Prima del concerto al Parco delle Rose di Grado, una giovane mamma che “sorrideva e non guardava” con la regolamentare maglietta dell’album Rimmel si faceva un selfie con il figlio piccolo da scuola elementare, anche lui con la sua bella maglietta con su scritto: “Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”. Non facevano quarant’anni in due, nessuno dei due era nemmeno nato quando De Gregori cominciava a girare i locali e i palcoscenici con la sua chitarra a tracolla e la sua poesia; avrebbero potuto essergli rispettivamente figlia e nipote: “Eppure qualcosa rimane tra le pagine scure e le pagine chiare”, c’è qualcosa che unisce quelle generazioni così distanti e che ci fa credere ancora nelle storie che l’Artista ci racconta da così tanto tempo che sembra un giorno.
Tutto esaurito, prevedibile e previsto, domenica Primo agosto al festival Onde Mediterranee, edizione dei 25 anni, per un poeta con la chitarra che ha la statura delle antologie scolastiche, tanto è diventato parte della nostra storia “e la storia siamo noi, siamo noi queste onde del mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da raccontare”.
Francesco De Gregori (leva calcistica del ‘51) non ha bisogno di tante presentazioni, la cultura italiana degli ultimi cinquant’anni, nel suo senso più autentico, non è comprensibile senza i suoi versi che ne hanno scolpito gli attimi e che ne incidono i momenti.
A De Gregori non è mai piaciuto il termine “cantautore” con il quale lo si definiva nei suoi primi anni di carriera, ha sempre preferito quello più onnicomprensivo di “Artista”. Anche “Cantastorie” però sembra adatto per un poeta che in tutti questi decenni ci ha fatto riflettere sulle storie del nostro paese, grandi e piccole, personali o politiche, minime o epocali.
Come, quando, fuori, pioveva ad un certo punto lo spettacolo è cominciato per una platea gremita che solo le rigide norme anti-Covid sono riuscite a irregimentare. La giornata era stata sotto la minaccia di un enorme temporale che in altri luoghi della regione ha provocato danni ingentissimi con il vento e con la grandine, scrosci intermittenti e raffiche di scirocco avevano imperversato per ore. Sembrava che dovesse venir giù il cielo e invece sono stati gli applausi a “far venir giù il teatro” come si dice in queste occasioni.
“Come un sorriso che guarda al futuro”, De Gregori ha cominciato a incontrare il suo pubblico che già disperava di poter assistere al concerto per colpa di qualche gocciolona di pioggia che non la voleva smettere di precipitare. Vale la pena davvero di spendere qualche parola per ogni brano.
Il primo brano, chitarra, armonica a bocca e voce è “Cose” decisamente misterioso ed enigmatico che ci proietta dentro la storia di qualcuno (una persona che riflette e ricorda? Una coppia?) senza darci alcuna certezza, sono brandelli di anime, una stanza in disordine nella quale notiamo oggetti e intuiamo situazioni che non sono le nostre e che hanno già manifestato i loro effetti. È come sbirciare nel vissuto di qualcun altro senza capirci niente ma restando comunque ammutoliti e intrigati. Avremmo potuto essere noi, ma non è successo. La poetica di De Gregori ha proprio il dono di farci guardare nelle vite degli altri, facendoci immedesimare in qualcosa che ci rimane estraneo. Qualcuno, per caso, è in grado di capire fino in fondo la Vita propria e altrui?
Con molta ironia e fare bonario e birbone, il cantante si è rivolto al proprio pubblico raccontando delle difficoltà dei primi tempi, cinquant’anni fa. In quel periodo faceva da spalla ad un non meglio precisato gruppo “metallaro” con un frontman piacione e scatenato. Lui apriva i loro concerti con il suo folk “dylaniato” e doveva confrontarsi con un pubblico che non era per niente dalla sua parte. Fu così che imparò che in un concerto non si possono sopportare più di tre canzoni chitarra e voce. Lo dice ridendo come chi lo ascolta.
Dall’album Bufalo Bill del 1976 intona “L’uccisione di Babbo Natale”, un’altra storia strana che sembra parlare di due “Childrens of the Revolution”, figli del ‘68 (figli dei figli dei fiori) che non capiscono anzi rinnegano i sogni dei loro genitori (uccidono Babbo Natale). Sembra un po’ di stare sul set di La rabbia giovane (Badlands) di Terrence Malick (1973) rivisitato poi molto più tardi da Oliver Stone nel suo Assassini nati (Natural Born Killers, 1994). La canzone comunque funziona anche senza troppe congetture e lascia molto di se all’interpretazione di ognuno.
Ultimo brano da solo sul palco è stato A Pa’ che ricorda la tragica morte del poeta di Casarsa. Non manca a Grado un Largo Pier Paolo Pasolini, proprio in riva al mare, sulla diga frangiflutti, non manca nemmeno il ricordo di lui in carne, ossa, nervi, delle sue Settimane del cinema in polemica con la Mostra di Venezia, Maria Callas, la sua Medea girata in laguna tra i pantani e i casoni. Certo ne sono passati di anni da allora e “Non mi ricordo se c’era la luna, e né che occhi aveva il ragazzo. Ma mi ricordo quel sapore in gola e l’odore del mare come uno schiaffo”. La spiaggia di Ostia non è poi così diversa da quella di Grado. Pasolini vola ancora “sopra i gigli nei campi”.
