Dopo tre decenni Mittelfest continua a sperimentare ed esplorare i mondi della rappresentazione e della performance espressiva. Molte cose sono cambiate e ci mancherebbe ma il festival centro-europeo non smette di indagare e interrogare i territori cui appartiene facendo risuonare i paesaggi, giocandosi le coordinate nello spazio e nel tempo, abitando la città e le persone in modo sempre creativo e spesso straniante.

Mats Staub, classe 1972, da anni porta avanti un progetto di documentazione artistica che mette al centro lo spettatore inserito nel proprio spazio esistenziale con il quale viene messo in inedita corrispondenza. Nello specifico, dopo aver dedicato alcune esperienze al mondo degli anziani nonni e genitori in un interazione con i loro figli, ha voluto spingersi ancora più in là, raccogliendo libere testimonianze sulle singolari, personali esperienze con gli estremi della vita. Ognuno di noi giocoforza ha incontrato, nel proprio peregrinare in questa valle di lacrime, la vita e la morte reagendo a seconda del momento, delle situazioni e della propria sensibilità, cercando risposte a domande che non ne hanno per niente nella religione, nella razionalità, nell’esoterismo o più semplicemente rifugiandosi nell’emotività e nella fantasia. Possono esserci sembrati “imprevisti” come dice il tema del festival 2022 ma sono al contrario gli eventi più certi nei quali siamo tutti coinvolti: tutti gli esseri umani sono partoriti dalla loro prima donna e tutti inderogabilmente “giaceranno” con l’ultima, uguale per tutti.

In uno dei suoi testi più radicali e definitivi, Emile Cioran scrive: “Noi non corriamo verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro di una paura che risale al nostro primo istante. Ci ripugna, certo, considerare la nascita un flagello: non ci è stato forse inculcato che era il bene supremo, che il peggio era posto alla fine e non all’inizio della nostra traiettoria? Il male, il vero male, è però dietro di noi. E’ quanto è sfuggito al Cristo, è quanto ha invece colto il Buddha – Se tre cose non esistessero al mondo, o discepoli, il Perfetto non apparirebbe nel mondo…- E, alla vecchiezza e alla morte, antepone il fatto di nascere, fonte di tutte le infermità e di tutti i disastri.” (L’inconveniente di essere nati, Adelphi 1991, pag.10)

L’installazione del Mittelfest prevedeva cinque doppi schermi disposti a cerchio in una delle sale del lapidario del Museo archeologico nazionale. Davanti a ogni doppio schermo trovavano posto tre spettatori dotati di cuffie audio e perciò, in un certo senso, isolati dagli altri pur essendo seduti fianco a fianco.

Sui due schermi apparivano due persone, una per schermo, che, grazie alle sapienti riprese e all’accorto montaggio, sembravano dialogare, sedute anche loro con grande naturalezza tra gli spettatori che guardavano e ascoltavano dopo aver scelto volontariamente a quale dialogo assistere tra quelli messi a disposizione dall’artista.

L’effetto era davvero coinvolgente e voyeuristico, sembrava di spiare la conversazione intima di due persone sedute in treno o su un qualsiasi altro mezzo pubblico nello stesso scompartimento. La compassione, il coinvolgimento e anche il sottile senso di colpa per la violazione era un effetto di straniamento voluto dall’artista. Lo spettatore si sentiva quasi partecipe del dialogo cui stava assistendo provandone emozioni “reali” visti il tema molto toccante tra la vita e la morte.

Tutto “fasullo”, naturalmente, com’è l’arte che finge, rappresenta, imita i misteri dell’esistenza che per noi restano del tutto enigmatici e intangibili. L’installazione sfrutta i meccanismi del medium di comunicazione con cui siamo più abituati a interagire soprattutto emotivamente: il televisore. Ognuno di noi è cresciuto restando per ore seduto davanti a quel nuovo focolare domestico, provando le più disparate emozioni e assorbendo, volenti o nolenti, milioni di informazioni che hanno plasmato le nostre attività cognitive e sensibilità.

L’arte di Mats Staub ci permette di riflettere anche su questo: tutto è finzione, rappresentazione, interpretazione soprattutto quegli enigmi che definiamo nascita e morte con i quali ci inganniamo dall’alba dei tempi.

