Chiariamolo subito: il -trito e ritrito- gioco di parole del titolo potrebbe sembrare una stroncatura immediata ma così non è. La frase però rappresenta molto bene una palese dicotomia dello spettacolo visto alla Sala Bartoli: la lucidità del titolo (capiremo tra un attimo a cosa si riferisca) e il livello di entropia in scena, in costante aumento fino a raggiungere un nonsense caotico che fa quasi rinunciare lo spettatore a cercare di “mettere assieme i pezzi”. Non che questo sia per forza un difetto, ovviamente.

Almeno qui, tra queste righe, cerchiamo però di andare con ordine e lucidità. Innanzitutto il titolo della pièce. Tutto si spiega con una terapia svolta da uno dei protagonisti, quella del “sogno lucido”: un modo per essere coscienti che si sta sognando e dirigere quel mondo onirico verso dove si preferisce. A seguire questa terapia è Luca, parte del “terzetto familiare” protagonista, assieme alla madre Tetè e alla sorella Lucrezia. Non una famiglia facile, anzi: quando Luca e Lucrezia erano ancora piccoli lui ha rischiato di morire, salvato dalla donazione di un rene da parte della sorella -che a causa di questo gesto eroico ha a sua volta quasi lasciato questo mondo e ha dovuto seguire un percorso di cura in America. La vicenda non ha però avuto un “happy ending” ed anzi ha portato alla distruzione del nucleo familiare, con il padre che fugge in Sudamerica, Lucrezia emigrata a Miami e Luca rimasto da solo con la madre ed emotivamente a pezzi, costretto a una terapia per staccarsi dalla figura di Tetè e a ripetere continuamente che a 10 anni lui avrebbe preferito morire. A chiudere il “felice quadretto” Tetè, una madre ossessionata e in continuo bilico tra l’amare e odiare i figli e la propria vita; e che sembra cambiare umore di continuo, oltre a non ricordarsi (o non voler ricordare) ciò che è stato detto e fatto anche solo pochi minuti prima e che quindi continua a distorcere la realtà che le sta attorno. Il tutto si agita ancor di più quando Lucrezia torna improvvisamente a casa dopo 15 anni, reclamando dal fratello il rene “prestatogli” in quanto necessario per il marito, anch’egli malato.

Già questo dovrebbe iniziare a far capire il parziale caos messo in scena da Jurij Ferrini (qui anche nella veste di attore, ma ci torneremo in seguito). Si aggiunga che le vicende continuano a spostarsi tra due piani: quello reale del ritorno di Lucrezia e quello onirico, con il sogno ricorrente di Luca (i tre familiari in un lussuoso ristorante) che viene messo in scena più volte, con atmosfere sempre diverse a seconda del controllo che Luca ha sul sogno: da cena idilliaca di una famigliola perfetta, a incubo in cui madre e figli finiscono per scannarsi a parole.

Prima di continuare lungo la scala di aumento dell’entropia è necessario però fare una piccola sosta e una precisazione fondamentale, parlando del testo originale della pièce. “Lucido” è opera dell’argentino Rafael Spregelburd e l’architettura drammaturgica da lui scelta si ispira pesantemente alle telenovelas latine, che qui in Italia certamente conosciamo grazie a diversi passaggi televisivi. Telenovelas esagerate, estreme, che portavano le vicende a livelli così drammatici da diventare cringe e involontariamente comiche. E’ quindi evidente come “lucido” non sia caotico a caso ma per precisa scelta, e come per la stessa scelta mischi in continuazione dramma e comicità, serietà e leggerezza. In un modo che non sempre è fluido: ma è proprio nello stridore di certi passaggi che questo gioco di omaggio e ispirazione si rivela appieno (esemplare il momento in cui Tetè rivela a Luca che il donatore del rene è sua sorella, così melodrammatico da risultare palesemente “finto” e recitato) .

Detto ciò, torniamo alla spirale ascendente di caos. Il quadro dipinto finora -con i due piani narrativi che si intersecano e tre personaggi che per essere gentili descriveremo solo come “con qualche problema”- già così non è di facilissima fruizione e necessita di una certa attenzione dello spettatore. Ma funziona comunque, e anzi avvince perché è in grado di mettere sì sul piatto un dramma di cui non si riesce a immaginare la conclusione ma anche dei momenti molto divertenti, soprattutto grazie a una Tetè/Rebecca Rossetti così sopra le righe da risultare adorabile anche quando fa cose moralmente aberranti (come il nascondere a Luca una cosa fondamentale per la sua salute mentale).

