Il recente docu-film di Anselma Dell’Olio, selezionato alla 77 mostra del cinema di Venezia, sulla passione per l’esoterismo del grande regista riminese, vanta almeno due primati: è il primo in assoluto a trattare organicamente la cruciale questione e assolutamente la più brutta, inutile e superficiale sequenza di fotogrammi su Fellini.

Il film è stato proiettato per soli tre giorni alla fine di agosto, in un circuito di sale selezionate tra le quali il Visionario di Udine ed è stato meglio così, anche troppo. Chi non ha potuto esserci, non si preoccupi, non si è perso niente.

È necessaria perfino una certa dose di talento per confezionare un prodotto cinematografico così scadente; non basta essere superficiali e pleonastici. Certe catastrofi al cinema, una particolare inettitudine, possono essere perfino divertenti e feconde, basti ricordare Ed Wood di Tim Burton (USA 1994). Ma con Anselma Dell’Olio siamo in tutt’altra dimensione e c’è ben poco da stare allegri.

Chi segue la giornalista nella sua diuturna attività di critica cinematografica, magari anche solo per essersi subito qualcuna delle sue sferzanti, velenose, gratuite giaculatorie durante la trasmissione “Cinematografo” di Gigi Marzullo alla Rai TV, può ben capire di cosa stiamo parlando.

Leggerla, ascoltarla o vedere i suoi lavori sul cinema significa precipitarsi all’indietro in un viaggio nel tempo che ci riporta all’epoca più cruenta della guerra fredda, quando negli Stati Uniti il senatore McCarthy compilava la sua Blacklist e processava sommariamente attori e registi di Hollywood. Il livore anticomunista di cui va fiera è ben noto ed è innegabilmente talmente ossessivo da poter essere quasi considerato un disturbo di carattere psichiatrico, una mania di persecuzione da Manuale di psicopatologia DSM.

Nessuno, però, avrebbe mai immaginato che sarebbe riuscita a reclutare a parole, nella sua falange nera crociata, anche la buonanima di Federico Fellini, vittima secondo lei della persecuzione bolscevica degli intellettuali marxisti che continua a minacciare la nostra paciosa serenità. Incredibile! Secondo la Dell’Olio viviamo da decenni sotto il tallone di ferro della dittatura del proletariato e nemmeno ce ne siamo accorti.

Parliamo a questo punto del documentario in se, altrimenti anche queste righe potrebbero essere scambiate per gratuite cattiverie di uno dei tanti hater, pusillanime leone da tastiera, fuffa cripto-cinefila, oppure potrebbe sembrare troppo l’attacco personale alla critica cinematografica che, in realtà, è davvero, perché come si diceva una volta: “Il personale è politico” e viceversa.

Il biopic è strutturato in sezioni che vengono identificate ognuna con uno dei simboli dell’I-Ching, l’antica arte divinatoria cinese cui Fellini faceva riferimento quotidianamente; il film ripercorre la carriera del regista riminese a ritroso.

Si parte infatti con alcune sequenze strappalacrime e stereotipate della camera ardente allestita nello studio 5 di Cinecittà, con i carabinieri con il pennacchio, il pretino con l’aspersorio e una folla di imbucati, in favore di telecamera, pronti a rilasciare qualunque lacrimevole dichiarazione pur di apparire. Tutto molto felliniano ma non nel senso del complimento.

È ben noto l’interesse dichiarato del regista per l’occulto, l’esoterismo e per ogni forma di superstizione e malia. I suoi film sono ricolmi di riferimenti, palesi o celati, allo spiritualismo, allo spiritismo e alle manifestazioni della religiosità folklorica e popolaresca in perfetta controtendenza con chi credeva che il cinema fosse un’arma di assoluto realismo.

Tutto questo però non giustifica minimamente illazioni e pettegolezzi sulla sua opera cinematografica e sulla sua integrità di artista e di intellettuale. Com’è evidente già a partire da La dolce vita, la contrapposizione tra credulità popolare e pseudo-razionalità borghese è uno strumento narrativo di straordinaria efficacia che permette di analizzare, con riflessioni per immagini ficcanti, la società contemporanea; un modo critico e disincantato, non ideologico ma del tutto personale di guardare alle contraddizioni che schiacciano l’individuo moderno, riassunto dalla straordinaria figura del suo alter-ego interpretato da Marcello Mastroianni.

Lo sguardo di Fellini sulla stantia, fasulla Bohème della Roma di fine anni ‘50, all’approssimarsi del nuovo decennio che spazzerà via ogni illusione, è tutt’altro che divertito e prosaico. Il viaggio che Marcello fa nella notte di via Veneto tra starlettes, paparazzi, mignotte, aristocratici decaduti, intellettuali omicidi, apparizioni mariane con cinepresa, localacci notturni, beghine e ballerine, imprenditori e clown non è un divertissement fine a se stesso; non è una semplice fantasmagoria onirica espressione dei desideri e delle morbosità di un provincialotto piccolo borghese ammaliato dalla grande metropoli tentacolare. Quello è un punto di vista che Fellini ha spesso utilizzato come strumento narrativo proprio per smontare gli stereotipi snobistici dei quali la Dell’Olio non riesce a liberarsi, impedendosi così di guardare in profondità all’opera del genio e condannandosi a sguazzare nel trogolo del pettegolezzo e nella banalità dell’ovvio.

