Brendan Perry ha dichiarato che l’ispirazione per Dionysus (2018), l’ultimo misterioso e seducente concept album dei Dead Can Dance, gli è venuta appassionandosi alla lettura di “Nascita della tragedia dallo spirito della musica” rivoluzionaria opera giovanile di Friedrick Wilhelm Nietzsche.

Quel grande capolavoro cambiò per sempre la prospettiva d’analisi del mito e del mondo greco arcaico, inaugurando una nuova feconda stagione di studi e di interpretazioni. E’ seguendo la traccia di quelle intuizioni, che tanto hanno ispirato da sempre l’arte dei Dead Can Dance, che cercheremo di dare un’idea dell’evento che per due sere consecutive si è tenuto al Gran Teatro Geox di Padova in esclusiva per l’Italia.

Il gruppo di Lisa Gerrard e Brendon Perry ha trasformato quella struttura nello spazio delle loro esibizioni in un tempio sacro sciamanico, i loro non sono stati due concerti qualsiasi ma veri e propri riti apotropaici, evocazioni in musica delle potenti energie ctonie, baccanali nel senso più autentico del termine.

Scrive Friedrich Nietzsche nel suo sopracitato “La Nascita della tragedia” del 1872: “La tragedia sta in mezzo a questa sovrabbondanza di vita, di dolore e di piacere, in estasi sublime, ascolta un lontano e melanconico canto – esso narra delle Madri dell’essere, i cui nomi suonano: follia, volontà, dolore. – Sì, amici miei, credete con me alla vita dionisiaca e alla rinascita della tragedia. Il tempo dell’uomo socratico è finito: inghirlandatevi di edera, prendete in mano il tirso e non vi meravigliate che la tigre e la pantera si accovaccino carezzevolmente ai vostri ginocchi. Ora osate essere uomini tragici. Accompagnerete il corteo dionisiaco dall’India alla Grecia! Armatevi a dura lotta, ma credete ai miracoli del vostro dio!”

Ma procediamo con ordine, senza perderci in divagazioni ancor prima di cominciare la recensione.

Mentre il pubblico stava ancora entrando Jules Maxwell, tastierista dei Dead Can Dance e storico collaboratore di Lisa Gerrard, stava già cantando le sue tristi canzoni come opening act nella seconda serata del main event che avrebbe avuto luogo di lì a poco.

Inizialmente, sembrava che il pubblico vociante non facesse troppo caso al solitario musicista e alle sue storie strappalacrime, in realtà ascoltava con una certa attenzione e compiacimento. E’ davvero un ottimo cantante, anche se non originalissimo, ha delle qualità che lo fanno avvicinare al cantautorato colto di lingua inglese e americana i cui struggimenti vanno da Nick Drake a Cat Stevens, Jackson Brown e compagnia.

Ballad struggenti e nostalgiche sugli anni spezzati e gli amori finiti o sulle vecchie signore che una volta erano bambine, come la canzone su sua bisnonna Lizzy Grand che vide partire il Titanic dal porto di Belfast o sulla cara sorella recentemente scomparsa. Con tutto il rispetto e la comprensione umana possibile, sono belle canzoni di cui si può fare volentieri a meno. Ha inciso anche in duetto con Lisa Gerrard e gliene si può riconoscere il merito anche se di certo rende meglio come tastierista e vocalist in secondo piano che come solista. Il resto della formazione, oltre ovviamente ai due storici leader e il tastierista Maxwell, prevedeva: Astrid Williamson (Tastiere, chitarre, voce) e una scatenata, fantastica sezione ritmica fatta di percussioni d’ogni foggia e latitudine, batteria e basso.

Idioglossia e criptofasia sono i termini tecnici che descrivono, con una certa approssimazione, la particolarissima emissione vocale di Lisa Gerrard, che appare sempre intensa misteriosa, affascinante quanto insensata. E’ una voce che non è necessario comprendere ma che è imperativo ascoltare e sentire. Il suo canto mira a cogliere la melodia arcana che si cela dietro le parole e i loro significati, nelle tradizioni folkloriche, religiose e sciamaniche di tutto il mondo sono racchiusi i misteri iniziatici della voce che crea il mondo. Da decenni la cantante pratica e studia questa forma di ascesi spirituale che è possibile attraverso l’emissione vocale, dallo Om induista al canto gregoriano. Raffinatissimo e fecondo, in questo senso, il lavoro della cantante con Il coro “Le Mystere des Voix Bulgares” inciso in “BooCheeMish” (2017) un album di magia pura.

