A Chiasiellis di Mortegliano, nel parco della meravigliosa Villa Chiaruttini Lestani, ancora più affascinante perché a restauri ancora in corso sono ben visibili ed intatte tutte le cicatrici del tempo, si è tenuto un altro degli interessanti incontri della rassegna Musica in Villa che da decenni regala autentica bellezza nel medio Friuli.

Quello che maggiormente caratterizza queste occasioni non è solo il piacere ludico d’ascoltare ottimi musicisti o di assistere a performances artistiche in luoghi preziosi e insoliti del nostro territorio, è soprattutto la volontà di realizzare eventi unici e, in realtà, irripetibili che vivificano la storia dei luoghi con musiche che non sono solo d’ambiente ma che aprono prospettive nuove e rinnovate speranze per il futuro.

La giornata decisamente infausta con la morte di Gino Strada e dell’artista udinese Claudia Grimaz si prestava decisamente ad una riflessione sul nostro tempo a partire dalle parole di Pier Paolo Pasolini; se poi a declamarle è un autentico conoscitore dell’Impero delle tenebre che ci abita come Pierpaolo Capovilla, accompagnato dalle dolenti, sensibili note del cantautore Pablo Peressinotto, il gioco è fatto.

Sulla carta l’incontro si presentava fin troppo carico e promettente e, davvero, è andato oltre ogni aspettativa. Per fortuna ormai c’è sempre una scusa per celebrare Pasolini; dopo tanti anni di silenzi imbarazzati, anche in Friuli ognuno si contende le sue spoglie, His Mortal Remains. Fa comodo a tutti gloriarsi e parlare di Pasolini come cantore di un Friuli arcaico, puro nella sua miseria e nella sua ignoranza delle seduzioni del capitale e delle grandi metropoli. Dalle celebrazioni imbandierate, con la banda musicale e “ricchi premi e cotillon”, ci si guarda bene dal citare alcune opere meno digeribili ed esplicite del grande poeta, non fa comodo agli assessori riferirsi alle parole urticanti e abrasive di Pasolini contro la corruzione endemica, contro l’ipocrisia della chiesa e contro l’ipocrisia e la viltà di quanti tra noi pagherebbero per vendersi.

Non è “carino” riferirsi al Pasolini blasfemo, rivoluzionario, anarcoide, le sue parole colpiscono ancora duro la nostra pusillanimità e la nostra falsa coscienza di cittadini probi e onesti. Si preferisce il Pasolini ilare, giocoso, innamorato, vitale perché lo si ritiene più “facile” e spensierato. La sua poesia civile viene letta di sfuggita, superficialmente come quella del solito brontolone che fa ogni tanto la voce grossa ma che poi, quando sente profumo di lasagne o c’è la Nazionale in campo, diventa bonario amico del bar dello sport. Non ci è ancora passata la sbronza nazional patriottica che ha innalzato alla gloria degli altari gli eroi olimpici, che già ci accorgiamo che dovremmo celebrare ben altro e in altro modo. Per esempio, tutti quei volontari che ancora oggi fanno funzionare gli ospedali di Emergency in Afghanistan, paese che sta ritornando nelle mani insanguinate dei Talebani dopo più di vent’anni di “guerra umanitaria” da parte dell’Occidente, proprio come scriveva Gino Strada nell’ultimo suo articolo, pubblicato su La Stampa il giorno della morte, quasi un testamento civile e spirituale.

Quello che piace è il Pasolini mammone, in bicicletta per le vigne del Friuli oppure il calciatore nelle borgate romane, anche lui un “po’ scugnizzo, un po’ accattone e mariuolo”. Pasolini è una maschera che tutti vogliono indossare a sinistra come a destra; per alcuni mentecatti esiste perfino un Pasolini fascista e reazionario. “Festa, Farina e Forca” come diceva il re Nasone.

Niente di tutto questo nella lettura sentita e drammatica di Capovilla che ha fatto proprie le parole del Vate in un’interpretazione dai toni cupi e lividi, dalla recitazione commossa e intensa. La sua voce rotta, a tratti aspra e ruvida, anche per il vino e le sigarette, ha fatto percepire al pubblico l’autentico profondo strazio del poeta di fronte alla crudele insensatezza del vivere; ma ha saputo rendere ugualmente la straziante bellezza che egli riusciva ad intravvedere sotto il fango e la sozzura della corruzione morale e civile. “Non torna niente” andato in scena per Musica in Villa 2021 è uno spettacolo scabro, duro, sgraziato, urticante, senza compromessi, che scuote e fa riflettere. Ogni tanto ci vuole qualcuno che sappia prenderci a schiaffi nel nostro torpore.