A questo punto del concerto arriva l’ottima band composta da Guido Guglielminetti (Basso) Carlo Gaudiello (tastiere) Paolo Giovenchi (chitarre) Alessandro Volpe (pedal steel guitar e mandolino) Primiano Di Biase (Hammond) Simone Talone (percussioni). Mentre il cantante si fuma una sigaretta dietro le quinte, i suoi musicisti partono molto rock in un blues solido e sudista con il piano completamente in dissonanza. La canzone è “Scacchi e tarocchi”, durissima nel ricordare senza retorica gli anni del terrorismo e tutte quelle giovani vite nella fornace della violenza.
Si continua in un’atmosfera musicale southern e la steel guitar di Volpe sembra raccontare di un’autostrada che viaggia verso l’orizzonte “Chissà quanto ho viaggiato, quanta polvere ho mangiato”. Ne “La testa nel secchio” il cantante ci parla in modo molto personale del lungo viaggio della vita, in quel momento preciso nel quale guardandosi indietro si capisce che si è fatta talmente tanta strada che non è più possibile tornare. “E il treno sta partendo e non è ancora partito” è un attimo di sospensione tra tutto quello che siamo stati e tutto quello che saremo sui binari della vita.
Quando parte “La storia siamo noi”, automaticamente ci si sente figli di un paese sfortunato e meraviglioso che ha “tutto da vincere e tutto da perdere” fatto di parenti serpenti, di faide e di figli di Caino ma anche di una straordinaria, straziante bellezza. Ce ne vergogniamo un po’ per quanto siamo corrotti, ma poi siamo pronti a farci venire i lucciconi agli occhi ad ogni sventolar di bandiera; siamo pronti a pugnalarci alle spalle in ogni momento ma ci sentiamo per un momento tutti di nuovo fratelli mentre i nostri campioni alzano la coppa al cielo nel tripudio dell’inno nazionale. La storia siamo noi e non è sempre una bella cosa.
De Gregori sa bene come far venire i brividi con la sua armonica a bocca e i suoi ricordi di pomeriggi tra “la notte, il vino, e la malinconia, la solitudine e le valige di un amore che è volato via”. La tenerissima canzone “Caterina” è dedicata alla Bueno (1943-2007) una cantante ed etno musicologa toscana con la quale il cantante collaborò nei primi anni ‘70. Oggi poco ricordato dal grande pubblico, il suo lavoro sul campo fu fondamentale per la raccolta e la documentazione della tradizione del canto popolare toscano. Nel testo i versi “E cinquecento catenelle d’oro si spezzano in un secondo” ricordano un’antica canzone rinascimentale fiorentina che la Bueno riportò in auge e che anche Roberto Vecchioni omaggia nella sua Reginella. Un episodio di autentica storia della musica italiana che incatena i secoli.
Vivere ad “Atlantide” con un cappello pieno di ricordi significa ancora una volta aver rinunciato ai propri sogni di gioventù non per indolenza ma perché spesso è la vita che decide per noi. Il continente perduto è quello del rimpianto e della nostalgia. Il personaggio cantato dal poeta ricorda una donna amata in gioventù che rappresentava la libertà e la speranza ora inghiottite dal tempo e dalla disillusione proprio come lei che non tornerà mai più.
Naufraga anche il “Titanic” con l’orchestrina che suona “questi nuovi ritmi americani” e i ragazzi di prima e di terza classe che trovano comunque il modo di conoscersi e di amarsi anche sull’orlo di una catastrofe. Il pubblico del Parco delle Rose, naturalmente saluta con un’ovazione uno dei brani che definiscono il perimetro della canzone d’autore italiana, con un testo che ha proiettato di diritto De Gregori tra i massimi autori della poesia italiana, il Parnaso gli spetta di diritto e il bello è che non ha ancora finito; nel concerto di Grado ha dimostrato di essere in forma smagliante con un gruppo di ottimi musicisti che lo sostengono e che praticamente potrebbero essere tutti suoi figli. Il meglio deve ancora venire.
Tra le canzoni più significative della carriera del cantante romano un posto d’onore va decisamente a “Il cuoco di Salò” nella quale s’immagina il punto di vista di una persona semplice suo malgrado coinvolta “dalla parte sbagliata” negli eventi tragici della Guerra di Liberazione, che De Gregori conosce molto bene. Francesco porta il nome dello zio paterno, capo-partigiano della Brigata Osoppo, che venne assassinato “dalla parte giusta” nei tragici oscuri fatti della Malga di Porzûs così come Guido il fratello di Pasolini. Tanto per capire che il frutto non cade mai troppo lontano dall’albero, la moglie del patron di Euritmica, organizzatore del concerto e della rassegna, è la grande storica Alessandra Kersevan, massima esperta italiana dell’intricata questione. A breve si aspetta la riedizione del suo capitale: “Porzûs. Dialoghi sopra un processo da rifare”. Anche i due De Gregori, zio e nipote, di certo l’aspettano.
