È stata una sensazione unica quella che ha accolto i pochi selezionati e fortunati che hanno potuto assistere all’esecuzione del capolavoro di Beethoven nella chiesetta di Sant’Antonio Abate di Nespoledo di Lestizza.

L’esclusivo concerto nell’ambito del cartellone di Musica in Villa 2020 si è tenuto nella piccola incantevole chiesetta che, pur presentandosi ora sotto ben restaurate spoglie contemporanee, conserva ancora il proprio antico fascino da fine dei tempi. L’edificio di culto si trova in aperta campagna e dalla strada che gli passa a fianco e che da Nespoledo porta a Basiliano appare come una visione tra gli alberi e i campi di mais. La rassegna musicale, nonostante la grande richiesta, si è vista costretta a ridurre notevolmente il numero dei propri spettatori a causa delle tristemente note norme anticovid. La chiesetta offre spazi ristretti quindi: “Noi pochi, felici pochi”.

I due pianoforti Steinway & Sons affiancati ci stavano appena e riempivano il transetto praticamente da parete a parete.

Due pianoforti in una chiesetta relativamente angusta suonano come l’intero coro degli angeli nel giorno del giudizio con tutte le trombe e i corni.

È quindi un’intera orchestra che rimbomba nel cervello degli spettatori piacevolmente costretti in uno spazio molto limitato riempito da tutti i 176 tasti.

E’ stata davvero un’esperienza d’ascolto unica e quasi insostenibile per intensità d’emozione, va dato merito a Gabriella Cecotti, impareggiabile padrona di casa della manifestazione che ha la passione e il coraggio spericolato di portare a termine eventi di valore culturale altissimo in tutta umiltà, modestia e con autentico spirito di servizio. Rara Avis.

Grande merito della riuscita della serata, non serve nemmeno dirlo, all’immensità della partitura, altrettanto grande quanto l’originale che trascrive. Matteo Andri e Ferdinando Mussutto, eleganti nei loro frack da concerto, hanno rappresentato a modo loro, anche fisicamente, le due anime dell’opera; uno appariva più serioso e composto quasi imperturbabile, l’altro invece più ilare, gioviale e vigoroso, interpretava la passione con i suoi larghi gesti e con i suoi sorrisi mentre l’altro sembrava scrutare tra i tasti gli immensi orizzonti che si spalancavano a colpi di note. Certo è tutta apparenza, davvero insignificante rispetto all’interpretazione, ma un concerto è fatto anche di una certa teatralità, altrimenti i musicisti farebbero meglio a suonare dietro ad un paravento o nascosti dentro la buca del proscenio.

Intanto che i primi suoni esplodevano creando dal nulla con quattro note quattro un impareggiabile colossale edificio di musica che tutti abbiamo scorto almeno una volta nella vita anche se facciamo finta di non riconoscerlo, il cuore si preparava a ricevere l’angelica ambrosia. Quella musica ci appartiene e noi ne siamo posseduti. E non è questione di gusti.

Ogni volta che la sentiamo, qualcosa di profondo risuona in noi, vibra e perfino si spezza. Sono 250 anni giusti, giusti che il genio “dal campo di barbabietole” (questo il significato del suo cognome) ci crea e ci distrugge letteralmente con la sua enfasi, la sua irruenza e con la sua forza di demiurgo creatore. Se a questo aggiungiamo la meravigliosa arte di scrittura del più grande virtuoso del pianoforte di ogni tempo, non possiamo fare a meno di pensare che la musica sia una ragione sufficiente per vivere in modo degno e completo.

Quando morì Ludvig van Beethoven il 26 marzo 1827, la notizia corse fulminea in tutta Europa. Non solo era scomparso uno dei più grandi musicisti della storia dell’umanità e tutti ne erano consapevoli, ma era mancato un Titano, un Demiurgo che aveva curvato il tempo e la storia con la propria opera. La sua impronta sul suo secolo, sul nostro e su quelli a venire è imprescindibile e profonda che ce ne accorgiamo o meno. La sua gloria non ha nemmeno bisogno di noi e del nostro consenso. Beethoven sul piedistallo e sugli altari ci sta da solo senza bisogno di permesso. La sua opera immensa però non va imbalsamata e musealizzata, le celebrazioni in corso dovrebbero essere prima di tutto l’occasione per guardare più da vicino la meravigliosa musica che ci ha lasciato. Dovremmo cercare di capire che non sono solo dei monumenti davanti ai quali inginocchiarci. Possiamo farlo ma dobbiamo tenere la testa alta e lo sguardo vigile.

