Ci sono serate che sembrano perfette per quanto ci sforziamo di rovinarle con i nostri malumori e le nostre idiosincrasie, a volte ci scivoliamo dentro senza nemmeno accorgercene guidati da arcane forze che non siamo per nulla in grado di controllare
Da un punto di vista rigorosamente scientifico, per esempio, la luna, straordinariamente piena che illuminava le notti del festival di Udine, non ha alcun reale influsso sugli esseri umani anche se nei disturbi bipolari di personalità sembra agire indirettamente sulla sintomatologia, causata dalla sua interazione con i ritmi sonno-veglia. Di almeno un caso di alterazione nervosa grave, da interpretare forse in questo senso, gli spettatori della rassegna possono comunque testimoniare e ne abbiamo parlato diffusamente in una precedente recensione
Noi miseri, a scanso di equivoci, faremmo meglio ad affidarci ad un meraviglioso poeta del nostro astro che se ne intendeva davvero; meditabondo, Giacomo Leopardi da Recanati si domandava: “Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei paga di riandare i sempiterni calli?”.
Sappiamo bene che dopo un lungo doloroso cogitare concludeva sconsolatamente con un dubbio tra i più atroci e definitivi: “Forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il di natale”
Certo le languide serate estive che stiamo vivendo, ci distraggono dal pensare troppo alla nostra reale condizione umana che rallegriamo con bibitoni ghiacciati e furtive occhiate a vertiginose scollature ma non fa mai troppo caldo per pensare a ciò che realmente siamo
Lo stesso Leopardi era ghiotto di “quella grand’arte onde barone è Vito”, nel suo periodo felice a Napoli, in via Toledo frequentava “La bottega del caffè” di Vito Pinto abbandonandosi a pantagrueliche scorpacciate di gelato e d’ogni sorta di manicaretti della “pastiera” napoletana nonostante fosse diabetico
In un caldo giorno di giugno, tanta passione gli fu fatale ma possiamo affermare che se ne andò con un delizioso sorriso di compiacimento dopo essersi mangiato avidamente mezzo chilo di confetti cannellini e un altrettanto abbondante porzione del suo gelato preferito che gli aveva portato Paolina Ranieri, avvenente “sorella del suo caro amico Antonio, che pur essendo ben a conoscenza della gravità delle condizioni di salute di Giacomo, pensò così di esaudire uno dei suoi ultimi desideri di gola.” (cit. Nicola Ruggiero)
Chi si ricordi del personaggio interpretato dalla burrosa Andréa Ferréol nel pantagruelico “La grande abbuffata” di Marco Ferreri (1973) avrà di certo capito di cosa stiamo parlando
Per tutti gli altri che si saranno ormai stufati di questa peregrina digressione basti pensare che l’essenza del Jazz è improvvisazione, divagazione, variazione, diversione su un tema dato dal quale tradizionalmente si parte, per poi perdesi e vagando tornare proprio lì dove si è sempre stati (Retourn to forever).
È tempo allora di tornare nel seminato e ai concerti della terza serata di Udin&Jazz 2022, tenendo ben presente però il significato di “ritorno a casa dopo un lungo viaggio” (Nostos) nella nostra cultura d’Occidente.
Giusto per la precisione il canto e l’invocazione alla luna è uno dei temi classici della cultura afroamericana che ha influenzato profondamente la sua musica; troppo lungo sarebbe elencare i brani che vi si ispirano direttamente, si legga solamente lo splendido “Moon Jazz” del giovane scrittore afroamericano Joe Okonkwo che sottolinea mirabilmente la questione.
