Uno dei miei primi ricordi è Maciste all’inferno” raccontò Fellini all’amico e critico cinematografico Dario Zanelli. “Mi pare persino che sia il mio primo ricordo in assoluto. Ero molto piccolo, ero in braccio a mio padre, che stava in piedi (il cinema era affollato) quindi dovevo avere un peso sopportabile, non potevo avere più di 6-7 anni. Mi ricordo questo saloncino buio, fumoso, con questo odore pungente e, sullo schermo giallastro, un omaccione con una pelle di capra che gli cingeva i fianchi, molto potente di spalle, molto più tardi ho saputo che si chiamava Bartolomeo Pagano, con gli occhi bistrati, le fiamme che lo lambivano intorno, perché si trovava all’inferno, e davanti a lui delle donnone, anche loro bistratissime, con ciglia a ventaglio, che lo guardavano con occhi fiammeggianti. Quell’immagine mi è rimasta impressa nella memoria. Tante volte, scherzando, dico che tento sempre di rifare quel film, tutti quelli che faccio sono la ripetizione di Maciste all’inferno.”

Questa storia autobiografica affascinante ed edificante, Fellini la raccontava sempre ma non è comunque attendibile. Il grande regista, lo sappiamo tutti, era un bugiardo patologico che sognava e risognava continuamente la propria mitobiografia con le proprie verità, esattamente come fa il cinema da più di un secolo. Non dobbiamo mai prenderlo troppo sul serio ed è proprio per questo che la sua opera ci colpisce nel profondo. La realtà e la verità dei fatti non esiste e anche questo lo sappiamo tutti, sono i grandi artisti che creano i mondi nei quali ci piace vivere.

Certo è che “Maciste all’inferno” sembra un sogno fatto da Fellini e dopo la proiezione alle Giornate del cinema muto, con la colonna sonora immaginata da Teho Teardo ed eseguita dalla Zerorchestra, quel sogno è diventato anche il nostro, ci riguarda tutti, è ormai parte di noi.

Maciste all’Inferno di Guido Brignone (Ita 1926) Nel 1914 per Cabiria di Pastrone D’Annunzio s’inventò Maciste il forzuto che ebbe un grandissimo successo in tanti film che colonizzarono l’immaginario italiano in profondità.

E’ una versione moderna che maschera il solito desiderio troppo italiano di un uomo forte e bonario che difenda la comunità, facendo da baluardo e difesa alla proverbiale vigliaccheria degli italiani; come diceva Machiavelli in una lettera al suo amico Vettori: Noi altri di Italia poveri, ambitiosi et vili. Funziona ancora oggi perfettamente.

Il film presentato alle Giornate è letteralmente una fantasmagoria di una libertà creativa totale tanto da sfiorare la messa in scena espressionista e surrealista, se poi questo non bastasse a rendere l’idea della piacevolissima rarefazione di logica narrativa si mettano in conto le sonorità elettroniche di Teardo, quelle quasi marziali degli ottoni dell’Accademia Naonis, la magia del violoncello di Riccardo Pes e infine le suggestioni della Zerorchestra e si avrà come risultato la diavoleria in 5 atti pensata da Fantasio (Riccardo Artuffo) nel 1926 ma riemersa in tutto il suo splendore alle Giornate 2021.

A parte il muscoloso contadino, il primo personaggio che si fa notare è il diavolaccio Barbariccia preso a prestito direttamente dalle Malebranche (Inf. XXI, XXIII e XIV) con la sua “decina” di Malacoda, Ciriatto, Draghignazzo e gli altri malvagi. Il regista mette in scena, con un insuperato gusto barocco grottesco per le diavolerie gotiche, le profondità dell’ade con tanto di Satanasso Plutone e gentile consorte Proserpina. Davvero affascinanti le scene di massa con le legioni infernali con tanto di corna e forconi tra il fuoco e il fumo della fornace infernale. Come si dice nelle didascalie, i diavoli all’inferno tra loro parlano in versi ma sulla terra in prosa. E’ sulla superficie terrestre che Barbariccia e la sua schiera si recano per far incetta di anime tristi da spedire nel fuoco eterno. Ogni volta che i diavoli risalgono verso il giorno ripercorrono il cammino dantesco attraverso bolge, gironi e cerchi; assolutamente fantastiche le immagini dei lussuriosi portati dal vento, vorticanti nella “bufera infernal che mai non resta”.

Quando i diavoli emergono sulla crosta terrestre e guardano la città sulla quale imperverseranno i cinefili pensano immediatamente alle scenografie immaginifiche del Gabinetto del dott. Caligari o del Faust di Murnau.

Superbe le immagini del male avvinto sulla città come una piovra: “I tentacoli del vizio”. Il tutto mentre dall’inferno Plutone e i suoi accoliti guardano le scene che si svolgono sulla terra da un grande schermo come se fossero al bar.

