L’ultima serata della manifestazione udinese ha concluso una tre giorni davvero intensa e partecipata di musica e di suggestioni uniche.

La seconda edizione invernale  della rassegna che da tre decenni innerva la città delle culture e dei suoni del mondo ha consolidato le proprie proposte, naturalmente con un occhio di riguardo per il “continente” afroamericano.

Le menti pensanti di Euritmica che organizzano storicamente questa e altre manifestazioni in Regione non dimenticano mai di essere Associazione culturale nel significato più profondo del termine.

In questo senso, per quanto delizioso possa essere non si fa musica e spettacolo solo a scopo di intrattenimento biecamente ludico.

Ricreare i sensi e divertirsi, svagarsi e distrarsi dalle noie quotidiane è sacrosanto ma non dobbiamo dimenticarci lo spirito nostro e di coloro che ci stanno accanto. La musica, in generale, e il jazz in particolare nelle sue mille sfumature, è sempre stata strumento e veicolo di consapevolezza sociale e di emancipazione anche nelle sue forme più popolaresche e apparentemente svagate. Non serve ricordare come la musica degli afroamericani dai campi di lavoro, dai bordelli e dalle strade sia arrivata nei templi della musica di tutto il mondo e poi nelle università e nei conservatori. Anche se spesso ha fatto il percorso inverso conserva sempre il suo anticonformismo e la sua critica a volte eversiva.

Nicoletta Taricani, Fabrizio Gatti “In un mare di voci”

Nel 1902 Jack London si finse un barbone e visse per alcuni mesi con gli ultimi, i più miserabili dell’East end di Londra. Da quell’esperienza trasse un magnifico e dolente reportage di denuncia sociale di drammatica attualità, “Il popolo dell’abisso” (Mondadori, 1987).

Le nostre metropoli moderne non sono per nulla cambiate, anche se la nostra ipocrita indifferenza ci rende ciechi, molte persone vivono abbandonate nella miseria più tragica mentre noi rimaniamo abbagliati dalle luci sfavillanti delle vetrine nei nostri centri commerciali. Un’umanità dolente vaga per i boschi gelati cercando di raggiungere una terra promessa nella quale poter sopravvivere che gli viene negata a fucilate e filo spinato. Migliaia di disperati affrontano viaggi di migliaia di chilometri con mezzi di fortuna per morire annegati a pochi metri sulle stesse spiagge dove noi ci rosoliamo beatamente al sole a-a abbronzatissimi.

Scriveva London:

“Ogni povero logoro e malconcio, ogni cieco, ogni ragazzino in carcere, ogni uomo, donna e bambino che patiscono i morsi della fame, soffrono perché chi comanda si è appropriato dei fondi. Nessun esponente di questa classe dirigente può proclamarsi innocente di fronte al tribunale umano…Il cibo che questa classe dirigente gusta, il vino che beve, gli spettacoli che allestisce, i raffinati abiti che indossa sono messi sotto accusa da otto milioni di bocche che non hanno mai abbastanza da mangiare e da sedici milioni di corpi che non sono mai stati vestiti a sufficienza e alloggiati in modo decente”.

Nessuno può dirsi oggi innocente per i milioni di migranti che fuggono da paesi che il nostro imperialismo depreda da secoli senza alcun freno perché, come diceva Machiavelli, siamo tutti: “Ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’pericoli, cupidi di guadagno”.

Cento anni dopo London, Fabrizio Gatti, fingendosi profugo, ha affrontato il viaggio dei disperati che attraversano il Sahara per finire a fare gli schiavi nei nostri campi di pomodori del Meridione d’Italia peggio dei braccianti di Di Vittorio o nelle vigne di bollicine del ricco nord est.

Bilal – Viaggiare, lavorare, morire da clandestini (Rizzoli 2007) è il resoconto di quell’esperienza, un classico ormai del giornalismo d’inchiesta nel nostro paese, uno dei libri più sconvolgenti e necessari degli ultimi decenni. A vent’anni da quella denuncia così vibrante e sconvolgente che ha scavato a fondo nelle coscienze di ognuno, almeno così sembrava, non è cambiato niente di niente, anzi il problema è diventato endemico e a chi sfrutta quelle anime dannate e disperate fa proprio comodo, basta leggere la notizia che in questi giorni campeggia su molte testate:

Da La Repubblica: Caporalato a Foggia, la moglie del prefetto Di Bari e gli altri in “apparato di sfruttamento quasi perfetto”. Braccianti stipati in auto e 5 euro per un cassone di pomodori

I metodi per risparmiare sulla forza lavoro e quelli per aggirare i controlli nell’ordinanza che ha portato a 16 misure cautelari: cinque persone sono finite in carcere, per le altre obbligo di dimora e firma. Tra loro anche Rosalba Livrerio Bisceglia, moglie di Michele Di Bari che fino alla notizia dell’inchiesta era a capo del dipartimento Immigrazione del Viminale.