Per quanto riguarda il coma diabetico si ricordi che l’immenso clarinettista Eric Dolphy passò all’altra dimensione dell’esistenza per aver abusato di dolciumi. Per i rapporti tra Jazz e poesia mi pare che non serva alcuna precisazione
C’Mon Tigre “Scenario Tour 2022” Voce, Effetti, chitarra + Pasquale Mirra (Vibrafono e xilofono) Mirko Cisilino (Tromba, Corno, effetti) Beppe Scardino (Sax Baritono) Marco Frattini (batteria)
Scenografia e musica per un impatto davvero “gagliardo”, come ha detto Max De Tomassi presentando la band. Osano in un gioco di luci livide con un sound stratificato che ad un primo ascolto ricorda i lavori dei Sigur Ros e di Tom Yorke
Si aggirano in atmosfere urbane e notturne con il vibrafono che si riprende il posto che gli spetta nell’espressione di liquide angosce che diventano incrinature in uno specchio di ghiaccio
Il sax baritono con la sua voce bastarda e sola, sgraziata e profonda, sottolinea atmosfere d’abbandono così come solo nei film di David Lynch. Lo stesso dicasi per la voce “effettata” tipo vocal box, dal gusto retrò e radiofonico
Nella loro musica non c’è solamente la prospettiva ludico-estetica, ma ben altro. Da alcuni anni collaborano con l’artista visuale e fotoreporter Paolo Pellegrin dell’Agenzia Magnum Photos, la stessa che fu di Robert Capa, tanto per intenderci
Da anni il fotografo documenta e denuncia gli orrori delle tratte dei migranti e dei mostruosi conflitti in Medio Oriente
Il concerto udinese si è aperto, infatti, con il coinvolgente brano “Migrants” che su disco contiene registrazioni ambientali che riportano “materialmente” lo sgomento e la tragedia di tante sofferenze di chi cammina per migliaia di chilometri vivendo la propria speranza
Sul palco, nella luce abbacinante dei fari, i musicisti battono all’unisono bacchette di legno alzando in aria le mani, in una semplice coreografia che però è in grado di far percepire in un attimo la paura di essere braccati e lo spavento della cattura. Non dimentichiamo che anche ai confini italiani le pattuglie di frontiera utilizzano le unità cinofile per braccare i migranti che il nostro paese, patria della democrazia e del diritto, tratta troppo spesso come animali
Altri brani sono molto più ballabili e contaminati con l’elettronica contemporanea, il gruppo non disdegna per nulla le atmosfere dance o clubbing ma le declina alla propria creatività, filtrandole e trasformandole in uno strumento per sondare emozioni e situazioni che appartengono al nostro tempo “fuori di sesto”
Quel movimento nato nei club inglesi come tendenza è ormai una realtà della musica anche fuori dall’Europa da decenni ed è una dimensione performativa che non ha più paura da un pezzo di confondere gli stili e di sporcarsi le mani con una realtà ibrida in cui tutto si trasforma e fluttua in continuazione
Per questo l’esibizione live dei C’mon Tigre non può fare a meno di giocare con le scenografie livide create da semplici lampadine e faretti che li investono dal fondo facendoli emergere da un’inquietante oscurità. Anche questa è proprio una tendenza del light design più moderno, in una riscrittura neo-psichedelica delle performance artistiche, ma se usato intelligentemente come in questo caso non è per nulla banale anzi permette allo spettatore, anche il più inconsapevole e distratto, di fare esperienza di una presenza a suo modo “misteriosa” nel suo farsi opera d’arte.
I suoni sintetici accostati a quelli acustici dei fiati si cristallizzano in ballate malate, decadenti e dolorose alla Nick Cave ma con particolarità timbriche del tutto personali. E’ un sound che sa anche essere scanzonato e “francese” con momenti acid jazz da localaccio notturno per giovinastri d’altri tempi
Gli interventi dei fiati (tromba, corno, sax, flauto traverso) spesso effettati hanno il sapore di un’evocazione e sottolineano in tinte pastello atmosfere e orizzonti sonori al di sopra del tempo e dello spazio
Il gruppo sa anche essere violento e drammatico in una desolazione perfino magniloquente e compiaciuta declamata dalla grancassa e dal clangore dei legni nel suo mutarsi in qualcosa che sembra una processione per la festa dei morti a Città del Messico in acido con i suoi teschi decorati e gli scheletri di pasta di zucchero colorati
E proprio come in un rito collettivo si finisce tutti per ritmare un applauso convinto per una proposta musicale fresca, piena di energia e di “stati d’immaginazione”
Scaletta: Migrants, Automatic Ctrl, Supernatural, Racines, Twist into any shape, The River, 808, La mer et l’amour, No one you know, Building Society Part 1 & 2, Kids are electric, Paloma, Guide to poison, Tasting, A world of wonder
Vijay Iyer trio “Uneasy” Linda May Han Oh (Contrabbasso) Tyshawn Sorey (Batteria) Vijay Iyer (pianoforte)
Ascoltare il pianista americano d’origine indiana con il suo trio è decisamente un’esperienza trascendentale nel senso kantiano del termine, l’incontro con la sua musica è “Uneasy” (non facile) com’è il titolo del suo ultimo album pubblicato, ma “universale e necessario”
Ci si prepara per tutta una vita ad accogliere un’epifania sonora di quel tipo, un prodigio del genere richiede perfino un argine interiore in grado di resistere alla potente ondata d’immaginazione e d’emozione che colpisce come un fenomeno marino, impetuoso e inarrestabile, giù fino “laghi del cuore”
Eppure, qualunque sia la preparazione o il gusto, durante i suoi concerti si viene letteralmente rapiti “dall’ala del turbine intelligente”; ghermiti, sollevati e portati via da un uragano di indefinibili sensazioni che sono Estasi, Magia e Nirvana d’amore.