Maciste vive lieto in un oasi di pace, un villaggio tra orti, fiori e dolci contadinelle, quando ha fame mangia, quando è stanco si sdraia all’ombra delle fresche frasche e “s’addorme”, in sintesi conduce una vita assolutamente bucolica e lieta.

Naturalmente Barbariccia tenta anche lui: sarebbe un grande successo portare all’inferno un’anima buona come quella di Maciste per farne il più cattivo e potente dei diavoloni. Lo sottopone alla seduzione muliebre di scollacciate e procaci diavolesse, proprio quelle che si ricordava Fellini. Maciste, però, sprezzante e integerrimo, gli risponde cacciandolo via: “Non sono mica Faust, non mi conviene”.

Barbariccia non si da per vinto e si trasforma in tempesta per vincere il candore di Graziella, la virginale vicina di casa del forzuto.

Il diavolo riesce così ad introdurre nella casa della casta contadinella Giorgio un nobile estraneo di cui finisce per innamorarsi tanto da restare incinta e finire abbandonata. Rischia di finire all’inferno per una bestemmia ma Maciste e un frate cappuccino risolvono la questione.

Il forzuto viene precipitato all’inferno con un trucco e trasformato in diavolaccio dal bacio di una vampira. E’ talmente forte da sconfiggere una sommossa di diavoli capitanati da Barbariccia contro Plutone. Incredibili le scene di massa in cui prende a cazzotti e sberloni centinaia di diavoli, Bud Spencer non si è inventato niente. “E come sempre le masse si schierano con il più forte. Abbasso Barbariccia, evviva Maciste!” Grazie ai suoi servigi e alla preghierina del bambino di Graziella riacquista l’altezza e se ne torna felice al suo paesello pieno di neve, “E la fiaba è finita”.

Jokeren di Georg Jacoby (DK/DE 1928)

L’euro Pudding della Nordisk produsse e mise in scena questa preziosa pellicola. La cineteca danese, completamente digitalizzata, ci permette di reperire gioielli altrimenti “invisibili”. In questo mediometraggio si vede la upper class godersela tra sale da gioco e cocktail mentre a Nizza il carnevale impazza. Favolose le immagini “vere” dei bagordi durante la sfilate di Nizza. Uno sporco ricatto a sfondo sessuale serpeggia tra le schiene imbellettate delle signore e i baffi a manubrio dei capitani d’industria. Tutto finisce per il meglio in un inferno di donne sdegnosette e innamorate ed equivoci che si dissolvono con poco, giusto qualche lacrimuccia e baci a stampo tra il protagonista e la svenevole contessina di turno. Lo spavento maggiore è il botto che fanno le bottiglie di champagne in una delle tante feste in villa o al Savoy. Notevoli le scene girate ai party con ricchi premi e cotillons. Il film in se non è gran che ma è molto interessante dal punto di vista della rappresentazione d’ambiente e del divertimento sfrenato. Per quanto riguarda il ricatto anche quello si risolve con una bella bevuta e un capitombolo. L’anno successivo Alfred Hitchcok girerà il suo Blackmail (Ricatto) in un’atmosfera del tutto diversa e la storia del cinema non sarà più la stessa.

Curioso, particolare e perfino bizzarro il programma dei cortometraggi italiani d’epoca (1911-1918) d’autore ignoto restaurati dalla Cineteca del Friuli. Piccole schegge di cinema che spesso aprono autentiche finestre temporali sbalorditive, proiettandoci indietro nel tempo e in quel futuro che ci aspetta più di un secolo fa.

Le bolle di sapone (IT 1911) Un piccolo film con una storia molto elementare che sarebbe stata troppo zuccherosa anche per il Cuore di De Amicis che però nasconde una chicca ipercinefila. Un bambino discolo e prepotente, il Lucignolo della situazione, è incorreggibile e fa disperare la mamma, non fata turchina ma umile sartina, ma fa lo stesso.

Niente sembra farlo desistere dalle sue birichinate, nemmeno i gendarmi e le “busse”, fino a che, mentre sta facendo delle bolle di sapone con una pipetta rubata, intravede, dentro una di queste il proprio futuro di scapestrato e la morte di crepacuore della mamma. E’ un immagine di straordinari fattura cinematografica nella quale la bolla sospesa sembra un archetipo della settima arte, dal cine-occhio di Vertov fino al obiettivo di Hal 9000 di Kubrick e tante altre metafore della visione meccanica del cinema. Naturalmente niente di voluto dall’autore del 1911, è tutta una suggestione ipercinefila ma a posteriori fa impressione ugualmente.