Capovilla a volte sembrava essere in trance, nell’ebrezza di una follia dionisiaca, come rapito dalle parole di Pasolini, dimentico del folto pubblico che lo stava guardando e trascinato nel gorgo della disperazione di un poeta che non ammette di essere sottovalutato e che mastica i nostri cuori e li sputa in un angolo.

Pasolini non ci perdona e non ci lascia scampo, se vogliamo davvero cercare di comprenderlo, dobbiamo soffrire e gioire insieme a lui. Dobbiamo prendere coscienza dello stato di disperante prostrazione nel quale ci vuole calare. Un altro mondo sarà davvero possibile, come diceva Gino Strada, solamente se ci rendiamo conto che dobbiamo radicalmente cambiare il nostro modo di vivere, di pensare e di parlare.

Con l’accompagnamento suadente e post rock di Arrigo Bernardi e Enrico Casarotto alle chitarre, Peressinotto ha cantato un brano, tra gli altri, molto significativo tratto da un celebre testo del Poeta: L’”Omologazione della televisione” che è il caso di riportare almeno parzialmente perché racchiude, in sintesi dolorosa, il senso di quello che andiamo dicendo:

“Secondo me la televisione è più forte di tutto questo e la sua mediazione ho paura che finirà per essere tutto: il Potere vuole che si parli in un dato modo ed è in quel modo che parlano gli operai, appena abbandonato il mondo quotidiano, familiare o dialettale in estinzione. In tutto il mondo ciò che viene dall’alto è più forte di ciò che si vuole dal basso…Non c’è parola che un operaio pronunzi in un intervento che non sia “voluta” dall’alto. Ciò che resta originario nell’operaio è ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo”.

Oggi a più di cinquant’anni da quelle parole che intravvedevano un futuro nel quale la comunicazione sarebbe stata l’arma più potente del Potere più corrotto della storia dell’umanità, il processo è compiuto. Ognuno di noi è completamente soggiogato dai mezzi di comunicazione che tracciano, registrano e archiviano ogni nostro messaggio, parola, desiderio.

La distopia della società del controllo immaginata da Dick, Horwell, Huxley e paventata dai sociologi come Michel Foucault è realtà quotidiana. Senza parlare del Green Pass e della spinosa questione della bio-politica, basta semplicemente riferirsi ai nostri Smart Phone, ai social network, ed a ogni nostra singola interazione sociale per capire quale scia di meta-dati che ognuno di noi produce viene usata per condizionarci. È una realtà senza via di scampo che ci condanna ad una subalternità inconsapevole.

Come diceva Pasolini però c’è qualcosa di assolutamente irredimibile che continua ad essere “scandaloso e problematico” per il Potere, è il corpo degli operai che siamo tutti noi; anche se qualcuno ci vuol far credere di essere “imprenditori di noi stessi”, rimaniamo “schiavi” incatenati alle macchine di produzione. Una volta erano sferraglianti catene di montaggio, oggi ci sono più comodi ed ergonomici lap top, ma la sostanza non cambia. La macchina del Potere pretende ancora i soliti sanguinosi sacrifici umani, divora ancora le nostre carni. Se sembrano farneticazioni, aggiungeremo solo due titoli di cronaca degli ultimi mesi che ci dovrebbero aiutare ad inquadrare la questione:

Da La Nazione del 24/05/2021: Muore schiacciata dal macchinario tessile. La tragedia di Luana che aveva solo 22 anni. È bastato poco, pochissimo, appena qualche secondo, per spezzare la vita di Luana D’Orazio, 22 anni, madre di un bambino di 5 anni, rimasta incastrata tra i subbi di un orditoio. Luana non ha avuto scampo: i potenti rulli del macchinario tessile hanno prima agganciato e poi schiacciato il suo corpo esile.

Da fanpage.it del 04/08/2021: Laila, morta schiacciata da un macchinario a Modena: indagato per omicidio il titolare dell’azienda… L’operaia è stata trascinata e uccisa da una fustellatrice, un grosso macchinario utilizzato per sagomare il materiale da imballaggio.