Per capire i presupposti e l’ispirazione della band dobbiamo rifarci ancora a Friedrich Nietzsche, non per affettazione o per il solito accademismo snobistico, ma perché, come dicevamo, lo stesso Brendon Perry l’ha sostenuto in pubbliche dichiarazioni in modo ripetuto ed esplicito:L’arte dionisiaca suole esplicare effetti di due specie sulla facoltà artistica apollinea: la musica spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca, e in secondo luogo la musica fa risaltare l’immagine simbolica in una suprema significazione. Da questi fatti in sé comprensibili e non inaccessibili a una considerazione un po’ profonda, io deduco l’attitudine della musica a generare il mito, cioè l’esempio più significativo, e precisamente il mito tragico: il mito che parla per simboli della conoscenza dionisiaca…Il dionisiaco, con la sua gioia originaria percepita anche nel dolore, è il grembo comune della musica e del mito tragico.

Al Gran Teatro Geox, puntualissimi i Dead can Dance salgono sul palco tra gli osanna entusiasti del pubblico; scemati gli applausi, due colpi di gong, quella che ha tutta l’aria di una liturgia a tutti gli effetti. Lisa Gerrard intona Yulunga (Spirit Dance) trasformandosi in una vera e propria sciamana, il tramite tra una realtà ancestrale e le profondità del futuro più imperscrutabile.

Alle modulazioni della sua voce il presente secolarizzato e corrotto dal capitale si dissolve in un attimo, la cosiddetta eclissi del sacro sembra solo l’ipotesi di un piazzista di pentolame o di un antropologo sfaccendato. La sua voce angelica e diabolica ad un tempo è sottolineata dalle alte grida di un gabbiano e dalle percussioni tribali e ossessive.

E’ la volta di Brandon Perry, che imbracciato il Buzuki comincia a cantare, con la sua voce baritonale affascinante e suadente, Amnesia pizzicando un’unica nota sulla medesima corda. Sono suoni che non sembrano certo contemporanei ma del tutto arcaici, non appartengono però nemmeno solo al passato più remoto. Il timbro del suo cantato è ancora intatto e fa ripensare alla stagione della New Wave più scura e gotica che generò il fenomeno Dead can Dance.

Perry, in tanti anni, non ha perso un briciolo dello smalto originario. A leggere le interviste che il musicista-cantante ha rilasciato negli ultimi mesi a ridosso della tournée si capisce bene che la sua creatività e il suo talento non sono per nulla esauriti e che anzi, in lui come del resto nella Gerrard permane uno stato di grazia artistica perfino superiore e di certo più consapevole di quello degli inizi.

Mesmerism: Franz Anton Mesmer (1734-1815) era un medico tedesco sui generis, esoterista e studioso di musica a fini terapeutici. I suoni emessi dalla sua Glassarmonica che utilizzava anche in eventi pubblici, secondo lui, curavano gli animi fragili, compromessi anche nel fisico. Di una di queste serate di psicoterapia di gruppo ante litteram scrisse favorevolmente W.A. Mozart. La musica serviva a ristabilire l’equilibrio interiore di quello che Mesmer definiva “Magnetismo animale” l’energia vitale che pervade tutte le creature viventi in connessione con le forze che reggono l’universo-mondo.

Certo non è necessario credere a queste che già nel XIX sec. venivano ritenute fole da ciarlatani del tutto implausibili. Quando però si ascolta Lisa Gerrard percuotere le corde del suo salterio con le bacchette e ci si stupisce ed estasia per i suoi vocalizzi proprio nel brano che evoca le esperienze dell’antico medico svevo, un brivido di stupore e piacere corre ancora lungo la schiena e si viene rapiti da un incredibile stupore.

Mesmerism è magia pura, un vorticoso abbandonarsi dei sensi, arcana luce, musica delle sfere celesti.

The Ubiquitous Mr. Lovegrove: la cantante lascia il palco a Perry e i suoni si fanno subito meno mistici e più malinconici. E’ un’altra ballad notturna arricchita di meravigliosi spezie mediorientali. Il cantante neozelandese nonostante la barba candida ha conservato intatta la propria verve e la vocalità baritonale che lo farebbe riconoscere tra mille.