Vijay Iyer è dotato di una tecnica pianistica vertiginosa e raffinatissima che però non sovrasta mai il suo desiderio di trasmettere “semplici” emozioni. Non è per nulla ieratico e astruso nelle sue composizioni e meno che mai negli atteggiamenti. La sua è una straordinaria energia-gentile che dona attraverso la musica ma anche attraverso un’innata gentilezza di modi e un’infinita cortesia nei riguardi di tutti coloro che lo circondano
La sua esibizione insieme agli altri incredibili musicisti del trio che gli sono pari è sembrata una lode all’effimero splendore dell’esistenza nella quale siamo “gettati” come nel Salmo di Coltrane (Psalm) “Parole, suoni, discorsi, uomini, memoria, pensieri, paure, emozioni, tempo tutto in relazione e provenienti dall’unità cui appartengono” nella misericordia e nella compassione che la Grazia c’impone
Fondamentale per comprendere questa consapevolezza e profondità raggiunta dalle composizioni del pianista americano è il suo rapporto di collaborazione con il compianto poeta Amiri Baraka che per altro onorò con la sua presenza Udine&Jazz nel 2008
Il pianista ha più volte dichiarato che deve gran parte della propria formazione culturale e umana al fecondo rapporto avuto con il grande intellettuale afro-americano concretizzato anche in alcune stupende composizioni (For Amiri Baraka, 2017)
Su Downbeat dell’agosto 2015: “Ho scoperto che lui recensì il mio primo album pubblicando le sue opinioni nel libro “Digging”. Compresi immediatamente che era uno degli unici critici di sempre a parlare davvero dei miei sentimenti, e del fatto che avevo trasfuso le mie emozioni più intime nel disco, e che non erano solo strategie e dinamiche esecutive o cervellotiche, astruse riflessioni. Fu per me un’incredibile ondata di acquisita consapevolezza emotiva, come essere umano e come musicista compresi che la musica era uno strumento espressivo della mia personalità più profonda.”
L’intensa personale frequentazione con l’opera e con il poeta fece sorgere in lui anche una nuova consapevolezza sociale e politica rispetto ai valori dell’uguaglianza e contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti e nel mondo
Questa è di certo una chiave d’interpretazione della musica di Vijay Iyer che però può essere compresa e goduta altrettanto bene come manifestazione emotiva concreta, tellurica e magmatica. Allo stesso modo la ritmica che lo sostiene non è per niente astratta ed ha la spinta solida delle cose che possiamo toccare con mano nelle lunghissime suite che il trio esegue, compatte e cariche, pulsanti e materiche.
Sono vero cibo per l’anima, sapide e ricche, varie per portate ed ingredienti per restare ad una semplice metafora culinaria. Si perdonerà il tono da battuta un po’ greve, dell’arte di Apicio si deve intendere piuttosto bene il funambolico batterista Tyshawn Sorey, almeno stando alla sua considerevole mole. Strabiliante il suo drumming sostenuto da una tecnica eccelsa e da un talento inaudito che gli permette di passare con sorprendente agilità felina da impercettibili pianissimo ad autentiche esplosioni che sembrano generate da Mjölinir il martello di Thor o meglio da Chango, padre ancestrale dei popoli Igbo, Yorubaa della Nigeria e del Benin che genera la forza devastante del tuono e dei fulmini
Non è da meno la contrabbassista australiana di origini malesi, Linda May Han Oh, già vista in Regione con il suo quartetto lo scorso anno a Cormons. I suoi non sono accordi ma intense pulsazioni extrasistoliche che hanno un effetto fisico-ipnotico sull’ascoltatore
In sintesi, quella del trio di Vijay Iyer è una vera e propria cascata di note, una bomba d’emozioni che deflagra lasciando attoniti, sbalorditi e increduli per la delicata-forza con la quale ci investe, come un improvviso fortunale in una giornata estiva dal cielo terso
Come un tenue soffio di vento i tre sanno anche esprimere infinita tenerezza e intimità, nella contemplazione estatica di suoni che si appropriano di pensieri e dimenticate memorie, disseminandosi in infinite estensioni che lentamente vanno di nuovo coagulandosi e sublimando
Seguono immediati, impulsivi, incontrollabili crescendo fino al parossismo e all’eccesso di autentiche “sassate” di batteria che finiscono per sovrapporsi sovrastando tutto l’insieme come fuochi d’artificio nel buio della notte che ci impediscono perfino di pensare con il loro istantaneo fulgore
Il pubblico attento e devoto è sembrato a volte perfino sospeso in un silenzio irretito ed estatico, per esplodere, infine, in un’ovazione stupefatta e sincera
Vijay Iyer ha ringraziato con nobilissima umiltà e religiosa eleganza gli spettatori, l’organizzazione e la città che lo ha accolto; la splendida cortesia e attenzione ha rivelato, se ce n’era ancora bisogno, il suo cuore generoso di magnifico artista
Namasté Vjay Iyer, o come si dice nella Piccola Patria, semplicemente Mandi
Scaletta: Prelude-Orison, Tempest, Work (Thelonious Monk) Drummer’s Song (Geri Allen) Children of Flint, Compassion, Overjoyed (Stevie Wonder) Ghostrumental, Wrens
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