Il suo documentario è costruito con la consueta televisiva americana alternanza tra materiale di repertorio collazionato alla bell’e meglio e dichiarazioni frontali di persone che rivendicano e vantano la propria personale conoscenza o frequentazione assidua con il maestro come se fosse un criterio che certifica una corretta interpretazione della sua arte. Al contrario il fatto di essergli stato così vicino potrebbe causare un grave errore di prospettiva impedendo al giudizio critico di astrarsi dal particolare o dall’aneddoto, contestualizzando scelte e ispirazione in un contesto artistico di respiro più largo.

Ma il documentario ha davvero, in questo senso, il fiato corto e attira il nostro sguardo sul dito che indica senza badare minimamente allo splendore di Selene. Nel minestrone insipido della sua biografia felliniana, la giornalista mescola senza alcun costrutto gli ingredienti più disparati con particolare attenzione agli aspetti scandalistici della vicenda esistenziale e artistica di Fellini; dalle tante zuccherose avventure adulterine con le solite prosperose signorine, alla tenera e burrascosa storia d’amore con la sua “pallina” Giulietta Masina, per proseguire con la morte del loro neonato, crisi e depressioni varie, tic, meschinità, vizi più o meno confessabili.

Lascia sbalorditi, in questo contesto, la leggerezza con cui, nel documentario, si liquida il determinante incontro del Maestro con la psicoanalisi che viene trattato allo stesso modo di quello con la cartomanzia o con le virtù terapeutiche del pendolino. In questo delirio, Jung e Bernhard sono uguali a Gustavo Rol; Freud diventa uno sprovveduto troppo astruso e razionale per capire la vita reale. In questo contesto, le battute di Benigni sull’argomento, montate con indigeribile protervia in una sequenza dove appare perfino un intervista all’anziano Carl Gustav Jung in persona, appaiono decisamente grossolane e fuori luogo.

Proprio nel pensiero di Jung esiste un concetto che Fellini aveva recepito attraverso la Mitobiografia di Bernhard tipico di tutti “coloro che hanno usato la loro arte per cercare di dare un senso ai propri traumi, per ottenere degli effetti tangibili sulla realtà, e per trasformarsi, ricorrendo ad un’alchimia creativa che prevedeva l’interpretazione di un ruolo e la sovrapposizione, calcolata o casuale, di manufatti mediatici, simboli e archetipi. Questo approccio idiosincratico alla coscienza di se ha parecchio in comune con la struttura radicale ipotizzata dallo psicoanalista Carl Jung in riferimento al concetto di Individuazione. In seguito ad un esaurimento nervoso patito nel 1914, Jung aveva introdotto delle tecniche il cui scopo era sintetizzare i vari elementi della personalità in un se più olistico e integrato. Ricorrendo all’esplorazione dei sogni, a una fervida immaginazione, a giochi di ruolo e all’associazione libera, l’individuazione sincronizza gli aspetti soggettivi della propria identità con gli archetipi dell’inconscio collettivo. Secondo Jung e i suoi seguaci, questi substrati psicologici – o maschere, volendo – modellano la nostra comprensione sulla realtà, che ne siamo consapevoli o meno”.i

In sintesi, ognuno di noi costruisce la propria identità attraverso una vera e propria attività creativa a volte inconscia ma nel caso dell’artista del tutto consapevole. Costruiamo noi stessi come un personaggio di una nostra stessa narrazione. Per quello che ne sappiamo, Fellini non è scindibile dal personaggio che lui stesso ha creato di se stesso e che ci ha fatto credere essere reale.

Quella che vediamo nei suoi film, dunque, non è autobiografia in senso stretto ma reinvenzione continua delle proprie esperienze trasformate in quella specie di sogno vigile che è l’arte (Mitobiografia). “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” come diceva quel tale. Per questo la nostra unica realtà è quella sognata. Fellini come ci appare (superstizioso, stravagante, eccessivo, istrionico, danzante ecc.) non è altro che un personaggio caricaturale disegnato dallo stesso regista che ha finito per assomigliargli, in una perfetta simbiosi tra l’opera d’arte e il proprio autore.

Il risultato degli inefficaci sforzi della Dell’Olio è, al contrario, un ritratto grottesco di Fellini come un contadino ignorante, appena sceso dal treno che lo ha portato in città dalla campagna, con ancora gli zoccoli addosso e le fettone di salame sugli occhi. Lo zotico ha finito per credere senza alcun discernimento a qualunque ciarlatano o imbonitore. Il genio del cinema viene rappresentato come costantemente assorbito dalla ricerca di fattucchiere, astrologi e mammane, soggiogato da un’educazione cattolica superstiziosa e idolatra, in buona sostanza, anche lui filisteo e baciapile.