Nel sito dell’artista bernese:

“Nell’ultima decade Mats Staub ha raccolto un numero enorme di conversazioni per le sue istallazioni: per “My Grandparents” (i miei nonni) ha intervistato più di trecento nipoti in 14 differenti città; per “21-Memories of Growing Up” (21-Memorie di crescita) ha prodotto circa 200 video ritratti in otto nazioni di tre continenti. Sulle fondamenta di queste esperienze sta sviluppando la propria pratica artistica includendo il momento nel quale le persone s’incontrano: al posto di guidare lui stesso la conversazione, in “Death and Birth in My Life” mette due persone insieme in uno spazio ben definito e gli permette di instaurare una conversazione tra loro restando come una presenza invisibile …

I progetti di Mats Staub sono sempre direttamente ispirati alla sua stessa vita. La morte del proprio fratello nel dicembre del 2014 fu il fattore determinante dello sviluppo del progetto a lungo termine riguardante l’esperienza del passaggio e dei limiti dell’esistenza associati alla nascita e alla morte, l’inizio e la fine della vita. Così come negli altri suoi progetti partecipativi, offre uno spazio protetto nel quale determina un punto di partenza e semplice regole: i partecipanti cominciano con la storia della propria nascita come gli è stata raccontata, poi uno dice delle proprie esperienze mentre l’altro ascolta per poi replicare con le proprie cominciando da dove la conversazione li ha condotti.

Questa disadorna drammaturgia evidenzia la fragilità del parlare di momenti intimi e i limiti della propria esistenza nelle convenzioni del parlare quotidiano. I conversatori non devono farsi reciprocamente delle domande o esprimere condiscendenza con luoghi comuni e non lo devono fare nemmeno gli spettatori. Si deve solamente prestare attenzione e rimanere aperti verso ciò che si ascolta. Mats Staub ha condensato e selezionato le conversazioni in una durata approssimativa di 50 minuti l’una. Una selezione di queste viene scelta per ogni istallazione nei diversi luoghi…in un progetto multilingue sottotitolato…in una forma teatrale sia pubblica, sia privata che incoraggia empatia e comunicazione”. (www.matsstaub.com)

Vediamo ora schematicamente una delle conversazioni tra le quali era possibile scegliere a Cividale.

– Elisabetta e Elena, dialogo registrato il 16/01/2022

Elisabetta inizia dicendo di essere nata da un parto cesareo e questo ha di certo condizionato il suo carattere. E’ la prima figlia di sua madre e la terza figlia di suo padre dalla vita sentimentale piuttosto turbolente. Guarda sempre in alto a sinistra mentre parla e ricorda. Continua sostenendo che la nascita è il momento in cui la vita è più vicina alla morte e nel quale possiamo sentire tutta la potenza della forza vitale unica e universale. Il parto è magico e ringraziando dio, le donne possono vivere questo momento con il proprio corpo. Dice ancora che la nascita di suo figlio ha significato la sua morte come figlia, anche perché poco dopo è morto suo padre. Non era più la figlia di suo padre ma prima di tutto la madre del proprio figlio.

Elena è un ginecologo oncologico molto più concreta e realista fino ad un apparente cinismo che, invece, è un’estrema difesa nei confronti della crudeltà della vita. Dice che il parto a volte non è per nulla un attimo di magica felicità; alcuni bambini nascono morti e le madri lo sanno, ma sono costrette ad espellere in un atroce, inutile travaglio, il cadavere del loro piccolo. E’ la morte in utero, la più terrificante delle esperienze che una donna possa vivere. E’ la ferocia della natura che sa essere diabolicamente spietata, a volte la nascita è morte. Essere madre di un bambino morto è un dolore inimmaginabile.

Confessa che la prima volta che, nel suo mestiere, ha assistito ad una tragedia del genere era incinta ed ha a propria volta abortito a causa dello stress.

Alle madri che partoriscono bambini morti in alcuni ospedali si usa regalare come ricordo l’impronta della manina del cadavere su un foglio di carta. Elena ne conserva una sempre sul comodino accanto al letto per ricordarsi di quel trauma.

Elena continua dicendo che dopo il parto ci si ricorda solo dei bambini che vengono gettati nel mondo senza problemi, il resto viene per forza dimenticato. A questo proposito le due donne riconoscono di aver avuto entrambe degli aborti spontanei e di essere riuscite a superarli solamente con delle nuove gravidanze andate a buon fine.

Elena racconta un’altra storia davvero macabra. Ha conosciuto una giovane donna che aveva sempre sognato di diventare madre. Quando le si ingrossò la pancia era contentissima ma in ospedale le dissero che era un grosso tumore dell’ovaio che non perdona.

La ginecologa se la ricorda bellissima e magra con solo un pancione enorme; quando venne a morire in ospedale sembrava all’ultima settimana di gravidanza, non era riuscita a dare quella vita che le fu tolta.