Ma il cantante non dimentica che anche oggi è in corso una orrenda guerra fratricida contro i nostri fratelli più fragili e sfortunati. In “Nero” racconta la storia di uno dei poveracci che vengono “Dalla periferia del mondo a quella di una città, la vita non è una scampagnata e il Nero lo sa, preso a calci dalla polizia, incatenato ad un treno da un foglio di via oppure usato per un falò”. Tra i tanti recenti episodi di sfruttamento possiamo ricordare quello della Grafica Veneta nella quale lavoratori pakistani ridotti in stato di schiavitù producevano a ritmi massacranti mascherine e stampavano le pagine degli inutili best sellers che ci leggiamo sotto l’ombrellone. Il famoso “miracolo Nord Est” la “locomotiva economica d’Italia” è in gran parte basato sul sangue e sul sacrificio dei tanti “Neri” delle nostre città-ghetto e delle nostre campagne.
Questo tipo di attenzione verso i malanni della nostra società è una delle cifre della poetica del Principe della canzone italiana. Già nel suo primo successo appariva fugacemente “Il mendicante arabo ha un cancro nel cappello, ma è convinto che sia un portafortuna, non ti chiede mai pane o carità e un posto per dormire non ce l’ha. Ma tutto questo Alice non lo sa”. Le note di quel brano hanno risuonato ancora taglienti e languide al Parco delle Rose per chi ha voluto capirle e sentirle nel proprio cuore.
E si è potuto “scoprirne gli accordi, il ritmo e la melodia. E se appoggi l’orecchio sul muro puoi distinguerne le parole, e dietro la festa smascherare il dolore” di “Sangue su sangue” in una versione molto Rock’n’Roll in cui l’hanno fatta da padrone la “pedal steel guitar” e la ritmica incalzante delle percussioni di Talone.
I “Pezzi di vetro” della famosa canzone sono certo le difficoltà della vita e le traversie di una relazione tormentata tra un ragazzo e una dona più adulta, ma sono anche tutte le occasioni che abbiamo perso, tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle credendo che non ci abbia fatto sanguinare e che invece ci tormenterà per sempre con le sue cicatrici.
E si arriva finalmente a “Generale” che molti ragazzi purtroppo conoscono solo nella versione di Vasco Rossi, sempre stupenda ma snaturata e fuori contesto. Quando fu scritta, il pacifismo non era solo velleitarismo e ipocrisia come oggi (la guerra è brutta ma se i “cattivi” non lo capiscono li bombardiamo), era un ideale altissimo e rivoluzionario. Come diceva il grande filosofo antifascista Aldo Capitini: “Non si può dire di volere la pace e lasciare la società com’è, con i privilegi, i pregiudizi, lo sfruttamento, l’intolleranza, il potere in mano di pochi”. Qualcuno, soprattutto tra i nostri politici, che dicono di cantare questo brano a squarciagola, forse dovrebbero prendersi un attimo per ascoltarlo meglio e magari cercare di capirlo.
“Rimmel” ha fatto piangere un paio di generazioni di cuori spezzati e contiene una delle frasi più crudeli che una donna abbia mai detto al proprio ex nella letteratura italiana. “Come quando fuori pioveva e tu mi domandavi se per caso avevo ancora quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi. Ed il vento passava sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona e quando io, senza capire, ho detto sì. Hai detto “E’ tutto quel che hai di me”. Lei si chiamava Patrizia e lasciò il cuore infranto del giovane Francesco per la barba di Ninì Salerno dei Gatti di Vicolo Miracoli. Una storia tra il grottesco e il tragico da Lussuriosi danteschi.
De “La leva calcistica del’68” basta dire che “Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia” per descrivere un universo di sensazioni e di ideali che il Poeta romano ci ha regalato e che forse ci hanno migliorato. Non occorre aggiungere altro.
Anche cantando “Buonanotte fiorellino” De Gregori non da mai l’impressione di fare il verso a se stesso, di essere la propria caricatura, non fa mai revival nostalgico della sua carriera ma è semplicemente il perfetto interprete della propria poesia. Non resta che ringraziarlo “per averci stupito”.
E, infatti, il concerto scivola verso gli ultimi brani (Cercando un altro Egitto, Il vestito del violinista, Viva l’Italia). Dopo aver assistito all’esibizione resta la convinzione che De Gregori, da cinquant’anni, anche se “pioggia e sole cambiano la faccia alle persone, fanno il diavolo a quattro nel cuore”, continui ad essere “sempre e per sempre dalla stessa parte” quella giusta, proprio come i nostri padri “martiri partigiani”, come nella canzone e come stava scritto sulla maglietta di quel bambino di cui parlavamo all’inizio.
“Buona notte, Questa notte è per lui, per te e per tutti noi”. “Buonanotte Fiorellino” che sei il nostro futuro.
Flaviano Bosco © instArt
Si ringrazia Gianni Carlo Peressotti per le immagini del concerto