Il Bambino pentito da quello che ha visto nel futuro se ne torna dalla mamma e promette di fare il bravo. In realtà non era Lucignolo ma Pinocchio e la bolla del cinema moralistico ed educativo lo ha trasformato nel burattino di legno obbediente che tutti volevano che fosse.

Cenerentola (IT 1913) Frammento incompleto del fasullo making off di un film sulla favola di Cenerentola. Assolutamente eccezionale vedere i gloriosi studi cinematografici Ambrosio all’opera cento anni fa. Un grande capannone alla periferia di Torino (via Minerva) con ampie vetrate per far entrare la luce e un carro ponte semovibile per le riprese aeree. Gli impiegati mettono in scena se stessi mentre preparano e girano le scene. Il regista Piccolini istruisce Silvietta, un’attrice alle prime armi che deve affrontare una particolare scena drammatica per passare il casting. Ci riesce ma per l’impegno sulle scene è costretta a mettere in collegio dalle suore la propria figlia. Si vedono le sarte e le costumiste tagliare, cucire e ricamare. Davvero intrigante vedere che contemporaneamente al girato del supposto film c’è qualcuno che riprende il making off facendoci credere che il punto di vista degli spettatori è quello che meglio di tutti gli altri è in grado di capire la verità del contesto. E’ sempre stato il vero segreto del cinema far finta di spiegarne i segreti.

Il corto si interrompe mentre si vede la troupe trasportata con un furgone verso i luoghi dove saranno girati gli esterni.

La mosca e il ragno (IT 1913) Uno scolaretto fa i compiti ma una mosca lo disturba. La cattura e gli strappa le ali lasciandola viva in balia di un ragno feroce che non appena il bimbetto se ne va si mette ad inseguirla forsennatamente. La mosca se ne scappa ingegnandosi d’attirare il famelico mostro in ingegnose trappole. Il film è incompleto e la pellicola gravemente danneggiata e illeggibile in alcuni punti ma sembra quasi un effetto voluto alla David Lynch. Animazione fotografica da far strabuzzare gli occhi. Faceva venire in mente i grandi capolavori dell’animazione dell’est europeo.

Il gilgio nero (IT 1913) Nell’alta borghesia i nobili e i ricchi si scambiano i convenevoli al solito elegante ricevimento, la storia della classe dirigente italiana è sempre passata per i rituali delle “cene eleganti”. Nell’ombra e negli scantinati della periferia la società segreta dei mafiosi trama contro il duca-conte Ruggeri. Gli adepti della setta di delinquenti si ritrovano per pianificare le loro malefatte e latrocini. Dopo rapine, inseguimenti rocamboleschi e acrobazie imprevedibili tutto finisce per il meglio. I ladroni vengono arrestati e i ricchi continuano a vivere nelle loro case da sogno tra il “tamarindo e il baobab”. E’ di certo un film moralista nel quale i buoni sono belli e ricchi e i cattivi brutti e tagliagole, che però documenta l’andare formandosi di un ingenuo immaginario cinematografico “crime” tutto nostrano, strapaesano e nazional popolare che funziona ancora, basti pensare all’infinita saga televisiva di Don Matteo contrapposta a quella di Gomorra. Diversi ma, in fondo, due facce della stessa moderna rappresentazione consolatoria e bigotta della violenza.

Le ménage Dranem (Francia 1912) un altro corto davvero esilarante e fuori dal tempo. Nella vita della famiglia Dranem la vita scorre al contrario. La moglie molto mascolina e autoritaria fa fare i lavori di casa al marito remissivo e piagnone, lei porta i pantaloni alla zuava. Lo prende sempre a botte perché è uno scansafatiche. Lei se ne va in giro per la città con la sua bicicletta fiammante, bellissime riprese in movimento dal “vero”. Si siede al bar, carica la pipa dalla quale tira delle gran boccate mentre si fa portare un gran boccalone di birra come tutti i maschi che si rispettano. Nel frattempo a casa il marito lava i piatti. Lei giuliva gioca a carte, a dadi, a biliardo con le amiche fumando dei gran sigari e finendo per fare a botte come un qualunque ubriacone. Sempre a caso il marito è oberato dai lavori casalinghi ma il dover cambiare il pannolino (fasce) al piccolino di famiglia gli fa capire che la misura è colma. Non appena la moglie ritorna, da vero macho la picchia di santa ragione e la rimette al proprio posto a forza di pedate. La sequenza finale vede la famiglia a passeggio, lei tutta tronfia e felice d’aver riacquistato la propria femminilità spinge una carrozzina mentre lui segue a petto in fuori e la pipa in bocca, vero padre padrone seguito da un nugolo bambini che gli somigliano tutti.

Un film decisamente misogino, completamente scorretto dal punto di vista umano ma molto piacevole e divertente. La storia non si può giudicare con la morale mentre è sempre possibile fare l’inverso.

Flaviano Bosco © instArt

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