Il concerto di apertura della storica rassegna “Le nuove rotte del Jazz” a Trieste è stata l’occasione per celebrare il centenario dalla nascita di uno dei più grandi geni della musica d’ogni tempo: Charles Mingus.

Il Circolo Controtempo, che da due decenni cura la rassegna, ha commissionato al contrabbassista Giovanni Maier un lavoro che ha già visto la luce laser della sala d’incisione di Artesuono di Stefano Amerio grazie alla curatela della Slou Società Cooperativa dell’artista fotografo Luca A. d’Agostino: “Viceversa, the music of Charles Mingus” come dire quanto di meglio si trovi sulla piazza e non è un modo di dire.

Maier, assieme allo splendido quintetto di allievi del conservatorio “Tartini” di Trieste che ha stretto attorno a se, ha esplorato in un avventuroso viaggio di andata e ritorno la musica del genio di Nogales (Arizona) con grande intelligenza e onestà, rispettandone le prospettive senza volerle sostituire con supponenti sovra-interpretazioni o eccessivi stravolgimenti. Non si sono serviti della musica di Mingus con intenti egotistici ed egocentrici come spesso succede ma, viceversa, si sono messi al suo servizio regalando al fitto pubblico che ha potuto ascoltare i loro arrangiamenti dal vivo nell’Auditorium del Museo Revoltella.

Non è la prima volta che le corde del cuore del contrabbassista di Staranzano (GO) vibrano al ritmo della musica di Mingus. Nella sua sterminata discografia e nei suoi altrettanti concerti si è spesso confrontato con la sua eredità; proprio per questo non c’era un musicista più indicato per questa nuova esplorazione.

Il museo di via Diaz a Trieste è uno degli scrigni della storia cittadina, uno dei baricentri della cultura europea, o meglio mittel-europea e una volta tanto il termine non è per nulla sprecato.

Basta dare uno sguardo all’importanza del barone Pasquale Revoltella, non solo per i commerci e la finanza europea del XIX sec., ma, senza pensare troppo al glorioso passato, è sufficiente, da una delle finestre del palazzo, guardare il molo turistico dove attraccano le enormi navi da crociera che riversano nella città migliaia di persone che la vogliono letteralmente sbranare e che se ne “imbevono”. Oppure fare riferimento al recente Bloom’s Day dedicato al centenario dell’Ulysses di Joyce. Tanto per fissare due prospettive nel quale la moderna città è traguardabile.

Non ci poteva essere luogo migliore, insomma, per una rassegna come “Le Nuove Rotte del Jazz”, articolata in tre serate consecutive, che ha vent’anni ed è perciò giovanissima, come sono sempre nuove, fresche e interessanti le proposte del Circolo Controtempo, autentica eccellenza della musica e della cultura nella nostra regione e oltreconfine.

La sala era gremitissima, in un vociare gioioso che distingue il pubblico triestino da tutti gli altri che dimostrano sempre una certa deferenza e quasi soggezione verso le sale da concerto come luoghi dell’istituzione. Nella città giuliana la tradizione teatrale è talmente radicata che i suoi cittadini li considerano come casa propria, sono i luoghi privilegiati della socialità come è davvero raro nel nostro paese, non a caso Giorgio Strehler veniva da Trieste e tanto vale per la musica.

I giovani “piccoli maestri” dell’ensemble di Maier, affiancato da Flavio Davanzo alla tromba, sono:  Riccardo Pitacco (Trombone) Gabriele de Leporini (Chitarra) Francesco Vattovaz (Batteria).

Scrive Stefano Zenni, musicologo tra i massimi cultori italiani della musica afroamericana: “La musica di Mingus è profondamente dialogica, e la comunicazione e lo scambio sono sempre attivi a più livelli: dialogo tra musiche, tradizioni, stili diversi che confluiscono nella composizione, dialogo tra progettualità e reinvenzione estemporanea, dialogo tra i musicisti del gruppo e tra i musicisti e pubblico a imprimere svolte inattese al flusso creativo. La musica di Mingus apre uno spazio di confronto tra soggetti, mondi e tradizioni.” (Charles Mingus, Polifonie dell’universo musicale afroamericano, pag. 94). E’ esattamente secondo queste considerazioni che si sono mossi Maier e soci in un autentico dialogo con l’arte di Mingus che coinvolge emozionalmente il pubblico senza diventare mai un saccente monologo.

Il primo brano in scaletta così come nel disco è uno splendido arrangiamento in forma di suite “narrativa” di Maier che fonde tre celebri brani di Mingus: “Monk, Bunk and Viceversa/ What Love/ Nobody Knows (The Bradley I Know)”.

Si parte di batteria con un ritmo che, in sostanza, è quello del Jive, pura foresta primordiale con tanto di “Talking trombone” con sordina plunger a fare i versi degli animali. Intricato ed esotico, il brano si apre la strada nella vegetazione a colpi di machete; selvaggi, come in una danza attorno al fuoco nella radura, si uniscono via via le distorsioni della chitarra, gli accordi del contrabbasso e poi lo scintillio della tromba. Improvvisamente dal caos smeraldo della Jungla di liane e giaguari si passa a quella d’asfalto e automobili sulle quali sfreccia un BeBop velocissimo e contratto in una corsa a bruciare i semafori.

Saranno pure “solo” allievi di conservatorio con il loro insegnante ma quello che fanno è da “piccoli maestri” per non parlare di Maier che Magister lo è da un pezzo nel vero senso della parola, da “Magis” (più), quindi chi ne sa di più ed è guida e punto di riferimento per gli altri, non solo per i suoi allievi.