Davvero incredibile anche la topica che prende sul cardinale nella famosa scena delle terme di 8 e ½ che, nell’interpretazione della giornalista diventa una figura ieratica e santificata di mistico cui l’alter-ego del regista sembra votarsi. E’ un venerabile patriarca che indica la strada al peccatore bisognoso di redenzione durante un bagno lustrale. 8 e ½ in questa deformante prospettiva diventa la confessione per immagini di un penitente che, lacrimevole e supplice, invoca l’assoluzione dei peccati, un vero e proprio atto di contrizione con annesse giaculatorie.

Davvero insostenibili anche le arbitrarie estrapolazioni dalle dichiarazioni del Padre gesuita Angelo Arpa, montate e confezionate con l’unico intento di far sembrare Fellini una pecorella smarrita belante pronta a rientrare all’ovile dopo una breve fuga (Extra ecclesiam nulla salus).

Capitolo dolente anche quello riguardante Nino Rota, musicista eccelso ridotto alla stregua di un mestierante collezionista di libri esoterici, in completa balia di un mentecatto tra saltimbanchi, nani e ballerine.

Nelle considerazioni pseudo musicologiche che seguono a queste sequenze viene sfigurato e straziato anche un capolavoro quasi dimenticato come Prova d’orchestra (1978) che diventa solo lo sfogo di un proto-reazionario contro i giovinastri scapestrati che minacciano la vera arte con la loro indole protestataria e ribellistica. Il maglio che sfonda la parete della sala prove nel finale del film rappresenta, in questa interpretazione, la giusta ira di dio che esorta al pentimento con una terribile minacci. In conseguenza, i musicisti rivoluzionari si sottomettono, imbracciando di nuovo i propri strumenti, anche loro pecorelle che ritrovano la retta via al suon di musica seguendo mansuete il loro buon pastore/direttore d’orchestra. Veramente avvilente.

Molto significativo il fatto che in tutto il film non ci sia neppure un minimo riferimento ad un medio-metraggio che pochi ricordano come Toby Dammit, che fornisce una straordinaria chiave interpretativa esoterica dell’opera del Fellini più maturo e scaltro, tratto dal racconto “Non giocare la testa con il diavolo” di Edgar A. Poe. Allo stesso modo, quasi non si accenna nemmeno a film come Satyricon, il Casanova, alla questione cruciale del neorealismo magico di Agenzia matrimoniale (1953) e a tutta l’attività del primo Fellini sceneggiatore e fumettista. Nessun accenno nemmeno a I Clown e a Ginger & Fred e giusto qualche parola di sfuggita su La nave va. Tutte opere che, in realtà, hanno moltissimo da dire sul lato occulto e alchemico dell’opera di Fellini.

Si sottolinea invece più volte nella pellicola, con particolare, compiaciuta protervia, il presunto anticomunismo e anti-marxismo del regista riminese con dichiarazioni che spesso, come dicono i titoli di coda, sono tratte da Il Secolo d’Italia, quotidiano d’estrema destra o da rotocalchi d’epoca di dubbia qualità e moralità. All’uopo vengono asservite anche alcune dichiarazioni estemporanee del regista Terry Gilliam che da quando si è perso in La Mancha (Lost in la Mancha, 2002) non riesce più a ritrovarsi.

Moltissimo spazio viene dedicato al rapporto con lo spiritista torinese Gustavo Rol che Fellini sul finire della vita consultava settimanalmente sobbarcandosi il longo viaggio da Roma. Non c’è alcun dubbio che sia stato un rapporto decisivo per l’arte del regista ma, anche in questo caso, non vi è alcun approfondimento o senso critico nell’analizzare la vicenda.

Senza voler entrare nel merito di un rapporto tra due eccezionali personalità che richiede ben altro approfondimento che queste brevi righe, ci si limiterà a citare una delle lettere che Rol scrisse a Fellini nel quale, oltre che parlargli della possibilità mai concretizzatasi, purtroppo, di fare un film insieme di materia esoterica, il grande sensitivo gli comunicava anche il proprio debito di riconoscenza, mentre la Dell’Olio sostiene a spada tratta esattamente il contrario.

È difficile ringraziare un genio ma è facile aprirsi al suo lato umano. Tu, solamente tu sei immenso, caro Federico, ed ogni istante trascorso con te è qualcosa che si rivela, illumina l’intelletto e conforta il sentimento. In ogni cosa che dici, nei tuoi gesti, sul tuo stesso volto, affiora tutto ciò che la tua mente ha creato e si accinge a fare. Ho sempre creduto che le tue opere siano una impellente necessità che il tuo spirito ha da esprimersi come un generoso dovere verso l’umanità che spera. Anche da parte mia ti giunga il più convinto Grazie!”ii

iCasey Rae, William S. Burroughs e il culto del Rock’n’Roll, Jimenez, Roma 2020, pag. 140.

iiGustavo Adolfo Rol, Io sono la grondaia…Diari, lettere e riflessioni, a cura di Catterina Ferrari, Giunti, Firenze 2000, Pag.175.

© Flaviano Bosco per instArt

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