Persian Love Song (The Silver Gun): è la volta della Gerrard di rimanere sola sul palco; intona una nenia con la voce leggermente effettata da un eco che le regala ancora maggiore profondità. Anche se la tematica è esotica e orientaleggiante, il suo canto sembra il richiamo di una sirena su una scogliera dei mari del nord, i miti delle ninfe delle acque d’altronde uniscono le più diverse latitudini e le voci femminili, ritenute pericolose e tentatrici, risuonano ancora oggi nelle deserte pianure delle steppe iraniche così come in Attica, nella Foresta nera o nella piana del Gange.

La mente va subito al mito di Lorelei, l’ondina confinata in eterno nelle profondità del Reno. La letteratura romantica ne fece una delle proprie eroine (Das Lied von der Loreley di Heine), Lisa Gerrard ha dedicato insieme a Klaus Schulze, recentemente scomparso, un meraviglioso lavoro alle acque lustrali del grande fiume: Rheingold. Live at The Loreley del 2008.

Il concerto ha continuato a proporsi in un gioco di alternanza tra Perry e la Gerrard come è sempre stato nei DCD finchè il gioco ha funzionato; in quasi quarant’anni di carriera, bisogna pure ammetterlo, non tutto ha sempre funzionato per il meglio, le rivalità tra i due che hanno un grande carisma non sono mancate, spesso le separazioni sono state più salutari delle inevitabili reunion. La creatività di entrambi è sempre stata talmente trabordante da essere perfino eccessiva e difficile da gestire nei rapporti interpresonali. La Gerrard e Perry però sono perfettamente consapevoli che l’alchimia che scaturisce dai loro incontri musicali non ha paragoni e anche se a volte le rette della loro arte devono correre parallele, all’infinito s’incontrano sempre.

Gli altri brani del concerto hanno rilevato le tracce di questo incredibile percorso artistico e musicale dai grandi classici immortali come In Power We Entrust the Love Advocated, Cantara, Avatar, The Carnival Is Over, Opium, Sanvean, Bylar, Black Sun, tra i quali spiccava The Host of Seraphim che è forse uno dei momenti più belli di tutto il concerto e della loro carriera.

Dall’ultimo album è stata estratta solamente la meravigliosa Dance of the Bacchantes, che è il terzo movimento del primo atto di una suite di ispirazione progressiva concepita per essere ascoltata interamente senza soluzione di continuità, dal primo al 36:06 minuto finale. A dire il vero, anche se è solo un frammento, questa danza delle baccanti è assolutamente straordinaria e coinvolgente con le sue atmosfere mediorientali e maghrebine, con le sue alte grida di donna e l’incedere metallico del Berimbao, cordofono di origine africana testimone dei secoli e dei millenni.

Scriveva ancora il solito Friedrich Nietzsche nell’opera citata: “Cos’è il canto popolare in antitesi all’epos interamente apollineo? Cos’altro se non il perpetuum vestigium di un’unione dell’apollineo e del dionisiaco? La sua enorme diffusione, che si estende a tutti i popoli e si rafforza attraverso creazioni sempre nuove, è per noi una testimonianza di quanto sia forte quel duplice impulso artistico della natura, il quale lascia le sue tracce nel canto popolare in modo analogo a come i moti orgiastici di un popolo si eternano nella sua musica….Nell’arte dionisiaca e nel suo simbolismo tragico la stessa natura ci parla con la sua voce vera e aperta: «Siate come sono io!»…Come cambia improvvisamente il deserto della nostra stanca cultura, quando lo tocca la magia dionisiaca! Un turbine afferra tutto ciò che è spento, marcio, rotto, appassito, lo avvolge roteando in una rossa nube di polvere e come un avvoltoio lo porta in alto.”

Richiesti a gran voce dal pubblico e generosamente concessi dalla band non sono mancati nemmeno i bis con brani indimenticabili come: Children of the Sun, The Wind That Shakes the Barley, Severance.

Quando si sono accese le luci ed è stato il momento di abbandonare la sala, in file diligentemente ordinate, tutti i presenti si sono resi conto d’aver assistito a qualcosa di unico, non un semplice concerto ma un’esperienza interiore condivisa. Forse non siamo diventati migliori “e che importa se il nostro spirito è perverso e dal nostro dorso penzola un fanale” come dice Branduardi, siamo di certo più felici.

Flaviano Bosco – instArt 2022 ©

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