D’un tratto si rallenta e della primordiale, selvatica frenesia dei giorni perduti rimane solamente un riflesso al “parabrise”.

Con un altro cambio frenetico ci si ritrova a ballare e sembra di tornare alla Trieste dell’immediato dopoguerra con l’amministrazione alleata e i G.I. americani che di certo ascoltavano anche sonorità del genere almeno i più scatenati.

Segue un arrangiamento di Pitacco di “Paris in Blue”, piacevolissimo e come sospeso nei ritmi geometrici del contrabbassista, cesellato di luccicanti virtuosismi alla tromba e gran ricami alla sei corde.

La grazia e il tocco scabro del Maestro Maier e dei suoi allievi hanno il grande pregio di non corrompere la natura più intima della musica di Mingus che, per quanto complessa, è stata concepita per essere anche rabbiosamente divertente e sempre lontana dagli accademismi tipo quelli che, purtroppo, inquinano, in genere, i nostri nazionali conservatori, non quello di Trieste sia ben inteso.

Con Mingus sembra sempre di capirci tutto però anche in quello che sembra semplice e divertente tipo traditional blues che più non si può è sempre nascosta una specie di bomba d’energia a miccia corta, Maier e soci sanno bene quando è il momento di lasciarla deflagrare in tutta la sua forza. Ogni nota, ogni ritmo cambiano così di botto significato. Si passa dai ricordi delle chitarre di Chicago con ancora la questione delle “piantagioni” a far da memoria lontana ai suoni acidi della West Coast e ritorno, in un andirivieni tra passato e remote profondità del futuro così tipiche della creatività di Mingus.

In “Slippers/Nouroog” arrangiati da Lepori si rivelano puri studiatissimi intarsi free form con Maier all’archetto seguito dai suoi in sorde esplosioni che continuano a susseguirsi incessantemente.

Pitacco ha lavorato su “Duke Ellington’s Sound of Love” dal fantastico album Changes I (1975). Mingus aveva una grande ammirazione per Duke Ellington anche se la loro storia artistica non avrebbe potuto essere più diversa. Furibondo, ribelle e ingestibile Mingus, quanto calmo, compassato, equilibrato e disponibile al compromesso Ellington; selvaggio e istintivo il primo, algebrico e sofisticato l’altro.

Due grandissimi artisti che si guardavano e ammiravano,sempre da lontano però.

Morbida e suadente l’interpretazione del quintetto del Tartini, davvero brillante il trombonista anche se di evidente impostazione classica e tradizionale e spesso ci dimentichiamo che non è per niente un difetto, anzi giusto il contrario.

Paolo Ius, un altro allievo del Tartini che non fa parte del Quintetto, ha arrangiato “The Dry Cleaner from Des Moines” e Moanin’ in una breve suite, non incisa nell’album, che è un doppio omaggio a Mingus e alla meravigliosa Joni Mitchell che con il suo gruppo stellare (Metheny, Pastorius, Shorter, Erskine, Alias, Hancock) onorò il contrabbassista e regalò a tutti noi uno dei vertici assoluti della musica d’Occidente.

Infatti, i primi suoni del nuovo arrangiamento sembrano voler evocare direttamente lo spirito inquieto di Jaco Pastorius e i mirabili, irripetibili splendori del supergruppo della Mitchell che, non serve ribadirlo, Mingus lo conosceva proprio bene. Certo il paragone e il confronto sono del tutto improponibili e smisurati, un salto doppio e triplo carpiato e con avvitamento da un altissimo trampolino con sotto una tinozza, ma la versione del Quintetto di Maier è convincente, veloce e divertentissima da far ballare tutto il pubblico sulle sedie.

Nostalgica e piena d’amore “Sue’s Changes” che Mingus dedicò alla sua ultima amatissima moglie, quella che lo seguì fino in fondo nel martirio della sua incurabile, straziante malattia fino all’epilogo a Cuernavaca in Messico. Nell’apprestarsi ad eseguire quest’ultimo brano in scaletta, Maier presenta la band prima di impegnarsi in un superbo assolo di contrabbasso che introduce un brano sognante che permette ai componenti del gruppo di presentarsi a propria volta salutando il pubblico in assoli lirici e solidi che si ripiegano spesso sul refrain a suon di tango; in fondo anche quello è blues.

Non poteva certo mancare il bis con un brano purtroppo di stretta attualità: “Oh, Lord Please Don’t Let Them Drop The Atomic Bomb on Me”. Un blues a tratti sgraziato e petulante che Mingus scrisse per stigmatizzare gli incresciosi fatti della cosiddetta “Crisi dei missili di Cuba” del 1962 quando il più giovane e bello dei Presidenti democratici americani stava per scatenare la guerra termonucleare per una ripicca contro i Russi. Sono passati sessant’anni da allora e niente sembra essere cambiato. Oggi abbiamo un altro presidente americano, questa volta né giovane né bello e con problemi intestinali che vuole far venire anche a noi, che gioca sporco con il suo omologo mentecatto russo.

Quella di Mingus anche nell’interpretazione del quintetto di Maier, è una lamentela sconsolata e implorante rivolta ai soliti assassini che non la smettono mai di giocare con le loro supposte nucleari come se si trattasse di caramelle alla glicerina che però dolci non lo sono per niente e tutti sanno dove vanno a finire.

In lontananza Mingus sarcastico, sorride e applaude ancora calorosamente e convinto con tutto il pubblico del Revoltella e poi dopo aver tirato una bella boccata dal suo grosso Havana si gira e se ne va verso il sole di domani e viceversa.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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