Elisabetta, a propria volta, racconta di aver visto morire per un sarcoma la sua migliore amica a quindici anni e di esserne ancora profondamente segnata.

Elena aggiunge che esistiamo come persone solo quando siamo sani, i malati non ci sono più già prima di morire.

Per sopportare il dolore delle continue perdite nel proprio mestiere dice che per lei i pazienti che muoiono se li immagina tutti uguali, con la carnagione dello stesso colore spento, lo stesso naso, le sembrano tutti degli avvoltoi. I pazienti sono “animali” da cui bisogna difendersi.

Ricorda però, in modo contraddittorio ed estemporaneo, la bellezza del proprio padre nella camera ardente. Era sempre stato bello come un attore del cinema ed era così anche morto.

Dice di non sopportare le morti improvvise che emotivamente sono difficili da gestire, meglio stare a fianco di persone che stanno concludendo la loro esistenza e far loro da spalla accompagnandoli fino alla fine, quasi come un angelo della morte.

Non è mai riuscita a dimenticare un compagno di scuola, bello e dannato, che si suicidò gettandosi dalla finestra quasi d’impulso, senza un messaggio o una spiegazione. Elena lo trova intollerabile e, al ricordo, le sue guance per la prima volta si rigano di pianto. Lo pensa spesso e la fa sentire meno sola. Da allora quando muore qualcuno vuole sempre essere presente.

Elisabetta sostiene d’aver sempre avuto una mamma fragile con una mentalità da adolescente ed un padre altrettanto scapestrato; è sempre la più giudiziosa in famiglia, anche da piccola, tanto da sentirsi la madre dei propri genitori, di due “adulti bambini”. Alla morte del padre ha dovuto accudire sul serio la propria madre senescente regredita ad uno stadio infantile. Dice che in una situazione del genere quando i genitori se ne vanno, un po’ di noi muore con loro ma altrettanto rinasce liberato.

Elena ha capito che le interessava proprio la ginecologia oncologica grazie alla prima anziana paziente che ha avuto durante il tirocinio. Le si era affezionata talmente che la considerava come una zia, morì il giorno del conseguimento della sua laurea.

Elisabetta ha scelto di diventare architetto perché le piaceva l’idea del “fare”, perché è il suo gioco di sopravvivenza nel quale può controllare tutto progettandolo a piacimento. Così riesce ad esprimere tutta la forza vitale che la possiede e che la contraddistingue. Dice che il progetto è per lei come un figlio, quando finisce di disegnarlo è come se partorisse; si intuisce che pensa anche il contrario.

Il loro vero “imprevisto” è, con Cioran, “l’inconveniente di essere nate”. Come diceva Gadda, sono cose da “medico dei matti, fumi e filosoficherie da lasciare ai trattatisti” e, infatti, l’interpretazione del dialogo tra le due metterebbe alla prova anche il più esperto degli psicoanalisti. Noi ci limiteremo a rilevare che nelle stanze al primo piano del Museo archeologico di Cividale, proprio sopra quella del lapidario dove era situata l’installazione, in un ampio salone, trovano posto le ricostruzioni di alcune tra le più significative sepolture scavate nelle necropoli longobarde del territorio.

Possiamo vedere la tomba di un guerriero tumulato insieme al proprio cavallo da battaglia, donne di vario rango con gli oggetti del loro corredo, uomini del popolo con resti di libagioni funebri, adolescenti con i loro giochi e quella di un infante, la didascalia riporta:

“La sepoltura fu rinvenuta intatta nella parte meridionale della collina. Era priva di recinzione e lo scheletro era coperto da pietre di piccole e medie dimensioni. Conteneva i resti di un infante di età tra i 2 e i 4 anni, di sesso non determinabile. Giaceva supino, con il cranio originariamente in posizione frontale e le braccia lungo i fianchi. Le ossa erano molto fragili, schiacciate dalla copertura, incomplete. Sotto lo scheletro si è trovata, uniformemente, una traccia di colore nerastro, probabile resto di materiale organico (tessuto, legno?) utilizzato nel corso della deposizione. In prossimità della tibia sinistra del defunto sono stati rinvenuti frammenti di ossa combuste e, nel riempimento della fossa, resti di carbone, probabili indizi del convito funebre. Il ricco corredo, straordinario trattandosi di una sepoltura infantile, è databile dal VI agli inizi del VII sec.”

Possiamo solo immaginare il grande dolore dei genitori di allora, così come la disperazione della madre. Certo è che non è cambiato molto del nostro rapporto con la vita e con la morte, e le risposte le troviamo ancora solo nel silenzio e nella forzata accettazione di ciò che si manifesta ma non si può dire.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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