Il problema è che non è finita qui. La vicenda si complica progressivamente, introducendo nuovi elementi che sempre più sembrano non avere alcun legame con i precedenti e con la storia in generale. Si inizia a sentire un retrogusto sempre più forte di nonsense, fino a che si rinuncia a trovare una logica in ciò che sta accadendo e nella mente si dipinge un gigantesco “WTF?” (per i non avvezzi al linguaggio, “what the fuck?” ossia “ma che cavolo sta accadendo?”). Uno degli esempi massimi sono le scene finali, in cui si ha per la prima volta l’incontro nella vita reale -cioè non nel piano onirico del ristorante- tra tutti i protagonisti. Il ritorno a casa di Lucrezia, preparato nelle quasi due ore precedenti di spettacolo quasi come una “resa dei conti” (quindi momento drammatico) diventa invece nonsense puro, con la ragazza non più arrabbiata ma anzi in estasi perché lungo la strada ha visto un UFO; a questo si aggiunge Luca, convintosi che anche quello sia solo un suo sogno.

E veniamo finalmente al nucleo del problema. Quel che accade è davvero senza senso? Davvero la storia si sfilaccia così tanto da diventare inseguibile? Ovviamente no. C’è una spiegazione a tutto ciò che si è visto sul palco, e una volta rivelata fa capire come tutto -anche le cose più irreali- combaci e trovi un suo posto. E’ un vero e proprio colpo di scena in perfetto stile thriller, che quindi ci guarderemo bene dallo spoilerare in queste righe. Possiamo solo dire che tutti i fan dei gialli psicologici saranno certamente contenti. Purtroppo però la rivelazione avviene molto, troppo tardi: appena negli ultimi dieci minuti di spettacolo. Certo, sarebbe forse stato difficile svelarla prima o anche solo lasciare qui e la degli indizi che portino gli spettatori sulla giusta strada. Ma rimane il fatto che in questo modo il “gioco all’aumento dell’entropia” va avanti troppo a lungo prima di dargli un senso. Un tempo così lungo da rischiare di far evaporare negli spettatori l’effetto “apprezzamento per le volute esagerazioni”. Un vecchissimo adagio recita che “ogni bel gioco dura poco”: ecco, in questo caso si è andati certamente oltre la durata massima.

Da un punto di vista attoriale, un plauso va fatto a tutta la compagnia. Rebecca Rossetti è -come già detto- una Tetè adorabile, che è impossibile non amare in tutte le sue fobie, paranoie, continui cambi di visione e di umore. Certamente fulcro della vicenda, è bravissima nel saper dare un tocco di leggerezza anche ai momenti più drammatici. Bravi anche i “figli” Federico Palumeri (Luca) e Agnese Mercati (Lucrezia). In particolare il primo è molto abile nel tratteggiare la scala di grigi del carattere di Luca, che se inizialmente sembra la classica vittima si rivela pian piano meno innocente del previsto, con momenti alternativamente da carnefice nei confronti di chi pare più debole di lui e da persona a cui semplicemente piace compatirsi. E che si agita ingabbiato nell’ossessione della figura materna, da cui fino in fondo non si capisce se riesce a liberarsi.

La Mercati disegna una Lucrezia per molti aspetti simile alla madre, con molti cambi di umore ed una generale esagerazione nei modi e nelle reazioni; forse anche troppa esagerazione, con diversi momenti che mostrano un pò di overacting. Ma generalmente il personaggio funziona e la giovane Agnese avrà certamente tempo nella propria carriera per mitigare questi eccessi. Jurij Ferrini, invece, ritaglia per sé stesso il doppio ruolo di cameriere del ristorante del sogno e di Dario (“amico” o forse più di Tetè) ed in entrambi è bravissimo a stemperare la tensione di certe scene. I suoi personaggi -essendo entrambi esterni alla famiglia- non hanno subito l’influsso dei drammi familiari e rimangono quindi i più “leggeri”, quelli a cui sono affidati molti dei momenti più comici dello spettacolo. Sono due caricature ma non risultano grottesche ed è facilissimo per la platea sorridere con loro ed affezionarcisi. Se propio vogliamo pensare ad una possibile critica potremmo dire che i due personaggi vengono interpretati da Ferrini in maniera molto simile; ma alla luce del colpo di scena degli ultimi minuti, anche questo trova un senso e fa pensare che le similitudini siano volute.

Come concludere in pochi brevi pensieri, quindi? Non è facile. “Lucido” è un ottimo testo, la messa in scena è stata ben confezionata, gli attori sono tutti molto bravi (abbiamo già detto che la Tetè di Rebecca Rossetti è deliziosa?). Quello del grande caos prima della rivelazione finale è però un problema non da poco, perché porta a non godersi appieno le ultime decine di minuti (e anzi a seguirle passivamente, pensando “boh vabbè, accada quel che accada, tanto ormai…”). Ed è un peccato perché a pièce terminata, col senno di poi, tutto assume un’altra luce.

Ecco quindi come potremmo concludere: normalmente vituperato e evitato come la peste, in questo caso il cattivissimo “spoiler” può essere cosa buona e giusta. Se ancora non avete letto il testo originale di Spregelburd allora informatevi, documentatevi. Rivelatevi il colpo di scena finale e solo dopo andate a teatro: perché così godrete appieno di un’opera intelligente e -sì, a vicenda completamente svelata si può dire- completamente “lucida” nella sua drammaticità.

Luca Valenta / ©Instart

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