I corpi dei migliaia di operai mutilati e schiacciati nelle nostre fabbriche tutti i giorni negli ultimi anni corrispondono idealmente a quello di Pasolini ucciso a bastonate come un cane sulla spiaggia di Ostia e poi schiacciato più volte dall’automobile che lo finì. Chi ne trovò il cadavere la mattina inizialmente credeva si trattasse di un mucchio di immondizie tanto era irriconoscibile. È così che continuiamo a trattare la Bellezza più autentica, come carne da macello e spazzatura. Un altro mondo deve essere possibile.

L’ultimo Pasolini è un autentico profeta, un Vate come ha dichiarato Gabriella Cecotti, encomiabile direttrice artistica di Musica in Villa. Nel dizionario “Vate: Poeta, in quanto il tono elevato, talvolta profetico, della sua poesia, o l’ispirazione civile, gli conferiscono un carattere sacro, quasi sacerdotale.” Ugo Foscolo riferendosi a Omero nei Sepolcri scriveva: Il sacro vate, placando quelle afflitte alme col canto…(288).

Dunque quando ne La religione del mio tempo, il poeta di Casarsa si riferiva alle storture della chiesa cattolica e al popolo di servi, figli di servi che aveva soggiogato con i suoi giochi di potere lo faceva perfettamente da profeta che ha inteso la Parola l’ha compresa e la riferisce a coloro che lo stanno ad ascoltare.

Biblicamente, infatti, il profeta non è colui che vede nel futuro, non è un indovino ma colui attraverso il quale la verità viene detta. Parla al posto di dio. Il dio di Pasolini però è morto con Nietzsche, seppellito da Marx e del suo giudizio l’ha fatta finita Antonin Artaud (Pour en finir avec le jugement de dieu).

Dopo tutto questo cosa resta? Naturalmente, il Sacro che solo incidentalmente ha qualcosa a che vedere con la religione soprattutto se di Stato, e di certo non ha niente a che vedere con il Potere che in ogni modo cerca di appropriarsene.

Per Rudolf Otto (1896-1937) il sacro è un’esperienza terrificante, irrazionale e annichilente, è Mysteriosum, Tremendum ma anche Fascinans. È qualcosa che ci atterrisce ma allo stesso tempo ci fa sentire la pienezza dell’essere. Otto era un pastore e teologo luterano così come Pasolini si dirà a suo modo “luterano” nel senso di anima protestataria e protestante, nei suoi ultimi scritti.

Cos’è dunque che ci spaventa e attrae allo stesso tempo in questo nostro mondo secolarizzato, per Pasolini, di certo, ciò che è possibile intravvedere sotto lo spesso strato di immondizia con la quale la civiltà dei consumi ha imbrattato il nostro mondo, è la vita che continua a germinare nelle discariche del pianeta, è l’energia dei vinti, degli sconfitti e dei disperati che continuano, nonostante tutto, a sorridere nei loro quattro stracci. Un immagine del cinema di Pasolini tra le altre ci spiega questo sentimento. Nel cortometraggio Che cosa sono le nuvole? (1968) le marionette in forma umana, che sulla scena vengono mosse ad interpretare la tragedia shakespeariana Otello, appese in magazzino si accapigliano nella futilità della loro rappresentazione. Due di loro vecchie, rotte, venute in odio al pubblico pagante vengono gettate nella spazzatura e portate in discarica dallo spazzino (Domenico Modugno) che interpreta la morte che prima o poi farà fare la stessa fine a tutti noi. Le marionette sono Jago (Totò) e Otello (Ninetto Davoli) che alla fine della loro esistenza, buttate nell’immondizia, per la prima volta, possono guardare liberamente le nuvole. Nella sceneggiatura originale:

“Nella faccia spaccata e gonfia di Otello gli occhi luccicano di ardente curiosità, di intrattenibile gioia. Anche gli occhio di Jago guardano strabiliati e in estasi quello spettacolo mai visto del cielo e del mondo.

Otello: Iiiiih, che so’ quelle?

Jago: Sono…sono le nuvole…

Otello: E che so’ le nuvole?

Jago: Boh!

Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!

Jago: (ormai tutto in comica estasi) Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!

Le nuvole passano veloci nel gran cielo azzurro.”

Esattamente questo è il sacro per Pasolini: il mistero dell’inanità della nostra esistenza, l’orrore di fronte alla morte e il fascino indescrivibile della bellezza che ci si manifesta nelle più imprevedibili epifanie.

Flaviano Bosco © instArt

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