Nel film di Nicholas Roeg “L’uomo che cadde sulla terra” David Bowie interpreta, o meglio, è un alieno buonissimo e di indole ingenua che precipita sul nostro pianeta perché il suo sta morendo e cerca un luogo dove poter vivere con i propri cari che ha dovuto lasciare indietro. La sua impresa fallisce su tutta la linea, tutti i terrestri gli sono ostili e prima lo trattano come un fenomeno da rinchiudere e analizzare e poi finiscono per dimenticarsene lasciandolo alla sua disperazione e al silenzio di una totale incomunicabilità ed emarginazione. Nessuno vuole davvero amare quell’alieno.

Nel libro Incantesemâs, Destini uniti nella concretezza di un sogno (Fondazione Progettoautismo FVG 2021) che parla dell’esperienza luminosa dell’associazione Progettoautismo FVG, Elena Bulfone, cuore di quell’avventura, insieme al marito Enrico Baisero, racconta la propria esperienza con il figlio Alessandro affetto da quella sindrome paragonandolo spesso proprio ad un alieno, qualcuno che viene da un altro pianeta con il quale noi terrestri dobbiamo abituarci a interagire. È davvero una metafora efficace che mette nella giusta prospettiva il problema.

In lingua friulana Incantesemâs corrisponde ai termini italiani incantati, rapiti, stupefatti, assenti nella loro meraviglia estatica, si può dire di persone sottoposte ad un incantesimo ed è un altra metafora molto efficace per tentare di descrivere le persone con quel determinato tipo di neurodiversità che chiamiamo autismo.

Continuando su questa metafora vengono facilmente alla mente i castelli incantati del mago Atlante descritti dall’Ariosto nel suo Orlando Furioso, nel quale i paladini vagano inseguendo le proprie ossessioni, ignari del mondo esterno e completamente staccati da esso. Certi incomprensibili furori nei quali si vedono, di tanto in tanto, incomprensibilmente “esplodere” le persone autistiche non sono per nulla diversi da quelli del celebre paladino di Francia.

“E di cosa è fatto il mondo di un bambino autistico? Di sfarfallamenti di mani, correndo per casa e di urla e suoni mai sentiti. Di reflussi ed eczemi. E di parole spezzate, mai sentite prima. Disprassia, ovvero: incapacità di portare a termine qualsiasi azione o di pianificare qualsiasi evento.” (Pag 38)

Ma smettiamola per un attimo di fare letteratura, quello di cui dobbiamo parlare non è un gioco o una fantasia è qualcosa di molto più concreto; infatti, è un sogno.

Incantesemâs è un libro durissimo eppure di straziante dolcezza e bellezza. Non è per nulla il solito libro apologetico e celebrativo con la storia strappalacrime dell’ennesima benemerita associazione di volontariato, uno di quelli che esalta, spesso giustamente, i traguardi raggiunti, le onorificenze dei soci, i necrologi e le più varie benemerenze.

Tra le sue pagine le vere medaglie da appuntarsi sono spesso lividi, morsi e sputi. Elena e Enrico non fanno sconti a nessuno, nemmeno a se stessi, sanno essere perfino crudi e sgradevoli proprio come la vita reale che nasconde sempre nello zucchero di alcune giornate di sorrisi, l’amaro veleno del disinganno.

“Avere un figlio autistico non è bello. Avere un figlio autistico non è un dono del cielo. E non è una sfida che bisogna accettare col sorriso. Chi ha un figlio autistico è ben cosciente che la sua vita non sarà più la stessa e, toglietevi dalla testa, che ogni tanto non si pensi che si preferirebbe una malattia terminale a una condanna per tutta la vita. No, nel mondo del politicamente corretto piace pensare che sia una battaglia combattuta con il sorriso. Ma la frase più eloquente la dice Enrico a Elena un giorno davanti a un tavolo con un bicchiere di vino che lo scruta dalla tovaglia: Avere un figlio autistico è una gran rottura di coglioni.” (pag. 37)

Secondo il DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), i criteri diagnostici dei disturbi dello spettro dell’autismo vengono elencati a partire da alcuni deficit. Il primo è:

“Deficit della reciprocità socio emotiva, che vanno, per esempio, da un approccio sociale anomalo e dal fallimento della normale reciprocità della conversazione, a una ridotta condivisione di interessi, emozioni o sentimenti, all’incapacità di dare inizio o di rispondere a interazioni sociali.”

