei “Casi clinici” del medico viennese o per una tragedia shakesperiana, se non fosse tutto vero.

Certo la rielaborazione di quel ricordo deve essere stata parecchio laboriosa visto che l’opera debuttò il 21 maggio 1892, ventisette anni dopo quei fatti di sangue. Un lungo travaglio per un’opera indimenticabile e immortale che nel sapiente allestimento del Verdi ha dimostrato tutta la sua cogente attualità. Proprio nei giorni delle repliche, in un paesino della “placida” campagna friulana l’ennesimo marito, geloso e infame, sfiniva con 58 coltellate la propria moglie.

Raccontiamo un po’ di trama a scanso di equivoci. Una povera compagnia di guitti arriva in una piccola piazza di provincia, mancano 23 ore al primo spettacolo e gli attori invitano il popolino ad accorrere numeroso per vederli esibire sotto il tendone.

Il capocomico Canio che veste la maschera di Pagliaccio, il tenore Rubens Pellizzari che ha dato ottima prova di se, è molto innamorato della bella moglie Nedda, la convincente soprano Valeria Sepe, che interpreta Colombina e che, naturalmente lo tradisce con il campagnolo Silvio (Min Kim) e che, nello stesso tempo, è insidiata da Tonio, il pagliaccio deforme che tenta perfino di violentarla. Quest’ultimo era interpretato dal versatile Devid Cecconi nei panni di Rigoletto, sempre al Verdi, solo un mese fa. L’intricata vicenda piena di sotterfugi, fraintendimenti, scenate si districa a coltellate nel tragico finale.

L’allestimento del Teatro comunale triestino, per quanto riguarda le scenografie di Paolo Vitale e costumi di Giada Masi, è sembrato ispirarsi all’estetica cinematografica circense hollywoodiana tipica di tanti film ambientati negli eterni anni ‘50 della sconfinata provincia americana.

Agli spettatori contemporanei sarà di certo venuta in mente la quarta stagione di American Horror Story (Freak Show) tra le comparse infatti c’era una donna barbuta, un pagliaccio a due teste, e Nedda era biondo platino come una svampita Marlene Dietrich, proprio come nella serie e difficilmente può trattarsi di una coincidenza se ci mettiamo vicino anche il pagliaccio deforme e quello assassino.

Di grande effetto scenografico le parti del coro che è stato trasformato in comparse tutte vestite di bianco. Erano i popolani, donne e bambini compresi, che assistevano allo spettacolo del circo virato in dramma. Scelte registiche molte pertinenti, soprattutto nei quadri d’insieme, hanno garantito la divertita attenzione del pubblico. Non serve dire che le magnifiche arie e le romanze dell’opera hanno completato la meraviglia.

E quando, il pluriomicida Pagliaccio Canio ha recitato la fatidica ultima battuta: “La commedia è finita!” nessuno ha potuto trattenere un lungo meritato applauso.

Dopo un breve intervallo, che ha permesso agli spettatori di riprendersi dall’emozione e di sgranchirsi le gambe e le “orecchie”, è stata la volta di “Al Mulino” di Respighi, un’opera cupamente, scura e drammatica fin dalle prime battute, senza speranza o un attimo di tregua, per qualche sfumatura, nemmeno un fugace raggio di sole.

La messa in scena del Verdi è stata semplice ed essenziale ma di grande effetto grazie alle proiezioni a far da quinte scenografiche in movimento. Un enorme ruota di mulino incombeva sulla scena tutta ambientata nell’angusto spazio di un mulino.

Anche se sulla scena non c’erano muri o relative quinte a simularli, la scenografia restituiva un certo senso di claustrofobia, con le sue velature di tenebra e le catene che pendevano delle volte, anche quando la sala con i palchi veniva riprodotta specularmente sul fondale a simulare una vera e propria arena circolare con al centro la scena del dramma.

In due brevi atti si compie la tragedia di Aniuska, figlia di un umile mugnaio, dal cuore nobilissimo. Nella Russia dei primi del XX° sec. si è innamorata di Sergio, un idealista oppositore del regime zarista che sta per essere deportato. Lei gli da rifugio nel mulino per una notte di idillio, ma le guardie lo scoprono e Aniuska, che vede tutto perduto, scatena la forza del fiume aprendo una paratoia. L’acqua tutto spazza, sommerge e termina.

La riuscita dell’ultima rappresentazione del dramma è stata gravata da una perniciosa indisposizione, covid correlata, di Domenico Balzani, il baritono che interpretava Nicola l’invidioso garzone del mugnaio, segretamente innamorato della bella Aniuska, la soprano Afag Abbasova Budagova Nurahmed. La sua parte è stata tagliata ma l’intreccio non ne ha risentito poi troppo. Nel primo atto però, forse per un mancato equilibrio di volumi tra orchestra e cantanti, le parti di Aniuska risultavano sovrastate e confuse. Il dramma non offre certo grandi possibilità per le scelte registiche e, giocoforza, la dinamica scenica tra i personaggi è stata minima e piuttosto statica. L’ottima orchestrazione e la mano ferma del direttore e concertatore Fabrizio Da Ros hanno dato la giusta luce ad una partitura convincente sulla quale Paolo Rosato ha operato in modo ineccepibile.

Il confronto con Pagliacci comunque non ha giovato, tanto brillante e luminosa è apparsa quella messa in scena, quanto chiaroscurale e tetra la seconda. Anche se per tematiche e intreccio le due opere sono paragonabili, gli intenti e gli esiti drammaturgici, stilistici e musicali non potrebbero essere più diversi. Per di più, il pubblico del Verdi era già sazio e appagato per aver assistito al dramma pseudo-wagneriano degli amori infelici di Canio-Pagliaccio e della bella Nedda-Colombina. Il totale cambio d’orizzonte e di registro con la tragedia di Aniuska e del suo mulino è sembrato a tratti, inadeguato, ingeneroso e punitivo per quanto riguarda la seconda opera in cartellone che merita i propri spazi e orizzonti.

Comunque, va dato merito alla direzione artistica del Verdi per il coraggio e la forza di osare accostando opere così diverse e contrastanti. Non poteva esserci migliore conclusione di stagione di questa proiezione in avanti verso la ricerca di nuovi allestimenti, nel rispetto della sua gloriosa tradizione ma percorrendo i sentieri dell’innovazione, continuando a rendere il teatro triestino protagonista sulla scena italiana ed europea.

E adesso, dopo tante splendide emozioni vissute in questi mesi complicati di ritorno alla vita e ai palcoscenici, gli spettatori fedelissimi aspettano l’annuncio della futura stagione sicuri che sarà un’altra costellazione di successi e di trionfo della bellezza più autentica.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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