La nona sinfonia è il brano più celebre della storia della musica e non c’è proprio da dubitarne; tutti lo “conoscono” o comunque ne hanno sentito alcune parti magari al cinema o in uno spot pubblicitario, magari senza farvi nemmeno troppa attenzione. Ma siamo sicuri che proprio tutti ne comprendano il significato? Beethoven non l’ha composto certo solo a fini ludici, è forse la sua opera più alta e di certo è il suo testamento spirituale, il suo messaggio all’umanità. Siamo sicuri di esserne degni?

Già dalla fine del Settecento, Beethoven aveva il desiderio di mettere in musica l’ode alla gioia di Frederich Shiller, uno dei testi cardine dell’Illuminismo tedesco che esprimeva i sacri valori rivoluzionari di Fratellanza, Uguaglianza e Libertà che sono a fondamento della nostra civiltà democratica ed egualitaria. Ne scrisse varie versioni, che non ci sono purtroppo arrivate, e si risolse a licenziare l’ultima e la più compiuta quando sentiva la vita venirgli meno.

A 54 anni Beethoven che, pur era stato messo a dieta e curato da un valente medico viennese, era un uomo malato con gravi problemi gastro intestinali che lo tormentavano da sempre, la sua sordità era totale da almeno un decennio e le sue traversie personali non gli davano certo la serenità di cui aveva bisogno.

Il suo spirito e la sua arte erano però immensi e le ingiurie del tempo non li avevano di certo domati. Ha fortemente voluto che la sua opera più importante e definitiva fosse un atto rivoluzionario e di amore verso la libertà nel pieno dei rigori dell’Età della Restaurazione che voleva annullare le conquiste civili e democratiche dello spirito del 1789 rimettendo sul trono i monarchi assoluti che Napoleone aveva cacciato a cannonate. L’ode alla gioia che volle come quarto movimento della sua sinfonia è pura esaltazione dei valori più alti dell’umanità, la Libertà contro la tirannia, l’Uguaglianza contro tutte le schiavitù, la Fratellanza contro chi vede negli altri solo dei nemici da opprimere.

Anche la trascrizione di Lizst non fu per niente casuale, quando nel 1851 completò quella per due pianoforti cui qualche anno dopo seguì quella per pianoforte e coro, erano ancora nell’aria i tumulti rivoluzionari in tutta l’Europa del 1848. Tra le altre cose nel 1849, prendendosi più di un rischio, aveva aiutato il rivoluzionario Richard Wagner a fuggire in Svizzera dopo la rivolta di Dresda.

Con queste premesse il concerto di Matteo Andri e Ferdinando Mossutto non poteva che essere stupefacente visto il materiale a disposizione e la raffinatezza del luogo. Naturalmente ci hanno messo anche del loro come la bravura di ottimi esecutori e perfino il coraggio e lo sprezzo del pericolo di confrontarsi con una partitura così enorme e impegnativa, in assoluto, una delle composizioni più importanti e significative della storia della musica.

Si può ben immaginare quale catastrofe possano essere in un contesto come questo i ripetuti colpi di tosse del solito (ce n’è uno almeno, per ogni concerto) che, pur non soffrendo di una grave malattia polmonare o enfisema, non teme di esibirsi nelle più moleste espettorazioni solo per non riuscire a starsene silenzioso e in ascolto un’ora o poco più.

Quando, poco prima dell’inno alla gioia, il terzo movimento riepiloga tutti i temi della sinfonia, si comprende per bene il significato della trascrizione per piano che ci aiuta a capire e a penetrare ancora più in profondità nella grandezza sublime di questa opera d’arte che compie hegelianamente lo spirito della cultura europea. La signora che ha bisogno di battere sonoramente il tempo dell’inno alla gioia per sentirsi ancora viva probabilmente non ne faceva parte.

L’esecuzione per due pianoforti è davvero affascinante anche, semplicemente, da un punto di vista scenografico e permette di intuire le stratificazioni dell’opera in se.

Meritatissimi applausi.

Come bis, dopo la prestazione ginnico sportiva, per riprendersi dallo sforzo atletico e come i ciclisti mettersi sui rulli per il defaticamento dalla Nona, i due pianisti hanno regalato per ritemprare il corpo e le povere dita niente di meglio che un movimento dal concerto per due clavicembali di J.S. Bach (BWV 1061)

Ancora un lungo scroscio di applausi da sembrare un temporale. Fuori, intanto, era calata improvvisa la sera, la chiesetta sembrava quasi immersa in una tenebra solitaria rischiarata solo dai fasci dei fanali. Dentro ogni cuore, però, la luce della gioia e della fratellanza e veniva voglia, come diceva Schiller, di “abbracciarsi a milioni”, poi ricordatisi del covid, tirata su sul naso la mascherina ancora una volta, ci si avviava verso casa.

© Flaviano Bosco per instArt

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