Si passa poi a deficit di comunicazione non verbale, di comprensione, adattamento, movimenti ed eloquio ripetitivo, interessi limitati, iper o iporeattività e via di seguito con una serie di argomenti e casistiche nelle quali potrebbe entrare qualunque di noi.

In realtà, nessuno sa niente dell’autismo e anche la scienza più paludata si trova davanti un autentico enigma che mina alle radici tutti i nostri pregiudizi più radicati, soprattutto quello pervicace di normalità; perfino il DCM-5 parla di anomalie e difformità, ma potremmo chiederci, rispetto a cosa?

L’autismo, così come il tema basagliano della follia, ci mette davanti alla vera posta in gioco della nostra esistenza che è quello di cercare di intuire cosa siamo davvero come individui e come comunità.

Siamo “funzionari della specie” come dice Schopehauer? Oppure “esseri di relazione”? Creature tra le altre? Res Cogitans “Cosa che pensa” come per Cartesio? Siamo solo materia animata? Cosa ci definisce davvero?

Certo a queste domande e a molte altre, non c’è mai stata una risposta definitiva e forse sono perfino mal poste; quello che sappiamo è che sentiamo dolore e se non ci chiudiamo al mondo siamo in grado di sentire anche quello degli altri.

È nella compassione la vera radice della nostra esistenza. Questo è quello che emerge dalle pagine del libro nel quale si raccontano le tante disavventure di una famiglia con un figlio autistico che, prendendo consapevolezza del proprio problema, decide di non chiudersi su se stessa nella propria disperazione ma, al contrario, di aprirsi al mondo della condivisione e dell’accoglienza e dell’amore verso gli altri.

Il mondo greco chiamava Agape il momento più alto e spirituale dell’amore che è il dono disinteressato di se verso gli altri, in grado di superare qualunque ostacolo. Quello cristiano lo chiama Caritas.

“La società cerca di difendere se stessa e i suoi schemi, l’autismo rompe tutti questi schemi. È una bomba sociale e istituzionale oltre che familiare…La realtà di oggi è un posto dove chi entra si sente accolto e qui davvero si parla una lingua comune. Autismo o no. Si chiama compassione, si chiama “grazia”, carisma, quello che ci ha fatto sentire dentro il nostro simile per offrirgli una mano tesa, un riscatto sociale che è passato attraverso le forche caudine dell’impegno. Sembrava impossibile. Ora non più” (Pag. 87)

Senza alcuna retorica, Elena ed Enrico dimostrano come sia possibile trasformare il proprio dolore in un miracolo che si ripete tutti i giorni. Il centro di Feletto Umberto che attualmente ospita 90 ragazzi non può essere considerato solamente come un luogo di riabilitazione oppure come una residenza per i meno fortunati, è, in realtà, un laboratorio nel quale si sperimenta la possibilità di creare una società più giusta in un mondo nuovo nel quale non esista l’emarginazione, l’indifferenza e l’esclusione sociale. È il pianeta che Elena ha voluto creare per il proprio alieno Alessandro che sembra un paradiso terrestre. È un sogno che non finisce mai di 2700 mq su tre piani con quasi 5000 mq di verde e scoperto con all’interno sale relax, palestre, sale per la riabilitazione, cucine, uffici, ambulatori, appartamenti e molto altro, soprattutto sorrisi e gioia.

Scrive ancora Elena:

“Nessuno si salva da solo” avevo letto poi quel libro della Mazzantini e, dopo tanti anni, anche la “Teoria dei giochi” di John Nash che mi convincevano ancor di più del fatto che solo un percorso di benessere collettivo poteva riscattare un destino difficile.”(pag. 99)

I sogni concreti di Progettoautismo FVG dimostrano che insieme possiamo cambiare il mondo, possiamo scardinare l’abitudine, il pregiudizio e l’indifferenza, possiamo costruire un futuro migliore al di là di ogni retorica. Non è utopia, è sforzo comune quotidiano, è una stretta di mano, un abbraccio e, senz’altro, qualche lacrima ma di quelle che irrorano i nostri sogni e sono in grado di farli sbocciare nella realtà dell’amore.

Flaviano Bosco © instArt

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