Tutto questo orrore ha ispirato alla talentuosa vocalist Nicoletta Taricani un progetto musicale per un ensemble di ben 15 elementi compreso un quartetto d’archi. Generosissimo, Fabrizio Gatti si è prestato per alcune letture sceniche sul palcoscenico del Palamostre e per una chiacchierata introduttiva. Tanto impegno e tanto talento hanno prodotto uno spettacolo che funziona solo a metà, sempre sopra le righe e fin troppo ambizioso che, dal punto di vista scenico e anche musicale, per essere davvero efficace avrebbe bisogno di essere ridimensionato e calibrato fino a renderlo più intimo e riflessivo.

Apprezzabile lo sforzo ed encomiabili gli intenti ma il risultato ha delle sguaiatezze e delle cadute di gusto che non gli rendono merito. Sono tutti ottimi interpreti e la Taricani ha una voce all’altezza della situazione ma lo spettacolo non funziona e non sa convincere. Alfonso Deidda al sax contralto è apparso a dir poco confuso, quasi assente, nemmeno lui in buona sostanza è riuscito a dare una direzione al succedersi delle composizioni, alcune delle quali ispirate ai lavori di tutt’altro spessore del batterista Antonio Sanchez.

Andrea Motis Trio. Andrea Motis: Voce e tromba; Traver Llado: chitarra; Giuseppe Campisi: Contrabbasso.

Tutt’altra aria si respirava durante la straordinaria performance della “trombettista che canta o della cantante che suona la tromba”. Andrea Motis possiede un’eleganza naturale incantevole; appare minuta e perfino esile ma non appena inizia a cantare e suonare rapisce letteralmente i cuori con la sua forza interpretativa e il suo fare ispirato da angelo adolescente. Molti paragonano il suo modo di soffiare nello strumento e il suo cantare a quello dell’ultimo Chet Baker e non si sbagliano per niente, la magia sembra la stessa.

Dipende in gran parte dal fatto che la Motis, pur essendo un ottima musicista, non possiede una gran forza polmonare che le permetterebbe intonazioni perfette e quel suono di squilla potente e preciso che caratterizza il virtuosismo con quello strumento. Le sue intonazioni sono sovente provvisorie e spesso trascinate, leggermente imprecise com’erano quelle di Chet negli anni ‘80. Anche il cantato risente della delicatezza della sua conformazione. La sua classe ricorda nettamente quella di Audrey Hepburn, non si riesce a staccarle gli occhi di dosso e ci si fa trascinare dalla sua dolcezza e dalle sue notevoli doti interpretative; ha le mani talmente piccole che riesce a infilarne una dentro una delle curve della tromba così che quando canta la tiene al polso come una borsetta. Anche i due musicisti con i quali s’accompagna non scherzano in quanto a preparazione. Llado alla chitarra sa creare perfette atmosfere senza mai cedere alle lusinghe dei virtuosismi fine a se stessi così come Campisi al contrabbasso è geometrico e concreto.

La Motis non è per nulla una ragazzina alle prime armi ed ha una padronanza perfetta della propria voce e del palcoscenico. Ha il portamento di una ballerina classica e la sua tromba ha un timbro fantastico, niente potenza o suoni per nulla muscolari, la sua è una grazia infinita, è una Gelsomina di Fellini di gran mestiere; le sue lievissime imprecisioni, volute e cercate, aumentano il fascino della sua esecuzioni. Il repertorio che affronta va dalla musica pop di gruppi catalani agli standard del jazz o della canzone francese, cubana fino a quella brasiliana; non si concede un attimo di tregua ed è riuscita a tenere tutto il concerto senza la benché minima sbavatura e per non farsi mancare niente, nel finale, si è esibita anche al sax soprano. E’ stata, in parole semplici, davvero meravigliosa.

Il suo fascino, la sua musica e la sua voce sono stati la degna conclusione di una rassegna di grande significato che avrà per sempre nel ricordo il sorriso luminoso di una piccola fata del jazz chiamata Andrea.

Flaviano Bosco © instArt

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